Dopo un quarto di secolo di attenzione per cosi' dire "esterna" alle vicende della Bulgaria (dall'arresto di Marco Pannella nel 1968 fino al caso Filipov ed oltre con la visita di Adelaide Aglietta come presidente degli osservatori del PE), circa un anno fa il Partito radicale decideva di investirvi in modo piu' costante le sue risorse umane e finanziarie, con un insediamento politico ed una presenza fisica continuative nel paese, motivate dal positivo, pressoche' immediato riscontro di interesse nelle tematiche radicali, soprattutto a cominciare dalla Assemblea Nazionale, il parlamento monocamerale bulgaro, dove si sono iscritti al Pr decine di deputati appartenenti a tutti i tre gruppi parlamentari e a quasi tutti i partiti in questi gruppi coalizzatisi.

Ed e' infatti certamente questo il dato piu' significativo della presenza politica del Pr oggi in Bulgaria: la caratteristica transpartitica del nuovo partito transnazionale, attraverso la partecipazione di esponenti di primo piano della scena politica bulgara, non di rado tra loro in grande contrasto come e' connaturato e salutare alla tensione democratica, ma non privi della reciproca tolleranza che, nella ricchezza delle differenze e nell'interesse comune del paese, li unisce laicamente nel partito degli Stati uniti d'Europa. Oltre ai due membri di governo (il vice primo ministro - anche ministro del commercio - e il ministro dell'industria), tra i quaranta parlamentari che su un totale di 240 danno al transpartito il potenziale di una forza del 17%, ne contiamo oggi:

- 14 appartenenti al gruppo parlamentare del Partito socialista bulgaro o indipendenti comunque eletti in questa lista (equivalente al 13.2% sul totale del gruppo); e' da rilevare che la gran parte di questi appartengono alla frazione Alleanza per la social-democrazia, compreso l'intero vertice di questa forza in seno al Psb (il presidente Chavdar Kiuranov, il vice-presidente Aleksander Tomov, il segretario Rossen Karadimov, i dirigenti Sonia Mladenova, Philip Bokov deputato al Consiglio d'Europa e responsabile delle relazioni internazionali, ed Elena Poptodorova, italianofona responsabile delle relazioni pubbliche); tra gli altri annoveriamo Yovcho Russev, economista particolarmente interessato al problema dello sviluppo Nord-Sud, e Yanaki Stoilov, recentemente candidato ufficiale dei socialisti, ma senza successo, a presidente del parlamento.

- 3 appartenenti al Movimento per i diritti e le liberta' (12.5% sul totale del gruppo), la forza politica largamente rappresentativa della minoranza turca e che occupando una posizione centrale in un contesto di "muro contro muro" tra destra e sinistra ha sempre avuto buon gioco a costituire l'indispensabile ago della bilancia per fare maggioranza in parlamento, fino al ruolo-chiave svolto nella soluzione trasversale della lunga crisi di governo; essi sono il vice-presidente del parlamento Kadir Kadir ed i due segretari del gruppo parlamentare, Remzi Osman e Ilhan Mustafa.

- 23 appartenenti alla Unione delle forze democratiche (20% sul totale del gruppo), la coalizione di maggioranza relativa formata da 15 partiti e fondata sul comune collante anticomunista; tra di essi:
- l'indipendente Sasho Stoyanov (arrestato nell'estate del 1968 - allora diciassettenne dirigente della gioventu' comunista - quasi contemporaneamente a Pannella e per la stessa ragione);
- il presidente di uno dei partiti agrari bulgari (comunque il solo attualmente rappresentato in parlamento) Georgi Petrov, gia' noto per la posizione esplicita contro la pena di morte;
- i deputati Emil Kapudaliev e Rumen Urumov del Partito radical-democratico e diversi deputati del Partito social-liberale alternativo (il medesimo dei due ministri);
- il liberale Krassimir Stefanov, sostenitore del sistema elettorale uninominale-maggioritario di tipo anglosassone;
- alcuni deputati del Partito social-democratico che ultimamente sembrano avere ammorbidito le posizioni anti-socialiste piu' rigidamente intransigenti che avevano qualificato l'intervento di Sviliana Zaharieva al Consiglio federale immediatamente seguito alla prima sessione del Congresso.
Risultano inoltre iscritti al Pr due ex-ministri e altri tre ex-deputati della precedente Assemblea Costituente.

Ma se la battaglia federalista europea e' senza dubbio la principale ragione per la quale i deputati bulgari hanno con entusiasmo aderito al Pr, altri importanti motivi di interesse - pur non unanimemente condivisi - sono costituiti dalle posizioni radicali sul sistema elettorale anglosassone e sull'abolizione della pena di morte. I documenti finora tradotti in lingua bulgara e distribuiti ai deputati sono stati nell'ordine: i materiali sullo statuto di Cicciomessere e Strik-Lievers; la mozione Bosnia-Erzegovina, primo firmatario Pannella; il dossier anglosassone sul sistema elettorale uninominale-maggioritario; il documento Dupuis in corso di elaborazione su federalismo e nazionalita'.

La forte presenza nel parlamento monocamerale bulgaro - notevole sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo - pur richiedendo una doverosa attenzione non ha tuttavia impedito di svilupparsi in piu' ampi settori della societa', con prestigiose iscrizioni provenienti dal mondo della scienza e della cultura o da quello del giornalismo, e iniziando una per ora timida ma promettente penetrazione del messaggio radicale tra la cossiddetta gente comune, fino a conseguire e oltrepassare l'obiettivo di cento iscritti al Pr in un paese che non ne aveva mai contati prima.

Il conseguimento di questo primo risultato - cento iscritti - facilita l'elaborazione di qualche statistica utile a fornire un quadro della composita situazione del Pr in Bulgaria: l'eta' media risulta di 38 anni; per il 25 p.c. si tratta di persone di sesso femminile; non trascurabile il tasso di presenza di esperantisti, circa il 16 p.c.; quattro iscritti su cinque vivono nella capitale Sofia e solo uno su cinque in altre localita' del paese; oltre il 10 p.c. degli iscritti ha versato una quota di iscrizione pari a quasi il doppio della minima richiesta.

Per quanto riguarda l'autofinanziamento, se da un lato siamo ancora ben lontani dal poter coprire i peraltro contenuti 18 milioni di lire di spese annue di gestione della sede e delle attivita' politiche, d'altra parte i circa 300 dollari provenienti da iscrizioni e contributi consentono di poter sperare in un progressivo restringimento della forbice entrate/uscite, gradualmente nei prossimi anni: per il 1993, un aumento del numero di iscritti ed anche della quota minima di iscrizione potrebbe ragionevolmente portare un autofinanziamento di un migliaio di dollari, ancora largamente insufficienti ma niente affatto trascurabili, trattandosi di un paese povero.

Questo positivo feed-back di deputati e cittadini ha indotto ad intensificare gli sforzi del Partito sul nuovo "fronte bulgaro" del progetto transnazionale, con l'apertura nel luglio scorso di una piccola ma efficiente sede, attrezzata con un computer e un telefax, dove lavorano una segretaria-interprete a tempo pieno ed una seconda segretaria part-time, avvalendosi della collaborazione esterna di altri traduttori: sono stati gia' tradotti gli atti del convegno "Costi del proibizionismo" ed e' in corso la traduzione del "Numero unico" sul Pr. Tra le altre attivita', sono stati introdotti nell'archivio migliaia di indirizzi qualificati, portando il totale bulgaro a circa dodicimila.

Sul piano piu' generale della situazione del paese nel contesto europeo, e balcanico in particolare, e' opportuno segnalare che alle gravi difficolta' determinate dalla crisi economica si e' aggiunta l'instabilita' politica determinata da una lunga crisi di governo appena risoltasi con la formazione di una inedita maggioranza trasversale che facendo perno sulla centralita' del Movimento per i diritti e le liberta' accomuna oggi le frazioni meno estremiste sia della destra che della sinistra socialista, in un equilibrio un po' delicato che lascia aperta la possibilita' di elezioni anticipate in primavera.

Dal punto di vista geopolitico la Bulgaria resta comunque un elemento di stabilita' nella tormentata regione balcanica; le tensioni etniche, pure esistenti con le minoranze turca e zingara, non sono esasperate come nei paesi confinanti. Il Movimento per i diritti e le liberta', gia' duramente contestato come incostituzionale (la Costituzione vieta i partiti etnici), guidato da dirigenti dotati di intelligenza politica ha dato prova di responsabilita' sia nella gestione dell'ultima fase della crisi di governo che piu' in generale nella ragionevolezza di non eccessive rivendicazioni. Per gli zingari, che vivono in pessime condizioni economiche, di scolarizzazione e di qualificazione professionale, vi sono degli sforzi di dialogo e comprensione abbastanza pregevoli da parte della Presidenza della Repubblica, frustrati pero' anche a causa delle divisioni in seno alla stessa comunita' zigana.

L'elemento di relativa stabilita' politica e tolleranza etnica vale anche sul piano esterno nel contesto della regione bacanica: la Bulgaria e' l'ultimo paese che i nazionalisti belgradesi si sognerebbero di attaccare militarmente; d'altra parte il pericolo di un ingresso in guerra della Bulgaria nel caso in cui i serbi attaccassero la Macedonia (oppure la destabilizzassero demograficamente attaccando la Kosova e quindi provocando la Bulgaria contro gli albanesi e mettendola in una imbarazzante situazione di quasi-alleanza con i serbi stessi) sembrerebbe poco probabile a verificarsi - anche se non impossibile -, per la semplice ragione costituita dalla forte presenza politica degli americani nel paese, a sua volta motivata dalla favorevole posizione geografica della Bulgaria verso il medio oriente; in altre parole, il giorno in cui la Turchia dovesse rivelarsi un alleato poco affidabile, per di piu' dotato di un esercito un po' troppo forte, gli americani potrebbero anche arrivare a potersi permettere di disfarsene, disponendo gia' nel baule del carro armato della migliore ruota di scorta disponibile in zona, un pneumatico bulgaro pronto a fornire ottime perfomances di attitudine e tradizione anche militari.

In questo quadro socio-economico interno e geo-politico su piu' vasta dimensione, l'attivita' del Partito radicale si innesta con buone prospettive di sviluppo del partito stesso come pure delle sue battaglie, in sintonia con una linea comune agli altri paesi di attivita' politica radicale, senza che alcun elemento specifico nazionale intervenga a dirottarne le priorita'; tutt'al piu' alle tematiche di lavoro gia' citate sopra - federalismo e nazionalita', abolizione della pena di morte, sistema elettorale anglosassone -, si possono aggiungere l'antiproibizionismo sulla droga, sul quale sembra opportuno iniziare una politica di diffusione degli argomenti radicali quantomeno ad un livello di informazione presso il ceto politico ed il mondo scientifico; da non trascurarsi sarebbero anche i problemi ambientali.

Infine una breve considerazione sulla confinante Repubblica di Macedonia, culturalmente e storicamente molto vicina alla Bulgaria: il progetto ipotizzato da Dupuis per una ferrovia transbalcanica Durazzo-Tirana-Skopje-Sofia ed oltre, potrebbe essere il primo passo per lanciare una proposta di federazione anche politica tra i tre paesi (Albania, Macedonia, Bulgaria).

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 1

5 APRILE: CHE COSA NON C'ERA?

Tra le "novità" delle elezioni politiche dell'aprile 92 vi è stata la comparsa, o meglio l'invenzione del "partito che non c'è".
Se spesso è difficile definire e qualificare un partito che, bene o male, c'è (e sembra che diventi sempre più difficile) a maggior ragione è difficile definire il " partito che non c'è". Né sembra che gli inventori, ché più di invenzione che di scoperta dovrebbe trattarsi, abbiano contribuito, poi, molto efficacemente a chiarirne i contorni.
D'altra parte la fortuna dei neologismi e delle formule politiche adottati dalla stampa sta assai spesso nella loro ambiguità, nel dire tutto e il contrario di tutto, nel lasciar intendere ciò che piace agli uni e agli altri.
Di queste espressioni è più facile ricordare le circostanze in cui sono venute in uso che non stabilire un esatto significato.
L'espressione "partito che non c'è" è apparsa nel momento di massimo discredito delle forze politiche di governo ed anche di quelle d'opposizione, accomunate con le prime per il meccanismo consociativo e l'omologazione nei metodi lottizzatorii e, soprattutto dalla generalizzazione nella constatazione della corruttela e delle prevaricazioni.
Ma dire che del "partito che non c'è" si è cominciato a parlare nel momento culminante della crisi dei partiti tradizionali non è, poi, del tutto esatto, perché in realtà quando si è profilato lo scioglimento anticipato, se pur di poco, delle Camere, poi intervenuto, gli alibi ed i diversivi rispetto alla protesta ed alla disaffezione nei confronti del sistema politico avevano cominciato a sortire qualche effetto, riducendo la portata o quanto meno l'effetto di tale atteggiamento della pubblica opinione. Anche grazie, si deve dire, al "partito che non c'è", o meglio grazie al fatto che non ci fosse, e ciò per una serie di implicazioni di questa constatazione, apparentemente così aderente ai sentimenti e risentimenti dell'opinione protestataria, ma in realtà invitante ad una rassegnazione pubblica e ad un "realismo", sui quali ha sempre potuto contare il regime democristiano.
Il "partito che non c'è", infatti, evoca quello che gli altri non sono, quello che dovrebbero essere, quello che dovrebbe essere il partito capace e meritevole di batterli, metterli da parte e sostituirsi ad essi nella gestione del potere. Ma sottolinea pure, con assai maggiore immediatezza, il fatto che tale partito non è una entità reale ma solo la proiezione di pii desideri della gente e che anche le forze politiche nuove non Possono aspirare a tale ruolo, anzi, a tal fine, proprio non esistono.
Ad aggravare questo significato negativo, rispetto a prospettive di cambiamento, di questa espressione, ci si sono messi i suoi inventori. nello sforzo di darle concretezza almeno relativa. Il partito che non sarebbe comparso sulla scheda del 5 aprile, sarebbe stato però un partito trasversale, una specie di lista dei "buoni e degli onesti", candidati dei vari Partiti, impegnati ad un'opera di rinnovamento e di purificazione della politica, a contrastare ed avversare la partitocrazia e la corruzione ed a sostenere le riforme . così concepito era ed è ancor istituzionali. E' chiaro che un partito più inesistente di quello che non c'è e basta, non per il carattere trasversale in sé, ma per l'assurdità di una trasversalità offerta all'elettorato che cerchi di realizzare un’alterativa e di fronte al problema, che è poi centrale nella vita politica del nostro paese: la mancanza di una reale alternativa, che si protrae da poco meno di mezzo secolo.
Ridurre il "partito che non c’è " ad un partito che c’è ma non si vede e non si sente perché è all’interno di un po' tutti i partiti (e, guarda caso, all'interno specialmente dei partiti tradizionali, della DC, etc.) significa negare la portata politica del problema, le responsabilità storiche della DC e del sistema politico da essa instaurato e mantenuto, ridurre la questione dell’alterativa e del ricambio ad una mera questione di moralizzazione e di generazioni. In altre parole significa ridurre protesta, sfiducia, domanda di cambiamento ad un problema interno dello stesso sistema di potere, se non addirittura ad una questione metapolitica, per un verso etica e per l'altro di ingegneria costituzionale.
Ecco allora che anche le espressioni, le aspirazioni e, magari, i luoghi comuni del dissenso e della protesta hanno filato per fingere da alibi e da diversivi, attraverso le deformazioni e strumentalizzazioni certamente non casuali. Del resto di alibi e diversivi occorre parlare anche e soprattutto a proposito di riforme istituzionali.
Riducendo un discorso tanto complesso ad una battuta, si avrebbe voglia di dire che la gente vuole cambiare gli istituiti e le si offre di cambiare le istituzioni.
Certamente il fatto che la prospettiva di un mutamento sostanziale dei rapporti di forza tra i partiti politici debba comportare una riforma costituzionale o debba passare attraverso di essa, costituisce la riprova, se ve ne fosse bisogno, che quello esistente nel nostro paese, quello costituito attorn alla Democrazia Cristiana, è un regime nel quale detenzione del potere e poteri dello Stato, partiti ed istituzioni si confondono. Ma è pur vero che questo regime si fonda, in larga misura, su di una deformazione degli istituti costituzionali, sulla sovrapposizione di istituzioni di fatto a quelle della Costituzione scritta. Se questo è vero, allora è dei tutto chimerico pensare che per smantellare le istituzioni di fatto, prime fra tutte la partitocrazia, la lottizzazione, il consociativismo basti cambiare, o semplicemente sia utile e producente, oggi, cambiare le istituzioni già sopraffatte e vanificate. Ma soprattutto è chimerico pensare ad una riforma istituzionale che preceda il sovvertimento dell'attuale egemonia politica e che sia altra cosa che un mezzo per rafforzare e puntellare tale egemonia. Un discorso identico può essere fatto a proposito, delle riforme elettorali. Eppure molte energie e molte parole sono state spese e sprecate nelle elezioni del 5 aprile '92 inseguendo questa chimera.
A questo punto sarebbe del tutto legittima una considerazione che può sembrare un tantino masochistica se fatta da chi scrive queste pagine, su questo soggetto e con questo titolo. Che tanto si discuta di un partito che non c’è, può apparire il colmo del bizantinismo e dell'inconcludenza, una manifestazione di incorreggibile predilezione per l'utopia, una fuga dalla realtà.
Ma la realtà politica non è fatta solo di partiti organizzati, di movimenti definiti, di aspirazioni soddisfatte e di spinte coerenti, né i cambiamenti operano con moto costante ed univoco.
La realtà è fatta anche del vuoto ed a maggior ragione la percezione della realtà comprende anche quella dell'inesistente, senza il quale il reale non ha confine né forma.

Perciò, con tutti i suoi equivoci e contraddizioni ed anche con tutti i suoi inganni, la scoperta del "partito che non c'è" o, se si preferisce, la sua invenzione, hanno rappresentato un fatto positivo, un dato di conoscenza e di riflessione. Quanti oggi e domani dovessero dimenticarlo, dimenticare, magari che milioni di italiani quel partito l'hanno cercato e non hanno accettato facilmente e volentieri che non ci fosse, potrebbero compiere un errore, forse molto grosso.

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 2

ALLE ORIGINI DEL REGIME


I giornali che, all'esito delle elezioni del 5 aprile '92, hanno annunciato in grossi titoli la fine di un'epoca (salvo a tornare, dopo pochi giorni, alla cronaca politica all'insegna della continuità) hanno certamente omesso di ricordare due date che contraddistinguono quell'epoca, sia essa o meno da considerare finita.
La prima data è quella del 18 aprile 1948, che segna l'inizio dell'epoca, dell'era democristiana.
La seconda è quella del 13 maggio 1974, quella del referendum sul divorzio, che all'epoca democristiana tolse il supporto di un'ideologia, cancellò lo specifico clericale della realtà politico-culturale italiana, lasciando tuttavia in piedi il regime, che, svuotato dell'ideologia del partito che ne rappresentava l'architrave, si ripiegò da allora su se stesso, sempre più caratterizzato dal programma, se così si può dire, e dai metodi dell'autoconservazione, del consociativismo, della lottizzazione.
Quella del 18 aprile 1948 non fu solo una scelta occidentale, nel clima oramai cupo della guerra fredda. Fu una scelta clericale, con la quale il paese, uscito dalla sconfitta e frastornato dai problemi delle responsabilità, dei vuoti, delle incongruenze e contraddizione lasciati dal fascismo e dalla guerra, cercava un ancoraggio ed alcune certezze. Un po' tutte le forze politiche in campo sentivano di non avere in sé forza e credibilità per le soluzioni e gli sbocchi necessari. Se a sinistra si "aspettava Baffone", fuori di tale area la paura non solo di Baffone, ma della propria debolezza, spingeva orfani del fascismo e della monarchia, antifascisti velleitari e d'occasione, masse disorientate e prive d'ogni altro punto di riferimento, a rifugiarsi in una scelta metapolitica, come tale capace di fornire un'apparenza di distacco dalle responsabilità del passato e del presente.
Parlando di quel lontano 18 aprile si evoca spesso l'atmosfera di crociata. Ma allo stesso tempo il paese visse allora una crisi di stanchezza, una voglia estenuante di deresponsabilizzazione. Tutto ciò consente di comprendere come in tali contingenze non potesse sorgere una classe politica ed un nuovo assetto ricco di senso dello Stato, improntato a rispetto autentico dei principi politici e costituzionali che il Paese si era dati o si era lasciati dare.
Né lo spirito di crociata, né la voglia di rifugio e di deresponsabilizzazione potevano produrre rigore e coerenza nella vita pubblica democratica, rispetto per le regole del giuoco e disponibilità alle alternative.
Le elezioni del 1948 furono rappresentate come "l'ultima spiaggia" della libertà e della democrazia. Ma quelle che seguirono non lo furono da meno. Elezioni democratiche, purché le vincessero i democratici, cioè i democristiani con i loro alleati. La democrazia reale, dunque, consisteva nell'assicurare comunque la vittoria dello schieramento democratico.
Si è fatto un gran parlare negli ultimi tempi, della vicenda Gladio, una vicenda tipica del "dopo quarantotto" della democrazia da guerra fredda, della politica delle doppie verità, dei risultati e delle maggioranze prestabiliti e garantiti. Ma se Gladio, oltre che un po' in ritardo, sembra essere stato espressione di un velleitarismo guerrigliero, non molto più credibile dell'attesa dei risultati del 18 aprile con la pistola in tasca, di cui ci ha parlato Cossiga in vena di ricordanze sassaresi, vi furono strumenti allora acquisiti per tener lontani i comunisti dal potere, molto più efficienti ed indiscutibilmente meno legittimi di Gladio, che hanno lasciato tracce profonde nel sistema politico che si è andato sviluppando a seguito di quella prima, clamorosa vittoria della DC.
Se la "democrazia reale" importava la necessità delle vittorie della DC e dei suoi alleati, i mezzi per assicurare tali vittorie venivano a far parte delle "istituzioni di fatto". In primo luogo il danaro. Se la macchina della Chiesa si era mossa senza alcuna remora per assicurare il successo della DC nella competizione per la prima legislatura della Repubblica, con effetto determinante, le disponibilità finanziarie larghissime non avevano avuto un ruolo molto minore, né lo ebbero nelle prove elettorali successive. Ma se il finanziamento della campagna del '48 era potuto avvenire, per così dire, sullo slancio, data la percezione del pericolo da parte dei grandi interessi industriali e, in minor misura, agrarii, la continuazione dello sforzo a sostegno del partito di maggioranza e dei suoi satelliti negli anni successivi non fu altrettanto semplice e spontanea. La crociata, con tutte le sue implicazioni, promossa, legittimata e benedetta dalla Chiesa, non poteva non comportare legittimazioni e benedizioni anche per i mezzi necessari per sostenerla. Ricavare dal potere il danaro necessario e gli altri strumenti per mantenerlo, se mantenerle ad ogni costo diveniva un comandamento della fede e della scelta di campo nella guerra fredda, diveniva a sua volta non solo lecito, ma doveroso, non meno che armarsi per far fronte ad una eventuale vittoria dei "rossi", o all'"eversione".
La tangente nasce così come una sorta di "decima", percepita da cattolici e laici per un fine, comunque, benedetto dalla Chiesa.
Bisogna dire, infatti, che i partiti laici cooptati nel sistema di potere DC, non tardarono ad adottare l'imitazione di questo antico istituto canonico nella rinnovata sua consacrazione. E dall'America non mancarono gli incentivi e le occasioni per questa via del "rafforzamento" della democrazia (eravamo, del resto, negli anni del maccartismo) se sono vere le storie e se non abbiamo perso la memoria di affari di forniture di navi "Liberty" etc. etc.
Si può dire che le tangenti degli anni cinquanta erano poca cosa per entità, estensione e complessità rispetto a quelle di oggi. E' vero anche che la successiva creazione di grosse e piccole baronie nei partiti e nelle amministrazioni, gli assetti complicati delle lottizzazioni, la sopravvivenza di nuovi equilibri politici, del consociativismo, etc.etc. hanno profondamente mutato la natura e la funzione della tangente, con una evoluzione che ricorda, appunto, quella delle decime, ad un certo punto distinte in sacramentali e patrimoniali ed entrate a far parte del complicato sistema di potere economico-politico feudale.
Mentre sulla "scoperta" di Gladio si è levato grande scalpore, quando, tutto sommato ci sarebbe stato solo da scandalizzarsi per il carattere velleitario ed assai poco convincente di tale apparato degli anni della guerra fredda, nessuno sembra che voglia ricordare che con le stesse giustificazioni, nella stessa atmosfera, dagli stessi partiti e, operanti o consenzienti, dagli stessi uomini, furono messi a punto assai meno confessabili strumenti di scavalcamento della democrazia formale, in nome della "democrazia reale" e delle necessità della guerra fredda. Può oggi sembrare oziosa ed un tantino patetica la ricerca dell'origine, per così dire. ideologica del sistema delle tangenti nei primi anni del regime democristiano. Si può dire che, se "pecunia non olet", essa non ha bisogno neppure del profumo delle giustificazione ideologiche e storiche. Sarà certamente così per i destinatari delle tangenti per gli esattori e per gli stessi contribuenti.
Ma se il sistema ha potuto svilupparsi come si è sviluppato e porre radici tanto profonde, ciò è dovuto all'assuefazione della gente e, prima di essa e quale causa di essa, ad una larga tolleranza ed ad una più o meno esplicita "comprensione" della sua "necessità", se non alle discrete assoluzioni e benedizioni assai più diffuse e frequenti di quanto oggi non si voglia e non si possa ammettere.
Un discorso non molto diverso dovrebbe farsi per le lottizzazioni, le clientele, i favoritismo nell'assegnazione di posti di lavoro, di cariche e di incarichi. Il nostro paese non conobbe le epurazioni maccartiste, con le loro tragedie e le loro sceneggiate. Ne conobbe però l'inverso: il privilegio e la sopraffazione, i favori alle persone "fidate", immuni da pecche e garantite nella loro piena disponibilità alla "buona causa" da parroci, vescovi, partiti.
Dopo il 18 aprile del'48 si ebbero conversioni talvolta grottesche, spesso assai poco convincenti. Funzionari dello Stato e dei mille enti scoprirono gli esercizi spirituali, le "settimane sociali", l'Azione Cattolica e magari qualche "terz'ordine", come in passato avevano scoperto la bellezza delle adunate e l'entusiasmo per i concorsi ginnici per gerarchi e gerarchetti, i littoriali etc. etc.
Se il maccartismo si accanì sul passato di attori e funzionari, pretendendo abiure e delazioni, il maccartismo all'italiana si accontentò volentieri del presente, chiudendo sul passato un occhio ed anche tutt'e due. Così per più di un figliol prodigo della democrazia, del cristianesimo se, per discrezione, non fu decretata l'uccisione del classico vitello grasso, fu tuttavia riservato un posto a tavola di tutto rispetto.
La connotazione clericale del regime fu in quegli anni assai marcata e sostanzialmente incontrastata. Già prima del 18 aprile, alla Costituente, l'approvazione dell'articolo 7 della Carta sulla conservazione del Concordato, aveva dato il segno della rassegnazione e della furbesca disponibilità dei laici. Ma dopo il trionfo della DC alle elezioni per la prima legislatura repubblicana prevalse il convincimento che le masse cattoliche fossero impenetrabili a qualsiasi formula, convincimento, emozione politici, che non fossero quelli del partito cattolico, cui dovevano considerarsi appartenere per inalterabile destinazione.
Dallo shock del 18 aprile nacque per la sinistra, e per il PCI in particolare, la politica del "dialogo con i cattolici", massimo obiettivo raggiungibile, fondato e finalizzato sulla gestione di rivendicazioni essenzialmente economico-sindacali recepibili anche dai lavoratori cattolici e sulla sostanziale emarginazione di ogni problema più propriamente politico, tanto più se capace di coinvolgere questioni ideologiche e problemi in qualche modo relativi a specifici interessi della Chiesa.
Ancor più paralizzante fu l'effetto dell"'onda lunga" democristiana sui cosiddetti "laici". Si sviluppò in essi una rassegnazione alla sudditanza nei confronti della DC quale condizione per la sopravvivenza, destinata a segnare, in modo che sembra ancor oggi definitivo, la loro storia.
Qui non vogliamo certamente riscrivere la storia d'Italia dal dopoguerra né fare la storia dei partiti, della Democrazia Cristiana, del regime da essa instaurato. Sarebbe già arduo, e richiederebbe ben altro spazio ed impegno, fare la storia della degenerazione del sistema politico italiano, della quale qualcosa bisogna pur dire e che bisogna capire, al di là delle generalizzazioni e dei luoghi comuni, se si vuol parlare e capire qualcosa di quanto è avvenuto e sta avvenendo, della crisi della partitocrazia, delle elezioni dell'aprile '92, delle Leghe, dell'Italia divisa in due dal voto, delle cosiddette riforme istituzionali, del travaglio dei partiti e del loro sistema.

Cerchiamo di dare uno sguardo al passato e dal passato perché il presente non ci sommerga, al punto da non poterne misurare la consistenza e scorgere la vera natura delle cose che l'oggi ci offre.

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 3

LA QUESTIONE DEL DIVORZIO: L'ANTAGONISTA RADICALE

Il secondo avvenimento che ha segnato in modo determinante la vita del regime democristiano porta la data del 13 maggio 1974: il referendum sul divorzio, il voto popolare che ha segnato la sconfitta storica del predominio culturale e politico clericale, che ha svuotato il regime della sua ideologia, ha dato la prova di un profondo divario tra l'evoluzione politica e culturale delle masse ed i partiti che pretendono di esprimerle e di rappresentarle.
La vicenda del divorzio faceva emergere una realtà sociale e culturale del Paese che la classe politica, pressoché nella sua interezza, si era rifiutata di verificare. Ma l'aspetto più sconcertante era rappresentato dalla scarsa capacità del mondo politico di trarre le conclusioni del voto popolare, di accettare l'insegnamento, pure così chiaro, emergente da quanto si era verificato. Dopo il voto del 12 e 13 maggio '74 nulla era più come prima, ma nulla nel mondo politico ed istituzionale fu all'altezza della nuova situazione, nessuno fu capace di interpretare adeguatamente il cambiamento ed il significato del voto e di tutta la vicenda.
Nella prospettiva consentita oggi dalla distanza nel tempo, si può dire che, paradossalmente, se il divorzio ed il referendum che ne concluse la vicenda cancellarono la credibilità intrinseca del regime clericale, della sua cultura e dei suoi presupposti, i veri sconfitti, alla distanza, furono proprio i partiti laici, che ne risultarono assolutamente inadeguati al ruolo che pure gli avvenimenti indubbiamente avevano loro offerto. Se questa affermazione non è del tutto gratuita e se invece si deve prendere atto che questa contraddizione è solo apparente, allora si può dire che è dal 13 maggio 1974 che comincia ad aver corpo l'interrogativo sul "partito che non c'è", come pure che da tale data comincia a manifestarsi un'insofferenza per il regime ed il sistema di potere imperanti. Insofferenza che non è più riconducibile alla contrapposizione tra destra e sinistra, all'opposizione di sinistra, oramai superata, anche nelle formule, dal governo di "unità nazionale" (1976-1979). La caduta di quella formula con le elezioni del 1979 non comportò il ritorno allo "status quo ante", all'emarginazione del PCI, oramai inserito saldamente e per più versi nel sistema.
Ma torniamo alla vicenda del divorzio. Se si può dire che proprio i partiti laici portarono e portano il peso e la perdita di credibilità derivante dall'aver lasciato senza adeguati sviluppi, senza uno sbocco consequenziale sul piano dell'assetto del potere, delle maggioranze e degli schieramenti parlamentari, la vittoria del divorzio nel referendum del '74, ciò avvenne anche perché essi non furono protagonisti della vittoria divorziata e tanto meno ne ebbero l'iniziativa.
Al contrario essi, con le debite eccezioni di taluni loro esponenti ritenuti dei monomaniaci del divorzio, ritennero il divorzio una tegola caduta sulle loro teste, capace di guastare i buoni rapporti con la DC e di metterne in pericolo la lenta evoluzione progressista e "liberale" e la stessa sua scelta in favore di schieramenti di centrosinistra. La Malfa si espresse più volte, in privato, in questo senso, ma con toni addirittura catastrofici. Ed a conclusione della campagna per il NO al referendum, nel comizio di Piazza del Popolo in Roma, uno degli esponenti dei partiti laici non trovò miglior argomento a favore del divorzio, che affermare che una vittoria antidivorzista avrebbe reso più difficile la formazione di un governo stabile di centrosinistra attorno alla Democrazia Cristiana.
Sembra che Enrico Berlinguer avesse previsto la sconfitta divorzista al referendum. Ma la tiepidezza "laica" e comunista nei confronti di questa battaglia si manifestò essenzialmente nelle prime battute, quando la legge dovette affrontare il percorso parlamentare pieno di ostacoli e di trabocchetti.
Il Partito Socialista aveva consentito a Loris Fortuna di presentare il progetto di legge nella convinzione che, esso avrebbe. rappresentato nulla più che una esercitazione ed una espressione di buona volontà di un parlamentare socialista. Se le cose andarono diversamente ciò fu dovuto a due fatti: la campagna divorzista del settimanale ABC e del suo editore e direttore Sabàto e la formazione e le iniziative della LID, Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio.
La campagna di ABC fu essenziale nelle primissime battute. Si trattava di un periodico allora considerato poco meno che pornografico e la campagna che condusse ebbe toni non certo raffinati e parecchio approssimativi. Ma la distribuzione di cartoline da inviare al Parlamento per chiedere la discussione e l'approvazione della "legge Fortuna", che a migliaia giunsero a destinazione, consentì di rivelare una realtà sociale ed una determinazione ampiamente diffuse ed insospettate.
La costituzione della LID diede alla battaglia divorziata una strategia ed una massa di manovra svincolate dai partiti, agili e libere da remore e condizionamenti.
La LID nacque per iniziativa esclusivamente radicale, ma puntò subito a raccogliere adesioni senza filtri, selezioni ed esclusioni. Vi aderirono missini e comunisti, liberali e cattolici, monarchici e socialisti, senza che a nessuno fosse domandato se e quale tessera avesse in tasca.
Aderì soprattutto tanta gente che non si era mai sognata di impegnarsi politicamente e che dimostrò invece intuito e capacità di orientamento.
L'idea della costituzione della LID, caso unico tra le iniziative radicali, non fu di Pannella, che rimase estraneo anche ai primi passi della complessa fase organizzativa. Egli si trovava in Algeria nel dicembre del 1965 quando, in un convegno al Ridotto dell'Eliseo, chi scrive svolse una relazione sulla strategia per giungere all'approvazione di una legge sul divorzio "costringendo" le forze politiche laiche a non sottrarsi al compito di rappresentare una società civile e matura e di dar corpo alle richieste di una opinione pubblica destinata a divenire maggioritaria. Incominciò allora la raccolta delle adesioni e dei fondi (sempre striminziti) con una specie di "catena di Sant'Antonio" per la creazione di un indirizzario di "separati" e la creazione del primo nucleo di iscritti.
L'adesione di Loris Fortuna, con l'accettazione di far parte della presidenza, non avvenne senza qualche perplessità e diffidenza iniziale. Anche Sabàto non sembrò entusiasta della nascita della LID e poi si rifiutò a lungo di mettere a disposizione di essa l'indirizzario dei sottoscrittori delle famose cartoline. Le indubbie capacità tattiche di Pannella, che entrò a far parte della segreteria, e la pervicacia che anche allora non gli faceva difetto, assieme, peraltro, ad un certo senso di equilibrio, riuscirono a superare molte difficoltà e, man mano che cresceva il movimento divorziata e la pressione sui partiti, a dirimere contrasti, diffidenze e gelosie tra i partiti dell'area divorziata.
Anche qui non è il caso di tentare una storia della battaglia per il divorzio, vicenda che tuttavia rievochiamo, perché da essa nasce non solo la coscienza inappagata, lo spazio per un partito laico, ma anche il tentativo di realizzare una forza politica adeguata a tale ruolo: il Partito Radicale.
Come era stato solo nell'iniziativa per dar vita alla LID, il Partito Radicale, fino allora costituito da un gruppo ristrettissimo di giovani, senza alcuna rappresentanza istituzionale, senz'altro avere che una sigla e molta fantasia, si trovò a combattere contro i molti ripensamenti ed i tentativi di compromesso, che giunsero al limite di un'offerta di resa proprio alla vigilia del referendum, solo, assieme alla LID, contro la quale non mancò un tentativo, fallito, di impossessamento da parte del PSI.
La vocazione compromissoria dei partiti dello schieramento divorziata si manifestò con proposte aberranti, che andarono dalla limitazione del divorzio ai soli matrimoni civili, al rinvio della legge al momento della revisione del Concordato, all'abrogazione della legge Fortuna, già approvata, per sostituirla con un'altra che rendesse il divorzio quasi impraticabile, ad un doppio regime per i matrimoni civili e per quelli concordatari con l'obbligo, per questi ultimi di far precedere il divorzio da un esame dell'eventuale nullità del vincolo da parte dei tribunali ecclesiastici!
In realtà la Chiesa non era affatto disposta a compromessi, confidando in una schiacciante vittoria al referendum. Meno convinto sembrava Andreotti, che fu abilissimo nell'indurre i "laici" a proposte di compromesso sempre meno decorose, ottenendo al contempo il loro apprezzamento (che gli fu poi utilissimo) e provocando manifestazioni di debolezza e di mancanza di chiarezza di idee che certamente non giovarono alla causa divorzista ai fini del voto.
Fu quella di Andreotti una "manovra in ritirata" degna di un grande stratega, i cui effetti si videro poi, dopo l'esito del referendum, quando si trattò di far fronte alla caduta verticale della credibilità del partito cattolico, in ordine agli assetti di potere. Allora le profferte di compromesso che laici, socialisti e comunisti avevano continuato ad avanzare offrendo la revisione-conferma del Concordato per "sanare la ferita" del divorzio, rappresentarono la premessa per la mano tesa alla DC per uscire dal guado con i governi di unità nazionale della settima legislatura, con il compromesso storico di Enrico Berlinguer e, in sostanza, con il riconoscimento da parte di tutte le forze politiche tradizionali della continuità necessaria del ruolo della DC. Un ruolo che, tramontato il mito dello zoccolo duro clericale e dell'impenetrabilità delle masse cattoliche, era ormai legato alla continuità ed all'autoconservazione per se stesse, agli strumenti del potere, al dominio ed al taglieggiamento degli interessi economici, alle clientele, alla capacità di aggregazione consociativa e lottizzatoria ampiamente collaudata.
A fare le spese di questa operazione, che consentì il salvataggio del regime DC privo oramai del supporto che ne aveva segnato la nascita e lo sviluppo, furono proprio i partiti laici, i terzi neppure incomodi del compromesso storico, la cui incapacità di assumere il ruolo loro offerto dalla vicenda del divorzio fu avvertita, seppure confusamente, dall'opinione pubblica, che li punì duramente alle elezioni del 1976.
Proprio in quella tornata elettorale facevano il loro ingresso in Parlamento i Radicali con un gruppo minuscolo, che tuttavia ebbe una parte importantissima nella storia della settima legislatura.
Lo scioglimento anticipato delle Camere elette nel '72 era intervenuto sotto la pressione del nuovo referendum, indetto questa volta per iniziativa radicale e di gruppi femministi, sulla depenalizzazione dell'aborto, referendum che si volle evitare ricorrendo, appunto, allo scioglimento anticipato dei Parlamento. La questione dell'aborto costituì per la riuscita dell'operazione elettorale radicale una leva assai efficace. Anche se, poi, quella battaglia, cui mancò sempre la chiarezza di impostazione che aveva contraddistinto quella del divorzio, ebbe uno sbocco assai pasticciato, il ripetersi della soccombenza democristiana accentuava la sensazione dello sfaldamento dei presupposti culturali del regime.
Al congresso radicale di Firenze del novembre 1975, dopo la vittoria nel referendum del 13 maggio dell'anno precedente, io cercai di fare una valutazione della situazione politica determinatasi con quell'evento ed affermai che il clericalismo era da considerarsi morto, ma che il suo cadavere doveva essere sepolto, perché i cadaveri insepolti provocano infezioni ed epidemie. Quello fu giudicato un discorso truculento, di vecchio stampo anticlericale (La Nazione). Se qualcuno volesse oggi interrogarsi ed interrogare la storia più recente sull'origine della degenerazione partitocratica e sulla sua accelerazione negli ultimi anni, dovrebbe riconoscere che quell’affermazione non era affatto espressione di intolleranza o di retorica demagogica e che da allora il corrompimento del sistema di potere è andato sviluppandosi fino a divenire caratteristica essenziale di esso.
Le vicende del periodo dei governi di unità nazionale, che potrebbe considerarsi quello del salvataggio della DC e della riconversione dei suo sistema di potere, sono state tra le più torbide ed inquiete della Repubblica. Il Terrorismo, il Golpismo, l'Antiterrorisnio e l'Antigolpistno, la P2 (che prosperò proprio con i governi di unità nazionale) finirono per portare acqua alla causa della conservazione e del consociativismo, lasciando aloni torbidi e lasciando intravedere retroscena tuttora assai malamente e faziosamente esplorati.
L'infezione stava veramente dilagando e guadagnava in profondità. Lo scandalo della Lockheed, la condanna di Tanassi, le dimissioni di Leone, non ebbero affatto il valore sintomatico di una rinnovata capacità di reazione alla corruzione, ma, invece, della strumentalità di ogni intervento contro singoli episodi, tale da aggravare la sfiducia della gente.
La presenza radicale in Parlamento rappresentò un fatto nuovo e scioccante. Per la prima volta nella storia della Repubblica una formazione interamente nuova, che non fosse uno spezzone di un'altra preesistente, riusciva a rompere il muro della continuità e del "privilegio" dei partiti tradizionali. Il fatto che questa novità intervenisse proprio mentre i partiti laici uscivano malconci e castigati dalla prova elettorale e mentre il bipolarismo DC - PCI sembrava compiere con il "compromesso storico" e con il governo di unità nazionale un passo avanti determinante, rendeva ancor più rilevante e significativa la presenza radicale. Le altre forze rimaste fuori della maggioranza, prima quella "delle astensioni", poi quella più propriamente "di unità nazionale", non seppero e non poterono svolgere un ruolo altrettanto significativo ed autonomo.
La discussione della legge sull'aborto, il referendum contro la legge Reale e quello sul finanziamento pubblico dei partiti, l'ostruzione contro la "Reale bis", legge che avrebbe dovuto "scongiurare il referendum" aggravando i contenuti di quella di cui si proponeva l'abrogazione con voto popolare, la posizione chiara e netta assunta nel dibattito sul Concordato, il rigetto sia di ogni condiscendenza e vezzeggiamento nei confronti dei terroristi e delle varie manifestazioni di violenza, sia di ogni legislazione di emergenza e, soprattutto, l'estraneità ad ogni operazione di sottogoverno, lottizzazione ed affarismo, avevano fatto sì che, malgrado ogni deficienza ed ogni deformazione da parte della stampa e dell'informazione radiotelevisiva dell'opera svolta in Parlamento, il Partito Radicale assumesse, agli occhi di una porzione sempre più rilevante della pubblica opinione, il ruolo del vero partito laico di opposizione, ma anche dell'antipartito, rispetto al concetto deteriore di partito e di partitocrazia che si andava diffondendo.
La partecipazione dei quattro deputati radicali ai lavori parlamentari, complessivamente assai intensa e qualitativamente rilevante, dava del partito un'immagine diversa da quella del gruppo contestatario perduto nell'astrattezza delle ideologie, allora più che mai di moda, e attribuita volentieri fino ad allora anche ai radicali.
In mezzo ad avvenimenti drammatici ed a vicende poco limpide prendeva corpo il regime DC della fase dopo-referendum, non più sorretto dalla passiva accettazione della cultura clericale da parte del Paese, né dalla necessità della "diga" anticomunista concepita secondo la logica e gli schemi di Yalta e della guerra fredda, ma forte tuttavia dell'accettazione da parte di quasi tutte le forze politiche e della padronanza di strumenti di potere e della capacità di abusarne, tale da sovrapporsi alle istituzioni ed alla legalità formale. La coscienza del deterioramento, della corruzione del sistema politico e del meccanismo dei partiti, che andò parallelamente diffondendosi tra la gente, malgrado le generalizzazioni, gli alibi, la confusione prodotta dallo spregiudicato uso del potere di informazione, poté giovarsi di un punto di riferimento positivo, costituito da questa nuova formazione politica. La sua "diversità", ampiamente riconosciuta, e il suo indiscusso impegno per i diritti civili senza strumentalizzazioni e discriminazioni, richiamarono su di essa l'attenzione ed il consenso di settori diversi della pubblica opinione.

Se in quegli anni avesse dovuto porsi con altrettanta intensità la questione della reazione alla partitocrazia, al deterioramento dei partiti che oggi è al centro di ogni discussione sulle sorti politiche del Paese, non avrebbe potuto parlarsi di "partito che non c'è". C'era il Partito Radicale, l'antipartito, il partito diverso, incorrotto, espressione di una fede liberale e libertaria non offuscata dai compromessi né annacquata per le sudditanze e la rassegnazione. Era lecito sperare che il tempo e la costanza avrebbero fatto superare a questo partito lo svantaggio della sua piccolezza e della sua fragilità. Se non era il partito capace di rinnovare il sistema politico, di spazzar via la corruzione e la prevaricazione istituzionalizzate, sembrava tuttavia capace di diventarlo. Diventarlo nel momento giusto, quando lo scollamento e la corruzione del regime fossero giunti al momento critico, crescendo senza perdere slancio, fantasia e chiarezza dell'immagine e, soprattutto, senza perdere coscienza del ruolo da svolgere. Occorreva certamente tenacia. E pazienza.

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 4

1979: UNA VITTORIA CHE NON PIACQUE A PANNELLA

Le elezioni del 1979 premiarono la buona prova data dai radicali, attribuendo ad essi un 3,5% con 18 deputati e due senatori. Alla Camera i Radicali superavano i Repubblicani, oltre che i Liberali. Nessun partito aveva mai ottenuto con un sol colpo un aumento così rilevante della rappresentaza parlamentare e del suffragio popolare.
Secondo Pannella quel risultato fu una mezza sconfitta. Chi ne conosceva meglio i calcoli e le previsioni dice che si aspettava un 7%, che avrebbe messo il Partito Radicale alle calcagna del PSI. Il suo comportamento successivo lascerebbe intendere, che considerò quello del 1979 addirittura un fallimento, visto che da allora tutto quanto fece e fece fare al partito ebbe il sapore ed il significato di un diversivo, di un alibi ed infine di una fuga.
Le liste radicali erano state messe a punto sul presupposto di un successo di più ampia portata. La generosità con la quale erano stati attribuiti posti di rilievo in lista ad esponenti noti e meno noti di certi ambienti della sinistra (ed ovviamente qui non si fa riferimento a Sciascia, la cui presenza aveva significato di ben altra portata) non aveva alcun senso se non nella prospettiva di un risultato che avrebbe comunque portato in Parlamento anche molti radicali espressione del Partito e delle sue battaglie e, tra di essi, un buon numero di persone capaci di svolgere un'attività parlamentare qualificante.
Nei tre anni dopo l'ingresso in Parlamento della prima pattuglia radicale, il partito come organizzazione non aveva avuto uno sviluppo lontanamente paragonabile alla crescita di prestigio e di notorietà. Pannella ne aveva voluto la rigida separazione dal gruppo parlamentare. Anzi, con una strana interpretazione della norma statutaria secondo cui gli eletti radicali dovevano considerarsi rappresentanti degli elettori e non del partito, aveva imposto una sorta di sospensione dei deputati dalle attività di partito, al punto che non dovessero neppure partecipare ai congressi annuali, aperti ad iscritti e non iscritti. Tuttavia ai congressi del Partito veniva fatta una relazione del Gruppo Parlamentare, ed a tale titolo Pannella ebbe sempre modo di partecipare come e quando volle. La regola, comunque, fu del tutto capovolta negli anni successivi e così pure quella del divieto del cumulo tra cariche di partito e mandato parlamentare.
Tutto ciò aveva pure determinato un certo malcontento tra i militanti. Questa separatezza, che per alcuni parlamentari significava isolamento da ogni tramite di contatto con la gente e con i militanti, comportava per la massa degli iscritti l'allontanamento non solo da ogni partecipazione alla vita istituzionale, mancando ogni rappresentanza radicale nelle istituzioni locali, ma anche ogni contatto ed ogni possibilità di effettiva comprensione rispetto al lavoro parlamentare.
Di fronte ai mugugni ed all'opposizione di quanti reclamavano che il partito fosse un po' più un partito, Pannella reagì con durezza, definendo gli oppositori "lanciatori di merda" e ricorrendo a tipici colpi di scena, come quando, di fronte al riottoso congresso di Genova del novembre 1979, fece proporre che il congresso si trasferisse in Francia per manifestare contro l'arresto di Jean Fabre, segretario transnazionale avant la lettre, obiettore di coscienza, rientrato in Patria proprio per farsi arrestare alla vigilia del congresso.
Alla debolezza del partito come organizzazione, ma, soprattutto, come sede di elaborazione di idee e di iniziativa politica, si aggiungeva pure una scarsa omogeneità del gruppo parlamentare uscito dalle elezioni del '79, per una buona parte composto di elementi approdati alla sponda radicale solo al momento della formazione delle liste, alcuni dei quali rimasti fuori del partito. Pannella, del resto, aveva parlato di "lista autobus", per portare in Parlamento persone libere di "scendere" una volta giunte a destinazione. Il che non avvenne, così come non si era realizzato quel grandissimo successo che avrebbe giustificato tanta generosità.
Tuttavia il successo radicale c'era stato, e quanto era stato ottenuto, consentiva di disporre di una base, fatta soprattutto di attenzione e di simpatie, oltre che di un indubbio riconoscimento della diversità dagli altri partiti, che consentiva passi ulteriori.
Occorreva non offuscare l’immagine radicale che il Paese aveva recepito, capire i significati del consenso ottenuto, visto che, per quante ragioni possano concorrere e per quante occasioni possano averle favorite, una causa prima, un filo conduttore del successo doveva pur esserci,. Questo era certamente, per il partito radicale, la sua diversità dai partiti del potere, la sua estraneità ai patteggiamenti ed ai meccanismi clientelari, di ladrocinio, di prevaricazione, la sua coerenza nella fede nello stato di diritto, nelle leggi, nella giustizia, nei diritti civili. Era, in sostanza, l'immagine dell'antipartito, dell'antiregime.
Conservare questo ruolo e svolgerlo nel paese frastornato dal terrorismo, distratto dai molti velleitarismi ereditati dal '68, confuso dagli alibi e dagli intrighi dei golpe e dei controgolpe, della P2, con una stampa ed una televisione asservita non era certamente facile. Ma i fatti e soprattutto gli errori madornali, le fughe, le stravaganze ed i contorcimenti che non hanno avuto tuttavia la capacità di spegnere del tutto e subito l'immagine conquistata dal Partito Radicale, hanno dimostrato che il compito non sarebbe stato impossibile e nemmeno difficilissimo, a meno che un deliberato proposito di autodistruzione avesse imposto che questo partito dovesse essere e rimanere un "partito che non c'è".
E' certo che Pannella non attese che sopravvenissero le difficoltà prodotte da talune contraddizioni nella realtà radicale per assumere un atteggiamento che aveva tutto il sapore di una fuga e della ricerca di un alibi e di una rivalsa.
Subito dopo le elezioni per la Camera ed il Senato, si erano svolte quelle per il Parlamento Europeo ed anche in esse Pannella fu eletto assieme ad altri due candidati radicali. Si può dire che per tutta la legislatura Pannella fu presente più a Strasburgo che a Montecitorio, fatto che di per sé sottolineava una caduta di interesse ed una visione meno allettante per le cose e delle cose della politica italiana. A Strasburgo Pannella era oggetto di maggiore curiosità ed attenzione che non nell'ambiente politico romano, dove la rabbiosa reazione dei partiti tradizionali, e non solo di essi, al successo radicale (il PCI aveva scatenato una vera e propria "crociata" antiradicale già nell'ultima fase della campagna elettorale) si esprimeva anche in una puntigliosa consegna di snobbare il partito ed il suo leader.
Da Strasburgo Pannella non mancava certamente di tenere sotto controllo il partito ed il gruppo parlamentare e di dettare minuziose direttive, ma ciò aumentava la divaricazione , tra quanti erano disposti ad accettare certi metodi e quanti non tolleravano che una indiscussa leadership potesse spiegarsi per via telefonica e per interposte persone. Cresceva il nervosismo dei primi ed il malessere dei secondi.
Ma la più grave forma di fuoriuscita del partito radicale dalla realtà dello scontro politico in atto nel paese e di allontanamento dalla strada che lo portava naturalmente a soddisfare attese vaste e rilevanti che andavano maturando nel paese, fu senza dubbio rappresentata dalla questione della lotta alla fame nel mondo, intesa come impegno prioritario e totalizzante per il partito e per la sua rappresentanza parlamentare.
L'idea di una grande mobilitazione contro il flagello della farne, che fa milioni di vittime nei paesi sottosviluppati, venne a Pannella, come egli disse al Congresso all'Aula Magna della Città Universitaria a Roma nella primavera del 1979, quale risposta alla crociata lanciata dalla chiesa cattolica contro l'aborto, "strage dei nascituri". La "marcia di Pasqua" da Porta Pia al Vaticano doveva dunque avere sapore polemico, contro l'indifferenza per la strage dei vivi. Alla vigilia delle elezioni, nella sua ambiguità, una iniziativa del genere poteva avere l'effetto di meglio rappresentare anche al mondo cattolico la capacità radicale di esprimere valori genuini di alta moralità politica.
Che la questione della fame nel terzo mondo e della necessità per i paesi industrializzati di farvi fronte rappresentasse una intuizione politica esatta e non soltanto una testimonianza di grandi valori morali, oggi può essere valutato più facilmente di ieri.
Che l'iniziativa per realizzare l'impegno di salvataggio così concepita, esposta e portata avanti da Pannella e dal Partito radicale avesse un- minimo di razionalità e di probabilità di giungere ad effetti positivi è cosa del tutto diversa.
Ben presto, poi, nei mesi successivi alle elezioni, la questione della farne nel mondo fu proclamata l'obiettivo prioritario, il programma monotematico del partito radicale, con la proposta di un finanziamento di 5.000 miliardi la parte dello Stato italiano alle iniziative relative all'aiuto alimentare. Pannella iniziò e portò avanti dei digiuni fino al rischio delle più gravi conseguenze (la storia che "facesse finta" di digiunare è una grossolana battuta) per sostenere tale programma, che si snodò con l'appello dei Premi Nobel, la mozione del Parlamento Europeo, la proposta di legge di iniziativa popolare sottoscritta, tra l'altro, da un gran numero di sindaci (la cosiddetta legge dei sindaci).
In Parlamento l’ostruzionismo radicale, posto in atto inizialmente contro le leggi incostituzionali e violatrici dei diritti civili, quali le leggi antiterrorismo con il fermo di polizia (Legge Cossiga), fu elevato a sistema per ottenere l'approvazione di stanziarnenti per l'aiuto straordinario contro la fame. Il Partito nel suo congresso del 1980 alla Sala della Tecnica all'EUR a Roma deliberò di porre sul suo simbolo elettorale una striscia nera di lutto, dal tono, in verità piuttosto iettatorio, per i morti di fame. Veniva anche votata l'introduzione nello statuto del Partito, per definizione antiideologico, di un preambolo di professione di non violenza, fino al rifiuto di difendere la propria vita con la violenza.
Tutto ciò avveniva senza alcun possibile dibattito effettivo nell'atmosfera drammatica creata dai digiuni ad oltranza di Pannella, che, se non costringevano altri a partecipare alla crociata, rappresentavano un mezzo potentissimo per indurre i suoi compagni a trovargli una via d'uscita. Si trattava di salvare la sua vita ed anche la sua credibilità, visto che aveva proclamato di legare la sua esistenza a quella dei milioni di uomini in pericolo per la mancanza dell'aiuto alimentare.
La conclusione della campagna contro la fame, con l'approvazione di una legge "unitaria", la legge Piccoli, la fine dei digiuni, il latrocinio cui non si sottrasse neppure questo intervento dello Stato italiano, l'abbandono del tema nelle successive evoluzioni del partito radicale e di Pannella, non valsero certo a rafforzare nella pubblica opinione l'immagine di un partito di alternativa. Un partito diverso si, ma diverso perché non "politico", perduto nell'astrazione ed in una sorta di ascesi. Immagine anche questa rovinata dalla scelta del "non voto" nella nona legislatura, che, da forma di protesta antipartitocratica divenne scopertamente, proprio mentre andava in porto la legge Piccoli e poi nell’ultima parte della legislatura, una forma di astensione a favore dei governi Craxi.
La campagna per la fame nel Mondo non aveva portato neppure un incremento del partito come organizzazione e come numero di iscritti. I consensi all'impegno per la fame erano stati vasti, ma estremamente generici e, come tali, scontati. Che i sindaci affannati di tangenti rilasciassero una fuma per la legge sulla fame nel Mondo ed inviassero lo stendardo del comune alla marcia di Pasqua, non poteva certo rappresentare una svolta nelle condizioni politiche del paese, né il partito dedito ad ottenere tutto ciò poteva proporsi, in quanto tale, come il partito della protesta contro la partitocrazia, le lottizzazioni, il degrado del sistema politico e neppure sperare che i generici apprezzamenti si traducessero in voti.
Questo non lo pensò mai, alla resa dei conti, neppure Pannella né alcuno dei suoi più convinti sostenitori. Alle elezioni del 1983 il Partito Radicale cercò di recuperare l'immagine di partito della giustizia e dei diritti civili, che avevano subito la prima grave compressione nella lotta al terrorismo (poca cosa rispetto a quello che è poi avvenuto più di recente) presentando il filosofo marxista Toni Negri, detenuto per il processo detto del "sette aprile", che sembrava allora scandaloso per le lungaggini dell'istruttoria e per il protrarsi della carcerazione preventiva degli imputati in attesa del giudizio.
Allo stesso tempo, però, il partito radicale invitava i cittadini ad astenersi dal voto, lasciando le proprie liste a disposizione degli elettori che non avessero voluto seguire tale invito. Tipico paradosso pannelliano, che tutto somrnato ebbe più successo di quanto meritasse e meno di quanto egli prevedesse.
Così si voleva recuperare in qualche modo l'immagine dell’antipartito, espressione della protesta e dell'astensionismo elettorale, già altre volte propagandato dal P.R. prima del 1976, e, dopo di allora, in occasione di elezioni regionali e locali. Ma allo stesso tempo il partito non solo dimostrava la sua debolezza, ma anche l'intermittenza, l'aleatorietà della sua politica e della sua esistenza, dati destinati a pesare assai negativamente nella prospettiva di un rafforzamento del dissenso e del passaggio dalla protesta al tentativo di rimozione della classe dirigente e dei partiti del regime.
Si è già detto che il "non voto" dei deputati radicali in parlamento nella nona legislatura, che avrebbe dovuto rappresentare il complemento dell'invito al non voto rivolto agli elettori, si ridusse alla fine in una non troppo dissimulata forma di astensione nei confronti dei governi Craxi. Intanto, però, un'altra fortunata occasione poteva essere colta dal Partito Radicale per rinvigorire il suo ruolo di partito dei diritti civili e della giustizia giusta.
Operazione tanto più necessaria per l'esito della vicenda di Toni Negri, che si era sottratto alla parte del protagonista preferendo espatriare.

Questa occasione fu data dalla candidatura di Enzo Tortora alle elezioni europee del 1984. Non si trattò, come qualcuno volle ritenere, dello sfruttamento della popolarità di un presentatore televisivo, di un personaggio dello spettacolo di grande successo. Fu una battaglia attorno ad uno dei più gravi e tipici casi di giustizia ingiusta, di giustizia spettacolo, fondato su accuse di una inconsistenza allarmante, con l'uso del più vieto armamentario dell'emergenza. E, diversamente da Toni Negri, Enzo Tortora ne fu protagonista con grandissima dignità, all'altezza del ruolo che gli veniva attribuito. Una cosa, forse, Enzo Tortora non riuscì a capire: le ragioni dell'accanimento insensato contro la sua persona, della sceneggiata tragica di quel processo, della campagna colpevolista ai suoi danni, protratta persino oltre la sua completa assoluzione. Processo che rappresentava un prezioso diversivo ed un prezioso alibi per l'inerzia nei confronti della camorra, degli affari del dopo terremoto, della corruzione dilagante della classe politica elevata a sistema di potere. Ma non lo capì appieno, e comunque non ne trasse le conseguenze, nemmeno il Partito Radicale, che del resto volle ben presto ridurre ad un dato episodico anche la battaglia sul caso Tortora, così come volle marginalizzare il protagonista. Ma di questo si dirà più oltre.

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 5

RADICALI TRA DIVERSITA' E COERENZA

L'idea di uno scioglimento del partito radicale e della sua sostituzione con uno strumento ancor più docile e congeniale alle iniziative di Pannella fu da questi fatta balenare al congresso straordinario della fine d'estate del 1981 alla "Tenda a Strisce" in Roma. Si erano da poco svolti i referendum per i quali il partito aveva raccolto le firme nell'anno precedente, falcidiati dalla Corte Costituzionale. Insieme ad essi il referendum, di segno opposto a quello radicale, su alcuni articoli della legge sull'aborto proposto da organizzazioni cattoliche.
Malgrado la netta sconfitta del referendum clericale antiabortista, l'esito era stato per i radicali assai pesante, con percentuali per le abrogazioni da loro proposte di leggi e parti di esse (aborto, legge Cossiga, porto d'armi, ergastolo) che andavano dall'11,5 per gli articoli della legge sull'aborto al 22,8% sull'ergastolo.
A parte l'assoluta inadeguatezza a condurre una campagna così vasta di una piccola forza politica senza alcun supporto e senza neppure la benevolenza dei mezzi di informazione, senza alleanze e senza adeguata preparazione, si trattava di uno scontro su temi tutt'altro che semplici (si pensi all'abolizione degli articoli che nella legge sull'aborto istituiscono una sorta di aborto di stato) in contrapposizione ai luoghi comuni correnti e nel momento meno favorevole.
Come se ciò non bastasse, Pannella si era tirato da parte nella conduzione della campagna per il voto referendario (o in quel poco che era possibile farne). La stessa cosa doveva avvenire nel 1987 nella campagna per il referendum sulla responsabilità dei giudici e, soprattutto, nel dibattito parlamentare sulla legge truffa che fece seguito al voto, questa volta, seppur inutilmente, positivo.
I referendum erano stati varati senza nessuna autentica valutazione politica della "presa" del quesito referendario sulla pubblica opinione e tanto meno delle possibilità di gestione della campagna. Si era andati avanti sul presupposto che, una volta indetti i referendum, i partiti di una certa area non avrebbero potuto fare a meno di esserne coinvolti, così come era avvenuto per il divorzio o, in assai minor misura, per la legge Reale (1978), né era pensabile un orientamento positivo spontaneo di larghe masse, come era avvenuto per la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, quesito semplice di grande effetto, in cui era stato sfiorato il successo (43,6%) contro lo schieramento unanime degli altri partiti, con un risultato politico rilevantissimo.
Il risultato dei referendum aveva portato il Partito Radicale ad una conclusione, anch'essa generica ed approssimativa, sull'impraticabilità della "via referendaria". Il Congresso aveva messo una toppa, affermando nella mozione conclusiva che i risultati dei referendum ottenuti da soli contro tutti, facevano del Partito Radicale un partito che aggregava circa tre milioni e mezzo di aderenti sul suo programma, espresso dai quesiti referendari. Proposizione azzardata, non solo, ma che rappresentava l'ammissione di una chiusura in se stesso del partito, oltre che di un uso distorto ed improvvido dei referendum.
Era anche l'epoca dei più pericolosi digiuni di Pannella che, se riuscivano a creare intorno a lui tra i compagni di partito l'impossibilità di discutere o contrastarne le iniziative, non raccoglievano neppure folle di digiunatori disposti a condividerne i rischi fino in fondo.
Così Pannella, lanciando la "rifondazione" del partito, parlò anche di un gruppo di "Teste di Cuoio", cinquecento persone disposte a seguirlo nelle sue lotte, "armate di non violenza" etc.etc.
Insomma parecchi radicali potevano considerarsi di troppo. Parole che avremmo fatto bene a meditare più attentamente e che hanno trovato la loro spiegazione e la loro realizzazione, con orpelli e giustificazioni complicati ed ancor più complicate evoluzioni, in anni recenti.
La "rifondazione" del partito, in realtà non avvenne mai, neppure per ridurlo a quella "compagnia della morte" preconizzata da Pannella: la stessa trasformazione nel cosiddetto transnazionale e transpartitico avvenne, come poi vedremo, sopprimendo semplicemente il partito, ridotto ad una lista di sottoscrittori e ad un manipolo di amministratori dei patrimonio.
Il superamento, bene o male, della prova elettorale del 1983, la notevole ripresa, attorno alla candidatura di Enzo Tortora, alle elezioni europee del 1984, non erano valsi a dissipare una certa atmosfera di malessere del partito, che del resto si proiettava nella sua incapacità di aggregare un numero di iscritti di qualche consistenza e di realizzare una qualche iniziativa politica coerente e non intermittente nel segno e nel senso della lotta alla partitocrazia, che andasse al di là della mera denunzia e delle lagnanze per la gestione dell’informazione radiotelevisiva.
Il partito, malgrado il successo del 1979 ed i risultati elettorali delle successive prove, continuava ad essere privo di ogni presenza attiva, di ogni concreto ancoraggio nelle varie regioni, nelle città, al Sud come al Nord, privo di ogni capacità di espressione di esigenze, stati d’animo, interessi emergenti nei vari luoghi e nelle varie fasce sociali e condannato quindi ad una sorta di astrattezza anche nell'affrontare questioni gravi ed attuali.
Ma soprattutto l'evanescenza dell'aggregato radicale come partito si manifestava nella mancanza di qualsiasi influenza degli iscritti rispetto agli organigrammi (per quel tanto che esistevano) ed alle scelte politiche del partito stesso. Anche l'unica occasione di deliberazione politica, il congresso, proprio perché aperto a tutti gli iscritti, non consentiva alcun effettivo dibattito. I congressi, del resto divenivano sempre più dei monologhi di Pannella ed i deliberati congressuali, benché sempre corrispondenti alle sue indicazioni, non hanno mai rappresentato un dato effettivamente vincolante né per il partito né tanto meno per Pannella.
A sottolineare l'assoluta mancanza di ogni effettiva partecipazione politica degli iscritti alla vita del partito basterebbe del resto la formula d'uso degli annunzi di iscrizione dati da Radio radicale nelle sue campagne di tesseramento: "...Tizio si iscrive per 200 mila lire...". Insomma, una specie di pubblica sottoscrizione.
La mancanza di una vera elaborazione collettiva dell'iniziativa politica e della sua conduzione, così come la mancanza di un effettivo radicamento del partito nelle realtà sociali del Paese, da una parte consentiva una grande agilità di movimento, ma di contro, oltre che determinare la fragilità di ogni mossa, finiva per favorire la discontinuità e la volubilità deflazione politica, al di là delle stesse inclinazioni di Pannella, rendendo meno affidabile il personaggio e la sua formazione Politica.
Per quanto potesse parlarsi di crisi del Partito radicale, si trattava tuttavia di crisi per inadeguatezza ad un ruolo che l'opinione pubblica continuava, malgrado tutto, ad attribuirgli. Crisi, dunque dell’offerta, si potrebbe dire, non della domanda. Una domanda, oltre tutto, destinata a crescere ed intensificarsi per il progredire dello scadimento dei regime, per il montare dell'insofferenza e della protesta per i metodi della partitocrazia, per la corruzione, per il clientelismo.
Comprendere, tutto ciò, adeguare le strutture, le iniziative, l’immagine del partito radicale per soddisfare questa domanda, per svolgere il ruolo alternativo al metodo della partitocrazia giunta al tramonto, allo sfascio, era un compito duro, difficile, perché difficile era resistere, saper aspettare, non mancare all'appuntamento.
Questa capacità di resistere, attendere, comprendere la domanda e saper dare una risposta al momento giusto non l'hanno avuta né Pannella, né il Partito Radicale.
Il discorso sulla mancanza di democrazia in Italia, sul regime, sul "monopartitismo imperfetto", sulla cancellazione di fatto delle forze di opposizione, se non nella loro possibilità di esistenza fisica e giuridica, nella loro immagine reale conoscibile dalla gente, nella possibilità di trasmettere alla pubblica opinione le loro iniziative, le loro valutazioni, le loro prese di posizione, diveniva, col passare del tempo, non più un discorso di protesta, un mezzo per smascherare e combattere il regime, quanto una sorta di giustificazione, la premessa di una resa. E sempre più insistentemente si faceva avanti l'ipotesi di scioglimento, chiusura, cessazione delle attività del partito radicale. Si cominciava anche a parlare di ricercare uno sbocco nella creazione di più ampi schieramenti da perseguire con l'introduzione del sistema elettorale uninominale.
La questione della chiusura del partito fu affrontata al congresso del 1986 in Roma, in mezzo ad equivoci e riserve mentali di quanti erano convinti che si trattasse del solito giuoco d'azzardo di Pannella, inteso a suscitare il dramma intorno al partito per ottenere un'ondata di commozione e di adesioni. Che tale intendimento vi fosse è difficile negarlo. Ma che Pannella non volesse in nessun caso dare per scontata l'esistenza del partito e considerasse la sua soppressione come una carta da giuocare in una qualche operazione politica, era ormai altrettanto difficile escluderlo. La riprova si ebbe nel 1987, quando il congresso si riaprì in una seconda sessione dopo aver chiuso la prima con una deliberazione che subordinava l'esclusione della chiusura al raggiungimento di almeno 10.000 iscritti, obiettivo difficilissimo, data la base di partenza, che tuttavia fu raggiunto e superato, sull'onda, soprattutto, dell'emozione per l'assoluzione di Tortora, che coronava una grande campagna radicale di giustizia.
La campagna per le iscrizioni aveva puntato sui valori di tutte le battaglie radicali per i diritti civili, rinvigorendo l'immagine del partito diverso, moralmente forte nella sua fragilità in un sistema corrotto della partitocrazia e dell'autoconservazione. Si era oramai certi, o quasi, che si sarebbe votato a giugno.
A quel punto le elezioni anticipate potevano servire per suggellare la ripresa di vitalità del partito con un successo elettorale. "E adesso due milioni di voti" sarebbe stato lo slogan con cui chiudere quel congresso. Pannella impedì tutto ciò. Il congresso, ridotto ad una parata di interventi alternati di un italiano ed uno straniero, non affrontò affatto il problema di come sfruttare il successo.
Anzi, Pannella si preoccupò di dare al raggiungimento della condizione posta per la sopravvivenza un carattere del tutto interlocutorio, ponendo una nuova condizione: quella del raggiungimento di tremila iscritti stranieri entro il prossimo congresso ordinario di novembre.
Si andava, oramai, verso il "transnazionale".

Quanto alle oramai prossime elezioni era prevista la convocazione di un ulteriore congresso straordinario che fu effettivamente tenuto il 25/26 aprile '87, quando lo scioglimento anticipato delle Camere era certo. E tuttavia quel congresso non decise la partecipazione, subordinandola al fatto che le Camere fossero sciolte dopo un voto di sfiducia e non invece per il caso in cui il governo uscito dalla crisi avesse ottenuto comunque la fiducia del Parlamento. Era un ulteriore ricorso al "tira e molla" più esasperato, caro a Pannella, ma era anche un modo per ancorare la presenza e la funzione radicale ad un dato tattico ed al braccio di ferro Craxi - De Mita all'interno della partitocrazia e quindi per togliere credibilità al partito quale antagonista della partitocrazia stessa, con i suoi giuochi inconcludenti di potere, oltre che, ovviamente, un modo per sottolineare la persistente precarietà del partito.

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 6

L'ANTAGONISTA TOGLIE IL DISTURBO

Le elezioni del 1987 furono le ultime in cui tra i partiti tradizionali, all'interno della partitocrazia, si produsse una contrapposizione che potesse comunque rappresentare tema reale della scelta degli elettori. Furono anche le ultime elezioni che videro in campo il partito radicale prima che uscisse di scena.
Fu decisa la presentazione delle liste, dopo che Pannella, con un'abilissima manovra tattica, assolutamente sterile, però, ai fini di una strategia radicale che non fosse quella di mero supporto del PSI, riuscì, ad indurre la Democrazia Cristiana al paradosso di negare la fiducia al governo democristiano di Fanfani, destinato ad indire e gestire le elezioni.
Dopo il fallimento di una proposta di candidature uniche per tutti i collegi senatoriali dei partiti della cosiddetta area socialista, in cui il partito radicale volle riconoscersi, si addivenne ad un accordo tra le stesse forze limitato ad alcune regioni (Toscana, Calabria, Liguria, etc.).
L'ultima prova elettorale precedente era stata positiva per il partito radicale. Alle elezioni per il Parlamento europeo della primavera del 1984, sull'onda della candidatura di Enzo Tortora, vittima dell'allucinante vicenda di ingiustizia del maxiprocesso di Napoli, i voti radicali erano risaliti al livello 1979. Sempre sull'onda del caso Tortora erano state poi raccolte le firme per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, parallelamente a quello contro il nucleare. Lo scioglimento anticipato delle Camere era intervenuto a rinviare i referendum e, in buona sostanza, vi si era giunti anche allo scopo proprio di rinviarli, evitando che l'effetto del loro risultato si ripercuotesse su quello delle elezioni alla scadenza naturale della legislatura del 1988. Tuttavia il referendum, benché rinviato (ma solo all'autunno, secondo una speciale leggina appositamente varata) portava l'iniziativa radicale in prima linea.
Ma alle elezioni politiche del 1987 Enzo Tortora, dimissionario dal Parlamento Europeo dopo la condanna di primo grado, rientrato in Italia da Strasburgo ed assolto con formula piena dalla Corte d'Appello di Napoli, non figurò nelle liste radicali.
Dopo la sua assoluzione Tortora era voluto tornare alla sua rubrica televisiva della Rai, "Portobello", interrotta per il suo arresto nel 1983. Era una sua ovvia e naturale determinazione quella di voler tornare là dove era stato sequestrato dall'ingiusta accusa che lo aveva strappato al suo pubblico ed alla sua professione. Pannella non aveva approvato tale scelta: si era intromesso perché Tortora assumesse la conduzione di una trasmissione nella rete di Berlusconi ed aveva denunciato, addirittura in una trasmissione televisiva, come una sorta di tradimento o almeno di diserzione la diversa scelta di Tortora, in quanto l'impegno con la Rai gli avrebbe impedito di presentarsi candidato in caso di elezioni anticipate che fossero cadute entro il periodo delle trasmissioni previste. Il che non era neppure vero, perché, il contratto non poteva impedire la candidatura, né considerarla come un'inadempienza o comportare penali, essendo solo vietata alla Concessionaria l'utilizzazione di candidati nelle sue trasmissioni, con la sola conseguenza della eventuale interruzione del ciclo previsto.
Qualcuno maliziosamente volle insinuare che questa fosse la rivalsa di Pannella per il fatto che alle europee dell'84 Tortora lo aveva superato nelle preferenze in due circoscrizioni, ma si tratta di un giudizio certamente infondato ed ingiusto. In realtà Pannella considerava la figura di Tortora, i suoi convincimenti, il ruolo che gli derivava naturalmente dalla sua vicenda, con la statura conseguita con l'ampiezza del suffragio riscosso, un ancoraggio ad una precisa politica, incompatibile con il tipo di formazione e di iniziative alla cui realizzazione stava già dando mano, secondo il proposito lasciato balenare nel 1981, quello della falange di "Teste di Cuoio", che era, in buona sostanza la scomparsa del Partito Radicale.
Tortora reagì con grande dignità e con estrema misura e generosamente si comportò poi partecipando attivamente alla campagna elettorale dell'87. Non era, ovviamente, la stessa cosa di una sua candidatura, ma almeno fu scongiurato l'effetto peggiore, per il partito, di quella sconsiderata denunzia di fuga e di tradimento che avrebbe facilmente fatto intendere che il partito radicale era incappato in una specie di secondo caso di Toni Negri. Che, peraltro, oltre che dal partito radicale e dal Parlamento era fuggito veramente, ma all'estero e lontano dai rischi del processo.
Ma il "superamento" della vicenda e del personaggio Tortora ebbe modo di riflettersi sulla conduzione delle elezioni e sulla vita del partito radicale anche in altri modi e con altre conseguenze.
Il venir meno nelle liste radicali a breve distanza di tempo dalle elezioni europee dell'84, di una presenza di spicco e di vasta popolarità come quella di Tortora, non poteva, comunque, non suscitare preoccupazioni. Ad esse si cercò di far fronte pensando di compensare quell'assenza con il numero di personaggi noti del mondo dello spettacolo, e non solo dello spettacolo, la cui presenza tuttavia, nelle liste ed eventualmente in Parlamento, non avrebbe avuto significati particolari, né comportato rischi di polarizzazione, resistenze a future manipolazioni della natura e degli indirizzi del partito.
Già il congresso "prorogato" al febbraio 87 aveva sostituito Tortora alla presidenza del partito con una presidenza collegiale in cui era stato incluso, con Pannella e Zevi, Mimmo Modugno. Con lui nelle liste delle lezioni politiche, dell’87, ritroviamo Miranda Martino cantante, Ilaria Occhini, attrice di prosa, mentre un appello per il voto radicale veniva firmato da un gran numero di attori, registi, artisti, scrittori. E nelle liste radicali trovarono posto il generale Ambrogio Viviani, ex comandante della Folgore ed ex capo del controspionaggio, l'autoproclamatosi difensore civico Alberto Bertazzi ed il cardiochirurgo Gaetano Azzolina. Il partito radicale veniva rappresentato come il partito di questi personaggi da Pannella e da tutta la propaganda radicale, come se la loro adesione fosse il dato saliente e caratterizzante di una politica.
L'apertura ai personaggi dello spettacolo nel "dopo Tortora" radicale, al di là delle debolezze e della ricerca di diversivi e di alibi che lasciava trapelare, doveva giuocare un brutto tiro al partito. Cicciolina, la pornostar che si era autoproposta per la candidatura, finiva per approdare in Parlamento.
L'elezione di Cicciolina, fatta passare da tutta la stampa, che l'aveva di fatto stimolata, dando grande rilievo alla campagna organizzata dall'agente della diva e dalla sua compagnia di spettacoli, per una espressione tipica dell'ambiente e della fatuità radicale, era in realtà un segno della ricerca di una forma di protesta e di invettiva che il voto radicale di per sé solo non era più capace di esprimere, dopo il tentativo di inserimento nell'area socialista nel ruolo di ala "movimentista" del partito di Craxi, che sembrava rappresentare il filo conduttore della politica di Pannella, almeno a partire dal 1983. Un tentativo fallito in pieno, come divenne manifesto alla fine dell'estate, quando, dopo il rifiuto socialista di far entrare Pannella nel governo, si aggiunse anche il siluramento della candidatura Pannella alla carica di commissario CEE.
La conta dei voti delle elezioni politiche non fu certo esaltante per i radicali. Vennero superati di poco i risultati del 1983, quando vi era stato l'invito a non votare, e non furono raggiunti i risultati del 1979, con l'aggravante di aver portato in Parlamento in prima battuta o per "rotazione", su cui si volle ciecamente insistere, personaggi addirittura incredibili.
A fine anno si tennero i referendum sul nucleare e sulla responsabilità civile dei magistrati. Quest'ultimo soprattutto era espressione di una iniziativa radicale, a conclusione del caso Tortora. Nessuna delle forze politiche di governo o di opposizione, tranne i repubblicani, osò pronunziarsi contro l'abolizione degli articoli dei codice di procedura civile limitativi di tale responsabilità e della esperibilità dell'azione diretta ad ottenere il risarcimento, ma democristiani e comunisti si affrettarono a presentare progetti di legge, messi in discussione prima del voto, con i quali la responsabilità dei magistrati sarebbe divenuta ancora più evanescente e la relativa azione impraticabile, per poi, ad ogni buon conto, scaricare sullo Stato l'onere del risarcimento. I socialisti si accodarono, impressionati dal grande battage dei "partito dei magistrati", forte dell'appoggio della stampa.
I radicali non seppero fare nulla di nulla per denunciare all'opinione pubblica, durante la campagna del referendum, questa truffa preordinata per vanificare in anticipo il risultato. Io fui lasciato solo a sostenere il carattere truffaldino di una legge che stava per rendere vano il referendum e quindi di un referendum che in buona sostanza, doveva legittimare la legge diretta a vanificarlo. Di più: fui totalmente escluso dagli interventi radiotelevisivi in rappresentanza del Partito Radicale nelle tribune elettorali. In una drammatica riunione del Gruppo Parlamentare fui moralmente linciato perché "non volevo tener conto delle forti critiche alla responsabilità diretta dei giudici".
Pannella si era dato al turismo e rimase lontano anche durante la dura battaglia, che praticamente condussi da solo in Commissione ed in Aula dopo il referendum, per contrastare la legge truffa e cercare di strappare qualche modifica che rendesse la truffa meno grave. Tornò la sera della votazione finale ed aggiunse una sua dichiarazione di voto a quella che avevo fatto a nome del Gruppo, per darmi finalmente ragione su quanto avevo sempre sostenuto e dire, in sostanza che la dichiarazione fatta da me era troppo debole e accomodante!
Intanto, a causa del referendum, il congresso ordinario del Partito Radicale per il 1987, che doveva essere tenuto i primi di novembre, venne spostato al 2/6 gennaio 1988 a Bologna.

Sarebbe stato l'ultimo congresso del Partito Radicale. Ancora Partito ed ancora Radicale. Ancora per poco. Esso non sarebbe andato all'appuntamento con la fine del regime attesa e perseguita da decenni. Il partito del divorzio, dei diritti civili, del rifiuto del clericalismo, della lottizzazione, della sudditanza alla DC ed al PCI, stava per diventare veramente "il partito che non c'è".

Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 7

COME SI DIVENTA UN PARTITO CHE NON C'E'

Alla fine del 1987 il Partito Radicale si trovava dunque in una situazione difficile, con un senso di precarietà della sua esistenza assai diffuso al suo interno ed al suo esterno, anche se le ragioni di tale sensazione erano in parte artificiose e diverse ed opposte tra loro e non sempre fondate su dati reali né percepite nella loro giusta dimensione.
Ciò che assai pesava sul partito nel giudizio dei più, era il fatto in sé meno rilevante, quello che avrebbe dovuto, al più, considerarsi un grottesco incidente di percorso: l'elezione di Cicciolina, con l'appendice del suo comportamento parlamentare insulso, che la pornodiva non seppe nemmeno colorare con qualche sprazzo autenticamente e spiritosamente scandaloso. Ad indignarsi perché i radicali avevano portato Cicciolina in Parlamento furono probabilmente anche molti che le avevano dato la preferenza. Certamente lo furono giornali che avevano determinato la sua elezione dedicandole tanto spazio quanto non ne avevano mai dedicato, tutto assieme, al Partito Radicale in tanti anni di battaglie anche di grande momento. Ma, al di là del "fatto del giorno" e delle valutazioni che potevano esserne date, ciò che realmente pesava negativamente era proprio il tentativo di Pannella di "mettere una toppa" all'incidente che andava profilandosi durante la campagna elettorale, invitando invano gli elettori radicali a non dare la preferenza ad una candidata che si era rivelata allo stesso tempo imbarazzante e troppo popolare. Ancora una volta una candidatura "scandalosa" era scoppiata tra le mani di Pannella e dei radicali e questo sottolineava il carattere d'azzardo, di scena per la scena del metodo, ahimè, radicale di far politica. Dato di fatto non facilmente contestabile, specie se riferito a momenti più recenti e meno felici nelle iniziative di Pannella e del partito, ma non certo tale da poter obiettivamente far dimenticare altri e certamente positivi aspetti della "diversità" radicale.
Certo è che lo sberleffo che con il voto a Cicciolina tanti elettori di Roma e del Lazio avevano inteso fare al regime, ai partiti ed alla classe politica, si era tradotto in uno sberleffo al partito radicale.
La questione Cicciolina pare che sia stato il pretesto usato da Craxi per liquidare la richiesta di Pannella di ottenere, attraverso la sua nomina a ministro, una contropartita della politica di sostanziale appoggio al PSI e di inserimento nell’"area socialista" da lui perseguita, in buona sostanza, almeno dal 1983. Craxi avrebbe sostenuto che non c'era alcun modo, di convincere la DC ad una apertura al partito di Cicciolina. L'atmosfera del momento rendeva il pretesto plausibile, ma esso rimaneva pur sempre un pretesto. Successivamente doveva naufragare pure il, tentativo, compiuto con diverso metodo, attraverso la raccolta di firme di parlamentari di ogni parte politica, di ottenere la nomina di Pannella a Commissario CEE al posto attribuito invece a Ripa di Meana.
I veti cui era andato incontro avrebbero potuto rappresentare una fortuna per il Partito Radicale, se esso avesse voluto e saputo riprendere il ruolo che gli era proprio e che molti continuavano, malgrado tutto, a riconoscergli, di partito antiregime e di alternativa al regime, primogenitura da non svendere per il piatto di lenticchie di un riconoscimento (assai poco credibile, stante la provenienza) di una capacità di governo, che del resto, sarebbe rimasta, a nomina ottenuta, tutta da dimostrare.
Quegli eventi segnavano comunque il fallimento di una fase della politica radicale, portata avanti senza che il partito ne avesse potuto effettuare una chiara e cosciente scelta e quindi senza un approfondimento, una prudenza ed una stabilità di indirizzi che tale scelta avrebbe necessariamente comportato.
Alla delusione fece seguito una virata di centottanta gradi. Il PSI diveniva il nemico da combattere, e, mentre non venivano cercate e perseguite nuove alleanze, ci si rifugiava nella trasversalità ambigua del partito "transpartitico", che alla lotta al regime sostituiva la lotta per la "riforma della politica". E' da parte radicale che incominciarono, più o meno in quell'epoca, le proposte di riforma della legge elettorale in senso uninominale (e Pannella insisteva: "all'inglese" cioè senza doppio turno) per favorire i grandi schieramenti. Quello che dopo qualche anno doveva diventare il grande diversivo del regime, oltre che il tentativo di fronteggiare con nuove norme il calo dei suffragi, la riforma delle istituzioni e del sistema elettorale, trovava i primi sostenitori proprio nel partito antiregime che si accingeva a togliersi di mezzo.
D’altro canto la "trasversalità" che Pannella voleva imporre quale carattere del nuovo strumento politico di cui era alla ricerca, malamente veniva fatta coincidere con quella di schieramenti promossi ed animati dai radicali nella prima fase della loro esistenza, primo (e forse unico) tra tutti, quello divorziata. Altra cosa infatti è il determinarsi di un partito trasversale su di uno specifico tema politico, assurto a dato discriminante al di là ed al di sopra delle formule, altra cosa la pretesa di un partito di divenire esso stesso "trasversale", istituzionalmente e programmaticamente promotore di trasversalità da inventare, affidate non già all'affacciarsi di determinati grandi problemi, bensì alla dispersione dei suoi iscritti negli altri partiti.
Se a questo si aggiunge che una tale trasversalità avrebbe dovuto essere affidata non ad una comune, forte caratterizzazione culturale, ideologica, progettuale dei radicali, bensì ad un sempre più esclusivo ruolo carismatico del leader del partito interpartitico, tale progetto assumeva chiaramente un carattere irreale, se non fosse stato semplicemente la dissimulazione dello scioglimento, che il "popolo radicale" aveva rifiutato un anno prima. Considerazioni analoghe ed ancor più gravi ed ineludibili potevano e dovevano essere fatte per ciò che riguarda la cosiddetta "scelta transnazionale", nella quale ambiguità e megalomania, dissimulazione e ricerca di un alibi e di un diversivo per la perdita di ogni fede nella realizzazione del partito d'opposizione al regime e nel suo ruolo nella crisi del regime stesso, si fondevano e si sommavano in modi fin troppi evidenti.
Oramai, proprio perché la liquidazione del partito radicale non veniva più rappresentata crudamente come nelle precedenti occasioni in cui era stata posta la questione del suo scioglimento, o "cessazione di attività", proprio perché la liquidazione veniva ripresentata con un arzigogolo così elaborato ed ad un tempo privo di senso, essa era una prospettiva reale e le intenzioni di Pannella erano trasparenti. Trasparenti, ovviamente, per chi non si rifiutava di guardare la realtà e non aveva perso la capacità di autonomo giudizio. Ma su questo punto dovremo tornare più avanti.
Che il congresso da tenersi a Bologna avesse uno sbocco prestabilito, quello lasciato intravedere dalla assai fredda reazione di Pannella al raggiungimento della "condizione" dei diecimila iscritti alla seconda sessione del congresso dei 1986 - 1987 e dall'imposizione della nuova "condizione" dei tremila iscritti stranieri (peraltro non raggiunta) fu subito evidente, quando ne venne lanciato il tema: "Attraverso le frontiere, i partiti, gli stati nazionali un partito per l'Europa del diritto e della non violenza".
A Bologna il cosiddetto "gruppo dirigente" del partito si presentò compatto, preoccupato soltanto di interpretare puntualmente gli intendimenti di Pannella, che, con un procedimento che di solito usava quando voleva spingere l'imposizione delle sue volontà fino all'inverosimile, si tenne lontano dalle riunioni nelle quali quel gruppo andava preparando i deliberati e gli scenari del congresso, tenendolo però sotto stretto controllo.
Una riflessione sull'atteggiamento di tante persone, molte delle quali non prive di intelligenza ed esperienza politica, che non capirono o si comportarono come se non capissero (dovendo alcune di esse poi pentirsene amaramente) che il Partito Radicale veniva liquidato, pur lasciandolo in piedi formalmente come supporto essenzialmente finanziario di altre iniziative ed attività più congeniali a Pannella, dovrebbe pur essere fatta e porterebbe a conclusioni sconcertanti.
Responsabilità per la fine del Partito Radicale ne hanno un po' tutti, chi più chi meno, a cominciare da chi scrive. Aver evitato la rottura con Pannella ed aver ritenuto che si dovesse cercare di farlo uscire, salvandogli in qualche modo la faccia, da operazioni politiche senza sbocco, come quella sulla fame nel mondo o quelle paradossali sfide che gli erano e gli sono congeniali, era un atteggiamento rischioso e deprimente, ma poteva trovare una giustificazione nell'assoluta impossibilità di portare avanti il partito senza o contro Pannella. Ma spingere l'acquiescenza fino all’accettazione della liquidazione del partito era incredibile. Se non avessi mai combattuto una battaglia contro il reato di plagio, sarei portato a far ricorso a questa torbida e semplicistica spiegazione di rapporti umani. Ma un fenomeno collettivo, destinato ad avere conseguenze, grandi o piccole che siano, sulla vita sociale e politica di un paese è esso stesso storia e va discusso e giudicato con metro a ciò adeguato. Ed allora occorre dire che l'acquiescenza del cosiddetto gruppo dirigente radicale (sempre assai poco, ed, in quel caso, per nulla dirigente) dava la misura della fragilità, anche sul piano intellettuale e morale, cui si era ridotta quell'esperienza politica, della mancanza di un autentico sviluppo come forza aderente alla realtà.
La "svolta transnazionale e transpartitica" fu resa ancor più drasticamente efficiente, come mezzo di liquidazione del partito, con la deliberazione che il partito radicale "come tale" non avrebbe più presentato liste alle elezioni. In più venne deliberato il cambiamento del simbolo del partito, la rosa nel pugno, con un bruttissimo sgorbio raffigurante la testa di Gandhi formata da un formicaio di minutissime scritte "partito radicale" in centinaia di lingue. Uno sgorbio, sia detto per inciso, costato trenta milioni di onorario ad un designer. Per dare un volto transnazionale al partito (basti pensare al costo dei viaggi) Pannella non ha mai badato a spese.
Solo Enzo Tortora mi fu a fianco nel contrastare quelle decisioni. Con una felicissima battuta Enzo definì il "partito transnazionale" il nuovo "Cacao Meravigliao", il prodotto inesistente pubblicizzato nella trasmissione satirica di Arbore "Quelli della notte", che allora aveva grande successo.
Tranne Tortora, non uno di coloro che avevano o avevano avuto posizioni di rilievo nel partito si oppose alle proposte liquidatorie.
Bruno Zevi, in verità, votò a favore di un emendamento da me proposto che sopprimeva il punto della mozione della maggioranza relativo alla decisione di non partecipare più ad elezioni.
La massa degli iscritti sembrò ad un certo punto tutt'altro che docile e rassegnata e sembrò aver capito la sostanza di quanto le si andava ammannendo, assai meglio di quanto non mostrassero di averlo capito quanti, a vario titolo, erano investiti di particolari responsabilità.
I regolamenti del congresso non consentivano un confronto ad armi pari. Salvo il segretario ed il tesoriere e, al di sopra di ogni regola, Pannella, nei congressi radicali gli iscritti avevano dieci minuti per i loro interventi, che, ovviamente non potevano esprimere compiutamente una linea politica ed una critica serrata, specie da parte di chi non potesse contare su di un giuoco di squadra.
Scese in campo Pannella, per dire, in buona sostanza "o con me o contro di me", non risparmiando l'attacco personale ed i toni sprezzanti nei miei confronti, come del resto aveva fatto anche al congresso del novembre 1986.
Negri, segretario uscente, ci mise del suo, dicendo al congresso che io non riuscivo a capire la necessità dei grandi schieramenti e che ero attaccato all'idea del "partitino del 3%". Un'idea che egli stesso, di li a poco più di quattro anni, avrebbe dovuto inseguire come un miraggio non raggiunto e presto dissolto.
A rendere praticamente irreversibile il consenso bene o male ottenuto dal congresso, Pannella fece deliberare che il prossimo congresso sarebbe stato tenuto a Budapest. Così diveniva impossibile che si potesse tornare sulla questione del partito transnazionale e di un partito che fosse un partito e non un'agenzia turistica, quale quella che avrebbe organizzato i voli charter e distribuito i biglietti ferroviari scontati. Ben presto si sarebbe potuto fare a meno anche del voto dei congressi, domandando ogni potere ad un quadrunvirato. Dalla Convenzione si era passati al Consolato, saltando il Direttorio. Il Primo Console, del resto, c'era sempre stato.
La storia del Partito Radicale del dopo Bologna è la storia di un fantasma. Consigli federali tenuti a Gerusalemme o a Madrid con esibizione di consiglieri africani o russi o francesi, iscrizioni di qualche radicale ad altri partiti (ma, in pratica quelli noti furono accolti solo nel PSDI, che aveva bisogno di rifarsi un'immagine e di turare le falle di una scissione, né vi ebbero vita facile).
Poi nella primavera del 1989 le elezioni europee. Sembrò un successo della politica "transpartitica" del "nuovo" Partito Radicale. In realtà ne segnò allo stesso tempo l'inizio e la chiusura. Furono eletti tre radicali: uno, nelle liste verdi-arcobaleno, uno nelle liste antiproibizioniste e Pannella nelle liste liberali-repubblicane. Ma l'unificazione dei Verdi doveva segnare, di lì a poco, l'emarginazione di tutti i radicali di quell'area, tranne Rutelli, che aveva fatto la sua scelta, che con il "transpartitico" aveva chiaramente poco a che fare. Malumore, e peggio nei confronti di Pannella anche tra repubblicani e liberali. Restava lo spezzone antiproibizionista. Rotto il giocattolo considerato troppo piccolo, ma soprattutto non di suo gusto, Pannella avrebbe potuto continuare a giuocare con i pezzi di quello rotto.
Ma tutto ciò non è più storia del partito che aveva sfidato il regime, che lo aveva costretto a ripiegarsi su se stesso, svuotandolo di credibilità e di ideali, che poteva attendere il suo momento quando la crisi fosse divenuta totale e definitiva.
D'altro canto la scelta di Bologna, se così la si può definire, arrivava nel momento sbagliato anche sotto altro aspetto e dal punto di vista dei risultati che con quella scelta forse ci si ripromettevano.
Era proprio allora fallito il tentativo, portato avanti in modo strisciante, di fare del partito radicale un elemento importante di una rinnovata "area socialista". Il PCI, occupato fin da allora a cambiare pelle, non aveva affatto dismesso le antiche diffidenze nei confronti di Pannella e perseguiva l'obiettivo di non perdere pezzi per strada piuttosto che quello di aggregare nuovi carichi. I verdi sembravano sempre più preoccupati di difendere il loro ambiente da inquinamenti di ecologisti non integrali e puri. Il "transpartito" si riduceva dunque ad una sorta di angusta manovra con i quadri, priva di ogni supporto di idee e di programmi.
Ma sbagliato era anche il momento per una qualche credibile strategia "transnazionale".
Negli anni precedenti il Partito Radicale aveva accolto e dato voce a numerosi dissidenti sovietici e compiuto azioni dimostrative nell’URSS. Ora erano state raccolte adesioni in quel Paese ed istituito poi un ufficio di rappresentanza radicale. Se il tramonto del regime comunista fosse andato per le lunghe, con quella sorta di limbo tra legalità ed illegalità riservato all'opposizione, il partito radicale avrebbe potuto avere, se non un ruolo di rilievo nel passaggio alla democrazia, certo almeno occasioni di far notare la sua presenza e di sottolineare l'aiuto diretto esterno alla trasformazione in atto. Ma il 1989 segnò una accelerazione dei processo di democratizzazione tale da rendere del tutto insignificante l'impegno radicale che forniva oramai solo l'occasione ed il denaro per qualche viaggio in occidente di alcuni più o meno noti e credibili "radicali" di quel paese.
La trasformazione del Partito radicale si rivelava appieno per quello che era in realtà: la liquidazione di ogni prospettiva e di ogni funzione politica, oltre che di ogni personale politico, che non fossero quelli del mero supporto ai virtuosismi personali di Pannella.
Ben presto si sarebbe arrivati alla falange, o almeno al plotone o alla squadra delle "Teste di Cuoio" (o magari guardia pretoriana) di cui egli aveva parlato già nell'ottantuno. Ma nemmeno più delle "teste di cuoio" delle iniziative nonviolente, visto che, malgrado il simbolo con l’effigie di Gandhi ed il preambolo dello statuto con il rifiuto persino della legittima difesa adottato nel 1980, anche questa peculiarità radicale era stata disinvoltamente messa da parte in occasione del voto sulla partecipazione italiana alla guerra del Golfo.
Anche l'idea di lanciare una grande campagna antiproibizionista quale supporto della nuova presenza elettorale e di uno schieramento trasversale tra i partiti si è rivelata ben presto del tutto inadeguata, se non a soddisfare ambizioni assai più modeste. L'antiproibizionismo non ha la benché minima possibilità di divenire l'equivalente di quello che fu la questione del divorzio.
La libertà dalle "pastoie" di un partito, sia pure come quello radicale, potrà consentire qualche brillante spregiudicatezza e qualche più rapida evoluzione, ma nulla che abbia a che vedere con l'aggregazione di una forza politica capace di rispondere alle attese ed alle necessità nascenti dal tramonto di ideologie, dal corrompimento della classe politica e dei sistemi di potere, dall'inesorabile disfacimento del regime.
I funambolismi più abili ed arditi non potranno nascondere la realtà: il Partito Radicale è un partito che non c'è.