Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1. La questione delle Nazionalità

Cominciando questo tentativo di ragionamento su: "l'Europa e la questione delle Nazionalità", vorremmo sgomberare il terreno da alcuni concetti inquinati.

Prima di tutto vorremmo prendere le distanze dal concetto di autodeterminazione (e dal suo corollario, i diritti dei popoli): un concetto che è servito, nella stragrande maggioranza dei casi, a gruppi cosiddetti dirigenti per reprimere, in nome dell'indipendenza da conquistare, ogni diritto del singolo, per calpestare ogni diritto umano, per presentare la via violenta all'indipendenza come l'unica possibile, e, conseguentemente, a "liberazione compiuta", per costruire un nuovo stato centralizzato, giacobino, spesso totalitario, e più spesso ancora meno rispettoso delle proprie minoranze, politiche, etniche, religiose o di altro tipo, di quanto lo fosse lo Stato da cui si ritenevano oppressi.

A questo concetto di autodeterminazione vorremmo contrapporre quello di "autogoverno", inteso come strumento per una comunità data, mono o pluri-etnica, di governarsi in tutti gli ambiti in cui questo "governo" risultasse più efficace oltre che più vicino al cittadino che se fosse organizzato dal potere centrale. Un concetto, questo, che rinvia quindi direttamente a quelli di interdipendenza e di sussidiarietà. Rimangono ferme le necessità del coordinamento sia con le altre entità "federate", quando l'entità è parte di un insieme statuale più vasto, sia con gli stati confinanti, quando si tratta di stati internazionalmente riconosciuti.

In secondo luogo, vorremmo quanto meno tentare (l'esperienza ci dice che si tratta di un'impresa molto difficile) di togliere al concetto di federalismo alcuni dei significati che per molti ha assunto in Europa Centrale ed Orientale in seguito alle esperienze storiche politiche, in particolare quelle ex-yugoslava, ex-sovietica e cecoslovacca, alle quali è stato associato.

Federalismo, come lo dice del resto la radice stessa del termine, vuole dire "mettere insieme". Si tratta quindi di un atto volontario. Di attuazione per definizione impossibile (a meno di stravolgerne il significato) in regimi non-democratici, e, a maggiore ragione, in regimi totalitari. L'opposto quindi dello smembramento e della disgregazione paventati dai settori conservatori degli ex-partiti unici dei regimi comunisti, ora riconvertiti al nazionalismo in molti paesi dell'Europa Centrale ed Orientale.

Perché questa precisazione? Perché dai Balcani al Caucaso, dal Bacino del Danubio alla regione asiatica dell'ex-Unione Sovietica, fino, ovviamente, a quei paesi membri di questa così precaria, debole e poco democratica Comunità europea, tra ed all'interno di tutti questi stati oggi esistenti, la capacità di affrontare le nuove e grandi sfide del nostro tempo, e quindi in primo luogo una convivenza pacifica e reciprocamente proficua tra le nazioni e le etnie, oltreché uno sviluppo sostenibile, ovvero accessibile a tutti e rispettoso dell'ambiente, non potranno esistere senza che, in un modo o in un'altro, essi trovino tra di loro ed al loro interno nuovi modi VOLONTARI e DEMOCRATICI, quindi FEDERAL-DEMOCRATICI di organizzazione delle interdipendenze, di luoghi per agire insieme e per difendere dei comuni interessi.

1.1. Nazionalità e Stato dei Cittadini

Questi principi sono, però, molto generali, e spesso di difficile attuazione nelle situazioni complesse e a volte drammatiche oggi esistenti nell'Europa Centrale ed Orientale. In effetti, se è vero che una delle grandi linee di demarcazione tra democrazia e non-democrazia passa tra lo stato dei cittadini sognato, tra gli altri e drammaticamente, dal Presidente bosniaco Izetbegovic ed i vari progetti pan-nazionali, a cominciare da quello di Milosevic, con questo però non si esaurisce la problematica dell'articolazione, in regime di democrazia, tra i diritti il cui esercizio va organizzato in modo univoco e quelli il cui esercizio va diversificato in funzione dell'etnia o meglio della comunità etnica-culturale di appartenenza.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.2. Stati e nazioni

Di fronte al grande numero dei problemi etnici aperti sul continente europeo si contrappone una grande diversità di approcci. Tra chi ritiene che si tratti di uno stesso ed identico fenomeno, con le stesse cause e gli stessi effetti e chi ritiene che, sia le cause sia gli effetti, siano numerosi quanto i casi, noi vorremmo tentare un approccio sistematico alla questione. Andando per approssimazioni cominceremo col distinguere le situazioni nelle quali c'è corrispondenza tra territorio e "etnia" e quelle in cui non esiste questa corrispondenza.

1.2.1. Corrispondenza tra territorio e nazione

Il primo vede una separazione geografica netta tra le diverse nazionalita'. I casi di questo tipo, sono stati, per lo più, risolti nel corso dei secoli, e specialmente nel secolo scorso, con l'accesso di queste nazioni all'indipendenza nazionale. Va sottolineato però che - a dispetto anche di quanto possa apparire oggi - la separazione geografica tra le diverse etnie era raramente ben delineata e che sia i processi di indipendenza delle "nazioni" di ieri, sia quelli di oggi (come del resto quelli "programmati" per domani), si sono spesso compiuti sulla pelle di altre "nazioni" o "comunità etniche", interne a queste nuove entità territoriali che accedevano all'indipendenza, all'autonomia (vedere Alto Adige o Belgio per esempio), cambiavano stato (Transilvania), erano "assorbite" da o annesse ad altre entità statuali (Alsazia, per esempio). Politiche non certo uguali, che potevano andare dai trasferimenti (e spesso massacri) di popolazioni (come per i Tartari di Crimea), alla pura e semplice negazione dell'identità nazionale (come tutt'oggi, ad esempio, per i macedoni viventi in Grecia), alla assimilazione sotto copertura legale, piu' o meno forzata (ad esempio in Catalonia, in Bretagna), alle politiche di popolamento tendenti a cambiare la struttura etnica di una regione data, all'ostacolazione burocratica verso l'uso di determinati diritti delle "minoranze", ...

1.2.2. Stato e multi-etnicità

Il secondo tipo vede delle situazioni di tale intreccio geografico tra le varie etnie che qualsiasi ipotesi di indipendenza o di autonomia fondata su base geografico-etnica appare impossibile. Un caso tra i piu' emblematici di questo tipo di situazione e' rappresentato dalla Bosnia Erzegovina dove convivono a macchia di leopardo tre grandi "comunità etnico-religiose".

In situazioni del genere, che hanno ovviamente precedenti nella storia - basta ricordare la spartizione (in questo caso su base religiosa piu' che etnica) delle Indie ed i successivi e tragici trasferimenti di popolazioni tra India e Pakistan - si manifesta in tutta la sua drammaticità la difficoltà dell'articolazione tra i diritti il cui esercizio è uguale per tutti i cittadini e quelli il cui esercizio è diverso a secondo dell'appartenenza "etnica". In questi casi, anche perché manca una seria riflessione sull'articolazione di cui sopra, le possibilità di scelta si limitano di fatto a quella - concreta quanto razzista ed antidemocratica - detta di ridistribuzione etnica e a quella - democratica benché un po' astratta - chiamata "stato dei cittadini".
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.3. Lo Stato dei cittadini ed i diritti delle minoranze

Se deve essere ben chiaro che l'approccio alle nuove-vecchie questioni nazionali non può non essere quello dello stato dei cittadini, ovvero quello democratico che garantisce a tutti i cittadini gli stessi ed identici diritti, rimane da affrontare la questione dei diritti la cui applicazione, il cui esercizio (ma non la cui sostanza) va diversificato in funzione dell'appartenenza ad una comunità etnica piuttosto che ad un'altra.

1.3.1. Federalismo non territoriale

Questi diritti comprendono quelli chiamati "personalizzabili" (vedere la Costituzione belga modificata) e quelli detti "culturali". I primi implicano un rapporto diretto tra il cittadino con le istituzioni e le amministrazioni statali (la giustizia per esempio, ma anche la sanità, ...). I secondi riguardano da una parte la facolta' per il cittadino di poter intendere ed esprimersi nella propria lingua materna (educazione, informazione radio-televisiva, ...) e, dall'altra, la possibilità di poter "vivere" la propria cultura, riconducibile all'autonomia culturale propriamente detta (cultura, e quindi anche i rapporti - internazionali o non - con le altre culture o con le comunità di stessa cultura viventi in altri paesi).

Deformato dal culto dell'autodeterminazione, il concetto di autogoverno per l'esercizio di questi diritti non e' stato quasi mai dissociato da quello di autogoverno territoriale. Finora in effetti il federalismo democratico, ovvero il federalismo infranazionale, si e' sempre concretizzato con la delega da parte dello stato di alcune delle sue prerogative (non solo amministrative) a delle sue entità federate, le cui realtà e tangibilità, come per lo stato, erano fondate su, e riconducibili ad un territorio.

Solo nella tradizione austro-asburgica (Otto Bauer e Karl Renner tra gli altri), si possono individuare alcuni primi sviluppi di una teoria dell'autogoverno per quelle comunità etniche non riconducibili ad un preciso territorio. Nella storia più recente, i legislatori belgi hanno tentato di ri-attualizzare questo concetto, dando origine ad una organizzazione federale dello stato fondata su due pilastri: le comunità (per le materie "personalizzabili" e quelle culturali in senso lato) e le regioni (per le altre materie delegate). Purtroppo fecero corrispondere, ad eccezione della regione di Bruxelles-Capitale (sul territorio della quale le due comunità possono esercitare le loro competenze), l'appartenenza comunitaria con l'appartenenza regionale, vanificando la possibilita' per le minoranze in seno alle regioni di poter "vivere" le loro peculiarità di minoranza "etnico-linguistica" nelle istituzioni di un'altra comunità etnico-linguistica.

1.3.2. Autogoverno e integrazione

Questa intuizione - con le sue parziali realizzazioni -, sebbene seducente sotto molti aspetti, non è però priva di interrogativi. Ed in particolare quello che riguarda la necessaria integrazione senza la quale difficilmente una comunità umana e più specificamente una entità statuale può sopravvivere. A questo si può rispondere, senza pretendere per questo di esaurire tutta la problematica, che nell'organizzazione statuale dove vige l'autonomia o l'autogoverno "comunitario" dovrebbe esistere anche una organizzazione federale di tipo classico o territoriale, al fine questo, anche, di "costringere" le diverse comunità a lavorare e decidere insieme sulle materie (la maggiore parte) che le riguardano indistintamente o indipendentemente dalla loro appartenenza "etnica"; ci riferiamo a quelle riconducibili al "territorio" (politiche economica, ambientale, urbanistica, dell'alloggio, dei trasporti, ..., nei loro aspetti pertinenti con la dimensione regionale) e non all'appartenenza "etnico-comunitaria".

1.3.3. Integrazione e democrazia linguistica

Integrazione vuole dire anche capacità di comunicare e quindi di comprendersi. Una questione molto sensibile. La lingua, in effetti, riporta direttamente all'identità nazionale. E, molto spesso, una sia pure minima messa in discussione della sua valenza in quanto mezzo unico di comunicazione "nazionale" viene subito risentita dalla nazione "maggioritaria" come una minaccia alla sua esistenza stessa. Allo stesso modo, la lingua, la possibilità di poterla praticare, rappresenta per le "nazioni" minoritarie il segno più tangibile della loro diversità e quindi della loro esistenza in quanto gruppo distinto.

La questione della comunicazione, riconducibile al concetto di democrazia linguistica, va affrontata sia all'interno degli stati in cui vengano usate diverse lingue materne, sia nelle federazioni tra stati linguisticamente diversi (e, di riflesso, anche per la questione della comunicazione mondiale) cercando di superare o, quanto meno, di limitare le situazioni, i comportamenti, i rapporti pubblici, "statuali" (o "federali") di tipo "imperiale" derivanti da una disuguaglianza di fronte alla conoscenza di una lingua. Il problema non e' di poco conto. In effetti e' la democrazia stessa che viene a mancare se, per una mancata padronanza di una lingua, una persona viene discriminata. Cosa che puo' succedere, per esempio, quando un imputato viene giudicato in una lingua che non e' la sua lingua-madre.

Storicamente tale questione della lingua di comunicazione è stata affrontata e "risolta" (anche se spesso solo per un periodo) con l'imposizione come lingua di comunicazione della lingua del più forte. Gli esempi di questo tipo sono pressoché infiniti: dal latino nell'impero romano al russo nell'impero sovietico passando all'inglese, al francese, allo spagnolo, al portoghese in moltissimi paesi del cosiddetto terzo mondo. D'altra parte, si sono affermati, più recentemente, anche in seguito ai processi di "emancipazione nazionale", dei sistemi statuali dove due o più lingue hanno conseguito lo status di lingua nazionale (bilinguismo o plurilinguismo), come in Canada, in India, in Belgio, in molti paesi africani ... o nella Comunità europea. Un approccio che, oltre a comportare dei costi non indifferenti, non risolve la questione della comunicazione tra i più, essendo limitato ad alcuni momenti istituzionali ed amministrativi. Un approccio inoltre che, per ovvie ragioni tecniche e finanziarie, difficilmente potrebbe funzionare in strutture statuali dove convivrebbero un alto numero di lingue, come viene già dimostrato da una Comunità europea che conta, allo stato, nove lingue ufficiali.

A meno quindi di rassegnarsi al prevalere di lingue "imperiali", che esse lo siano soltanto regionalmente o nazionalmente nei confronti di lingue "minoritarie", o che lo siano universalmente, come sta accadendo per l'inglese, l'unica strada alternativa che ci sembra percorribile e' portare sul terreno politico la questione della scelta di una lingua franca, neutrale, di comunicazione tra le persone (e quindi non più soltanto tra gli esperti e le "élites") di madre-lingua diversa. Una riflessione questa, avviata solo di recente e, purtroppo, ancora marginalmente da una Comunità europea confrontata a problemi, già enormi, risultanti della convivenza di nove lingue ufficiali.

1.3.4. Autogoverno e democrazia

All'ipotesi di un ordinamento istituzionale di tipo federale-non territoriale, viene spesso contestato la sua non-applicabilità, la sua non realizzabilità, in forma democratica. Una critica che ci sembra infondata in quanto non si capisce perche' una comunità etnica non potrebbe eleggere, in modo democratico, un suo proprio "parlamento comunitario" dal quale emanerebbe un "governo comunitario", responsabile della conduzione delle politiche proprie della comunità etnica in questione. Ovviamente non si tratta - e non e' certo l'obiettivo di questi spunti - di creare in astratto l'elenco mondiale di tutti i gruppi che dovrebbero poter usufruire di un ordinamento istituzionale piuttosto che di un altro. Deve vigere su tale questione il principio di realtà, ovvero deve esserci, in questo caso, la coscienza del gruppo etnico di esistere in quanto comunità a sé e la volontà di assumere, in quanto comunità distinta, la gestione degli "affari" che ritiene proprie.

Certo, una tale opzione comporterebbe alcuni problemi per quanto riguarda i metodi di rappresentanza e di elezioni. Non ci sembra, pero', che essi siano insormontabili. La definizione delle circoscrizioni, per esempio, potrebbe essere affrontata del tutto normalmente, grazie ai censimenti che, nella maggiore parte dei casi, gia' prevedono la specificazione della nazionalità di appartenenza. Oppure, e forse meglio, su base della scelta dell'elettore, quindi volontaria e segreta, che, al momento del voto e con il suo stesso voto sceglierebbe la sua Comunità etnica di appartenenza. Appartenenza quindi che oltre ad essere segreta, potrebbe essere modificata in occasione di un ulteriore voto.

Semmai il problema è più generale, ovvero riguarda il sistema politico ed, in particolare, i meccanismi di elezione e di formazione e funzionamento della o delle assemblee elettive e di governo. Non c'è ragione in effetti che non si manifestino per delle assemblee regionali, comunitarie od altre, gli stessi effetti indotti dalla partitocrazia manifestatisi, o in corso di manifestarsi, nella maggiore parte degli Stati di vecchia o nuova democrazia del Continente europeo a tutti i livelli di rappresentanza (parlamentari e comunali in particolare). C'è da notare, però, che nel caso del sistema di scelta della comunita' di appartenenza tramite il voto, si impone la circoscrizione "comunitaria" unica, e quindi, conseguentemente il sistema elettorale proporzionale.

1.3.5. Federalismo, democrazia e sistema elettorale

Ci sembra quindi pertinente legare alla questione dell'articolazione istituzionale delle minoranze nei loro stati di appartenenza, quella che riguarda la natura del sistema istituzionale-elettorale vigente all'interno di queste strutture "federate". In altre parole, ci sembra che anche qui l'alternativa sia tra democrazia di governo (anglosassone) e quella rappresentativa (proporzionalista).

E la connessione è più diretta di quanto possa apparire. In effetti se per le ragioni che abbiamo visto sopra, e' auspicabile accoppiare alla dimensione federale comunitaria quella federale regionale, l'esistenza anche in questa seconda dimensione di un sistema maggioritario diventa una garanzia (benché certamente non assoluta) perché gli schieramenti non avvengano su base etnica (magari anche in netta contrapposizione) ma su base inter-etnica creando quindi le condizioni per una effettiva collaborazione tra le varie etnie.

Per quanto riguarda la ripartizione delle risorse finanziarie fra le varie comunità etnico-linguistiche, anche essa potrebbe essere calcolata sia su base del censimento sia su base dei risultati elettorali, ovvero con l'attribuzione a ciascuna comunità di una soglia di finanziamento (eventualmente anche in qualche modo corretta o ponderata) in rapporto al numero di "appartenenti alla Comunità".

In alternativa, o in modo complementare, si possono attribuire - come per i Laender tedeschi - alle varie entità autonome poteri di autofinanziamento tramite imposte e tasse autonome. In questo caso, però, l'appartenenza "comunitaria" dei cittadini dovrebbe essere palese, ufficiale.

Sempre sulla questione del finanziamento, il sistema di perequazione fiscale in vigore nella Germania Federale, che prevede meccanismi automatici di redistribuzione di risorse tra Laender ricchi e quelli poveri, puo' costituire un importante fattore di solidarietà e di coesione al livello nazionale tra le varie comunità.

Tornando alla "critica" di cui sopra, ovvero alla non o poca democraticità di tali istituzioni, ci sembra invece che sia proprio l'assenza di tali istituzioni ad essere una delle cause principali del rafforzamento delle caratteristiche "totalizzanti" e del debole "tasso" di dialettica democratica di molti dei partiti delle minoranze nazionali oggi esistenti. In effetti, in assenza di tali strutture federali-comunitarie democratiche, prevale la logica della difesa "sindacale" degli interessi della "comunità minoritaria" nei confronti della maggioranza, la chiusura su se stessa, e non il confronto delle idee, la dialettica democratica all'interno della minoranza stessa e tra la o le minoranze e la maggioranza. Per non parlare degli effetti piu' generali indotti dall'assenza di queste istituzioni: in primo luogo il rafforzamento dei sentimenti di diffidenza reciproca tra "maggioranza" e "minoranze", spesso nutriti da contrapposizione secolare, dovuti all'assenza di chiarezza e di definizione dei rapporti reciproci.

1.3.6. Comunita' etnica, minoranza nazionale, co-nazione

Un altro interrogativo riguarda la definizione stessa di "comunità etnica" e/o di "minoranza nazionale". Questione, questa, delicatissima per varie ragioni. Prima di tutto in quanto si scontra direttamente con il sentimento nazionale dell'etnia dominante, ovvero del suo monopolio al diritto di corrispondere in quanto nazione al territorio nazionale nel suo insieme.

Una questione che non si pone soltanto nel caso dei serbi della Krajina (o delle Krajine), degli armeni dell'Alto Karabach o degli ungheresi del Paese dei Siculi ("Szekely Fold"), minoranze etniche nazionali, ma regionalmente maggioranze, che vivono da secoli su queste terre, ma anche nel caso delle comunita' turche, marocchine, algerine, per fare solo alcuni esempi, che vivono da alcuni decenni, numerose, spesso concentrate e con volonta' di mantenere delle proprie e forti caratteristiche culturali, in vari paesi dell'Europa Occidentale.

A questo proposito si e' proceduto in alcuni casi concreti (ma finora solo nei casi di "vecchi insediamenti"), attraverso "leggi sui diritti delle minoranze", a stabilire delle "soglie", delle percentuali minime, che una volta raggiunte facevano automaticamente scattare, per le comunità etniche minoritarie, la possibilità di usufruire di una serie di diritti. Se l'aspetto numerico, in rapporto alla popolazione totale del paese e/o in rapporto a quello di una regione data, rappresenta senz'altro un dato significato, pensiamo che il dato fondamentale sia la coscienza stessa della popolazione di costituire una "minoranza" ovvero una comunita' distinta. Un dato pero' che non puo' avere significato al di fuori di una sua espressione democratica, ovvero tramite elezioni, referendum.

Sempre su questo aspetto, può essere utile un approfondimento della riflessione avviata da alcune minoranze nazionali sul concetto di "co-nazione". Non solo nel senso di "con-partecipazione" piena alla vita del paese ma anche nel senso che il riconoscimento della sua esistenza non dovrebbe costituire una "discriminazione positiva" nei confronti della maggioranza, bensì una divisione funzionale tra "maggioranza" e "minoranze" di alcuni compiti e delle responsabilità. Apparentemente "semantica", tale questione viene avvertita molto spesso come sostanziale da queste comunita' etniche che, benché "minoritarie" e desiderose di auto-governare i momenti della loro peculiarità etnica, vogliono concorrere, a tutti gli effetti, alla vita del paese in cui vivono. In questo senso al termine "minoranza" che viene da loro risentito come peggiorativo perché percepito come sinonimo di "categoria secondaria", vengono preferiti i termini "co-nazione", "comunità" o "comunità etnica", che, benché marcando la specificità, non comprendono questo aspetto peggiorativo.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.4. Regioni transfrontiere

Un'attenzione particolare va anche data alle regioni "transfrontiere", ovvero a queste comunità etniche regionalmente concentrate che sono a cavallo di frontiere statali: come nel caso del Paese Basco, a cavallo di Spagna e Francia, la Krajina serba, a cavallo di Croazia e Bosnia. Per un approccio dinamico a queste realta' ci sembra utile soffermarci su un fenomeno connesso, in piena evoluzione, all'interno della Comunità europea. In essa in effetti, si assiste da alcuni anni ad una moltiplicazione di accordi diretti tra regioni (istituzionalmente riconosciute) di diversi paesi. Così per esempio tra la regione Provence-Cote d'Azure (Francia) ed la regione Piemonte (Italia), tra il Nord-Pas de Calais (Francia) e la Wallonia (Belgio), tra la Catalogna (Spagna) e la regione Sud-Pyréneé (Francia). Evoluzione alla quale la Comunità europea ha dato un primo, anche se debolissimo, riconoscimento, inserendo nel Trattato di Maastricht (articolo 198), una nuova figura istituzionale (consultiva) di rappresentanza di queste entita' regionali. Al di fuori della Comunità europea, e' da notare la cooperazione interregionale Alpe Adria tra la regione Friuli-Venezia Giulia, la Slovenia e la regione austriaca confinante.

Oltre all'handicap rappresentato dal ruolo ancora del tutto insoddisfacente dato alle regioni nella costruzione e nell'architettura europea, la questione delle regioni transfrontiere si scontra anche con l'esistenza, in alcuni paesi, in particolare negli stati a tradizione giacobina (la Francia in primo luogo), di una architettura regionale (o più esattamente in questi casi "decentralizzatrice") costruita non su comuni sentimenti di appartenenza ma su criteri "tecnocratici", che, a malapena, nascondono, dietro presunte ragioni geografiche e economiche, una volontà dello stato centrale di ostacolare il riemergere di vere autonomie. In Francia, per esempio, con l'eccezione obbligatoria della Corsica, nessuna delle regioni (Paese Basco, Bretagna, Catalogna) nelle quali erano riemerse in questi ultimi decenni rivendicazioni di autogoverno e' stata inserita nell'architettura cosiddetta "regionale" dello Stato francese.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.5. Comunità transfrontiere

Ad attraversare le frontiere non sono solo le regioni "etnico-nazionali" ma anche le comunita' etniche nell'accezione data precedentemente. Anche se la distinzione potrà essere un po' arbitraria, vanno affrontate in modo distinto le comunità prevalentemente linguistiche da quelle piu' marcatamente "etniche".

1.5.1. Comunità linguistiche

Numerosi sono i casi di questo tipo in Europa. La "comunità francofona" per esempio, che comprende oltre alla Francia, la Wallonia (Belgio), i cantoni francofoni della Svizzera ed i cittadini "francofoni" della città di Bruxelles e del Val d'Aosta. Ma anche la "Comunità germanofona" che oltre alla Germania ed all'Austria, comprende anche i cantoni germanofoni della Svizzera, la "comunità germanofona del Belgio", i cittadini "germanofoni" di Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Russia, ... O, ancora, la "Comunità italofona" con, oltre all'Italia, i cantoni "italofoni" della Svizzera, le comunità italofone di Slovenia e Croazia.

In questo ambito esistono alcuni esempi di "cooperazione", piu' o meno organizzate e "sovranazionale". La "francofonia" è certamente una delle istituzioni di questo tipo più attiva. Comprende una quarantina di paesi, è dotata di una struttura permanente, si riunisce ad altissimo livello (capi di Stato e di governo) una volta all'anno ma non e' dotata di una istituzione rappresentativa democratica. Oltre al ruolo preponderante tenuto dalla Francia, questa organizzazione fondata sulla difesa di una lingua e di una cultura ha anche forti connotati di resistenza ad una altra lingua (l'inglese) e riveste quindi anche una funzione di affermazione internazionale per un paese, oltre a costituire un luogo per mantenere "rapporti privilegiati" con altri stati, per lo piu' ex-colonie. Su un modello simile a quello della francofonia esiste anche la Comunita' Ibero-americana. Ma piu' spesso la politica di queste comunità linguistiche transnazionali si riassume nella politica culturale delle "patrie-culturali" (come, per esempio, le comunità "tedescofona" o "italofona").

1.5.2. Comunita' "etnico-nazionali"

Accanto a queste "comunità" di carattere prevalentemente linguistico-culturale ci sono delle comunità con comunanze "nazionali" o "etniche" più marcate. Così per esempio della "Comunità serba" che oltre ai serbi di Serbia, comprende i serbi di Croazia, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Ungheria, Romania, ... Della "Comunità romena" che oltre ai rumeni di Romania e di Moldavia comprende anche i rumeni di Ucraina, Voivodina ed Ungheria. Della "Comunità russa" che oltre ai russi di Russia comprende i russi di Lituania, Lettonia, Estonia, Ucraina, Kazakhstan, ... Della "Comunità ungherese" che oltre agli ungheresi d'Ungheria comprende gli ungheresi di Slovacchia, Ucraina, Voivodina, Croazia, Romania, Slovenia ed Austria.

E' ovviamente difficile, se non impossibile, tracciare una frontiera tra quelle comunita' che sarebbero prevalentemente "linguistico-culturali" e quelle che avrebbero invece caratteristiche piu' "etnico-nazionali". In un certo senso, dovrebbero essere le comunita' stesse, tramite le loro istituzioni rappresentative, a "deciderlo", ovvero a scegliere il tipo di rapporti, di collaborazione da stabilire tra di loro.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.6. Minoranze transnazionali

Questa "categoria" comprende quelle minoranze che vivono fra più stati ma non hanno né stato né territorio di riferimento in qualche modo "istituzionalmente riconosciuto". Si tratta di "popoli" insieme fortemente inseriti nel tessuto sociale dei paesi nei quali si trovano (ne parlano la lingua, contribuiscono spesso in modo cospicuo alla sua "caratterizzazione" culturale, ...) ed insieme hanno una vita fortemente "parallela", distinta della popolazione nazionale del paese in questione. I casi più emblematici di questa "categoria" sono rappresentati dagli zingari e dagli ebrei (ci sono ovviamente, al di fuori d'Europa, altri casi di questo tipo. I Tuareg per esempio). Senza entrare nel merito dell'analisi rispetto agli ebrei, pensiamo che sarebbe interessante capire come l'avere ottenuto uno stato nazionale ha influito sulla loro percezione di costituire un popolo transnazionale e come l'esistenza di questo stato ha influito e influisce sul loro rapporto con le culture degli stati-nazione in cui vivono oggi.

Questi popoli transnazionali trovano la loro coesione intorno a fattori linguistici. Fattori non univoci ma spesso riconducibili alla presenza territoriale. Questo è vero sia per gli zingari di oggi sia per gli ebrei di ieri, che non possono comprendersi tramite la loro lingua. Non per questo pero', gli zingari ritengono di non costituire un solo popolo. Sia per l'uno, sia per l'altro esempio, il sentimento di appartenenza "nazionale" si fonda su elementi culturali e sociali comuni, ma anche, per i due esempi dati, intorno ad un fattore di "comunanza etnica" (non e' rilevante, ci sembra, che la "continuita' etnica" esista "geneticamente" o meno).

Allargando i termini dell'analisi ci si puo' chiedere se altre comunita' umane, benche' non unite dal fattore etnico, non siano da considerare come "popoli transnazionali". Così, per esempio, delle comunità cristiane dei primi secoli dopo Cristo, non certo "etnicamente omogenee", che vivevano, anche loro, una doppia integrazione: all'interno del paese di residenza o di "cittadinanza" e all'interno della loro comunita' (transnazionale) religiosa. Un simile ragionamento potrebbe essere sviluppato, oggi, nei confronti di comunità religiose come quella dei "Testimoni di Geova" o di numerose chiese protestanti. Sempre in questa chiave si potrebbe leggere il caso delle chiese anabattiste del Medioevo e quello di molte delle chiese "comuniste" di questo secolo. In questi casi, però, le opposizioni e le contraddizioni tra i due ambiti di integrazione, hanno portato a privilegiare l'appartenenza "comunitaria", e quindi, a scontrarsi con lo stato di appartenenza, facendosi distruggere (anabattisti) o, invece, sottomettendolo (comunisti).

Ma ritorniamo alla questione "zingara", la più pertinente con questi spunti che vogliamo, al momento, circoscrivere al contesto europeo. Se, come viene affermato dal leader dei Rom di Romania, Gheorghe Nicolae, e' necessario che venga riconosciuta la "legittimità della (loro) differenza" insieme con "l'uguaglianza della (loro) cittadinanza", ci sembra necessario che vengano trovate formule politiche ed istituzionali affinché questa particolare legittimità possa articolarsi con quella dello stato-nazione nel suo insieme e, conseguentemente, perche' una partnership vera possa essere instaurata con la popolazione maggioritaria.

Non si tratta, in questo caso, di immaginare proposte di autonomia territoriale, o addirittura di indipendenza territoriale e/o nazionale. Anche se a questo proposito, si sente a volte parlare di dare, al popolo rom, una terra, uno stato-nazione così come e' stato fatto con Israele per gli ebrei. Recentemente si parlava in modo esplicito di una loro collocazione sul territorio di Konigsberg, attualmente enclave russa tra la Polonia e la Lituania. E questo, non per cosiddette caratteristiche proprie del popolo zingaro, ma perché i rom stessi non lo vogliono: "i Rom, popolo europeo senza stato-nazione, non scelgono altra patria che la democrazia".

Se non sembra pertinente quindi soffermarsi su una ipotesi di "stato-rom", non per questo ci sembra da escludere la creazione di una forma di rappresentanza e di autogoverno comunitario del popolo rom (o, in un primo tempo dei popoli rom). Al contrario, una riflessione in questa direzione ci sembra non solo auspicabile ma anche urgente. Per diverse ragioni. Prima di tutto perché ci sembra impossibile che la lotta per l'"emancipazione" che sta perseguendo il popolo rom possa essere raggiunta grazie a sole organizzazioni non-governative e/o rappresentanza parlamentare "etniche" di tipo sindacale. Crediamo, invece, che una tale emancipazione passa anche attraverso la riforma (non la cancellazione o la distruzione) di strutture istituzionali di rappresentanza e di autogoverno oggi completamente interne al o ai popoli rom, ovvero senza nessuna esistenza legale né per gli stati né per i cittadini (rom e non), e quindi slegate per lo più dai criteri della democrazia.

In questo senso la forma "comunitaria" di rappresentanza e di autogoverno, nel senso visto precedentemente, potrebbe costituire un importante elemento di riconoscimento della loro esistenza e quindi di responsabilizzazione sia dei rom rispetto a loro stessi e rispetto all'intera società, sia della società stessa nei confronti della comunità rom. Potrebbe, inoltre, contribuire al rafforzamento di una classe politica dirigente e alla sua autonomizzazione rispetto ai ceti "ricchi" ed "integrati" del popolo rom. Potrebbe infine, e principalmente, facilitare la conoscenza e quindi il rispetto reciproco, e conseguentemente costituire un rimedio contro le crescenti incomprensioni e tendenze all'intolleranza di cui i rom sono vittime.

Si tratterebbe certo di definire gli ambiti di competenza di questa "comunità". Definizione che non può essere meccanicamente copiata da quella delle comunità etniche nazionali di cui abbiamo parlato prima, visto il particolare rapporto che intercorre tra i popoli rom ed gli stati ed i popoli degli stati in cui vivono. Ci sembra pero' che debbano essere organizzati sia l'autogoverno di alcune materie riconducibili all'educazione, ed in particolare l'insegnamento della lingua e della storia rom, sia l'autogoverno della cultura specificamente rom.

Con questo arriviamo ad un aspetto fondamentale della "questione rom": la sua caratteristica transnazionale. Aspetto questo di approccio particolarmente difficile per diverse ragioni. Prima di tutto per l'assenza di istituzioni europee nelle quali la questione rom possa essere globalmente ricondotta e quindi affrontata. In effetti, le uniche istituzioni "pan-europee" in cui la questione rom puo', oggi, essere affrontata, se non nella sua globalita' quanto meno su scala rilevante, sono il Consiglio d'Europa e la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), istituzioni intergovernative con una capacità di incidenza politica pressoché nulla, con la relativa eccezione del Consiglio d'Europa in materia di diritti umani.

Senza aspettare quindi la nascita di una unione federale degli stati e delle regioni europee (Stati Uniti d'Europa) che, come vedremo successivamente, sembra piu' allontanarsi che avvicinarsi, ci sembra che possano essere perseguiti alcuni obiettivi puntuali, ed in qualche modo intermedi, rispetto a questo obiettivo federale e federalista europeo. All'interno della CE e delle sue istituzioni, nei cui paesi membri vivono minoranze rom piu' o meno numerose, potrebbe essere previsto per la "comunità rom" uno status di minoranza transnazionale. Status che potrebbe, di riflesso, servire da modello per i paesi del Centro e dell'Est Europa, e, addirittura essere integrato negli accordi di associazione che la CE sta man mano stipulando con questi paesi.

Sempre in seno alla CE, ma in collegamento con il Consiglio d'Europa, si potrebbe immaginare una serie di meccanismi tendenti ad incoraggiare i tentativi, finora ancora marginali, ad opera di alcuni studiosi rom, di codificazione-unificazione della lingua rom. Infine, e sempre nella CE, andrebbe sviluppata una riflessione sul come associare le comunità non territoriali e transnazionali (e quindi quella rom) al Consiglio Consultivo delle regioni, previsto dal trattato di Maastricht (articolo 198).
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.7. Coesione dello stato e federalismo democratico-interno

1.7.1. La questione della "lealtà" o delle lealtà

Nel caso delle "minoranze" o "comunità" etniche minoritarie si pone un problema di "lealtà". Da una parte queste minoranze (a meno che non abbiano correspettivi "etnici" in nessuna parte del mondo) si sentono legate a quanti, al di fuori dello loro stato di cittadinanza, condividono la loro cultura e/o appartengono alla loro "etnia". D'altra parte, i membri di queste comunita' etniche sono cittadini di uno stato, e, in quanto tali, hanno nei suoi confronti, dei diritti e doveri, insieme dal quale discende o consegue un atteggiamento spesso definito come lealta' verso lo stato.

In effetti se non viene contestata alle minoranze o alle comunita' etniche minoritarie la legittimita' di intrattenere relazioni con la "patria etnica-culturale", queste relazioni vengano spesso guardate dalla "comunita' maggioritaria" con diffidenza, con il sospetto che le "comunita' minoritarie" nutrano in fin dei conti una "lealta'" maggiore nei confronti della loro "patria culturale e/o etnica" che nei confronti della "patria cittadina". O, peggio, con il sospetto che queste relazioni non siano altro che paraventi per progetti di separazione, di "autodeterminazione" o, in alcuni casi, di riunificazione con la "patria etnico-culturale".

1.7.2. Possibili pluri-appartenze e quindi pluri-lealtà

In questo ambito crediamo che il terreno sul quale vanno trovate le soluzioni e' quello della chiarezza. Il rischio non risiede nel fatto di provare insieme lealta' verso una "patria etnica-culturale" e verso una "patria di cittadinanza", ovvero nella convivenza dentro le persone stesse di possibili pluri-appartenenze di ordine diverso, ma - eventualmente - nella impossibilita' di viverle alla luce del sole, in seno ad istituzioni democratiche, riconosciute, visibili agli occhi di tutti, complementari e non concorrenziali. Inoltre con il riconoscimento dell'autonomia delle "comunita' etniche" viene meno la necessita' per loro di rivolgersi all'"esterno" nel tentativo di ottenere protezioni e garanzie perche' esse possono essere ottenute dallo stato di cittadinanza, dalle sue istituzioni.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.8. Altre - nuove - forme di statualita'

Al di fuori di possibili nuove forme di articolazioni istituzionali e/o statuali risultanti dalle opportunita' aperte dai processi di integrazione sovranazionale - punto che analizzeremo piu' in avanti - ci si puo' interrogare, a partire dalle considerazioni fatte in materia di minoranze e/o comunita' etniche, se altre forme di statualita' o di articolazioni istituzionali "interstatali" siano concepibili.

Sono ipotizzabili, per esempio, per quanto riguarda le regioni transfrontiere, delle istituzioni comuni a zone territoriali riconducibili a due o più stati? O, ancora, nel caso delle "comunita' non territoriali", e' possibile immaginare che quelle riconducibile ad una stessa "etnia" possano affrontare, in sede istituzionale comune, dei loro comuni problemi ? Concretamente, sarebbero immaginabili nel caso "ex-yugoslavo" - a patto ovviamente che non vinca la politica razzista e fascista detta di "pulizia etnica" - delle istituzioni comunitarie "serba", "croata", "albanese", etc., che possano comprendere rappresentanti sia dello stato nazionale (serbo, croato, albanese, etc.) sia di "comunita' non territoriali" (serbe, croate della Bosnia Erzegovina per esempio) sia delle minoranze (serbe, croate, etc.) presenti in altri stati ? Interrogativo questo che potrebbe naturalmente essere esteso a numerose altre "etnie" europee o non.

Oltre alle difficolta' come quelle che abbiamo incontrato quando abbiamo affrontato il problema delle "lealta'", sorge il dubbio - alla luce anche di quanto sta succedendo nell'ex-Yugoslavia - che al di fuori di un piu' vasto e comprensivo processo di integrazione sovranazionale, tali istituzioni possano essere concepite, poi accettate ed, infine, garantite nel quadro di accordi bilaterali o multilaterali.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.9. Garanzie sovranazionali

Nei casi accennati sopra, delle minoranze "transfrontiere" e di quelle "non territoriali", l'esistenza ed il funzionamento di istituzioni federali sovranazionali appare fondamentale per una risoluzione pacifica e democratica della questione della convivenza etnica. Ma non solo. Anche nel caso delle comunita' etniche nazionali o delle co-nazioni appare fondamentale, l'esistenza di una struttura politico-giuridico-istituzionale in grado di poter garantire il pieno rispetto dei diritti e di "arbitrare" in caso di conflitto.

Due ci sembrano le vie che possono essere perseguite. La prima, gia' sperimentata dall'Austria e dall'Italia nel caso del Sud-Tirolo - Alto Adige, e' di tipo bilaterale. In questo caso lo stato "ospitante" della comunita' etnica minoritaria e quello che abbiamo definito "patria etnico-culturale" sottoscrivono un accordo bilaterale nel quale vengono definiti una serie di diritti e doveri per le varie parti in causa: lo stato ospitante, lo stato "patria etnico culturale" e la comunita' etnica-nazionale. Spesso pero', in questi casi, andrebbe inclusa una quarta parte all'accordo, ovvero la comunita' dell'etnia maggioritaria nazionale, invece minoranza nella regione considerata dall'accordo. Bisogna in effetti tenere presente che con l'attribuzione di uno status speciale a regioni dove vivono delle "minoranze etniche" sorge la possibilita' - come lo dimostra appunto il caso dell'Alto Adige - di vedere una minoranza trasformarsi, in quella regione, in una maggioranza che, a sua volta, opprime una minoranza appartenente all'etnia nazionalmente maggioritaria.

L'altra via e' tutta da scoprire, da inventare. E' la via delle garanzie sovranazionali. Anche se puo' essere ricondotta ad alcune esperienze storiche, tra cui quella della Societa' delle Nazioni prima della seconda guerra mondiale, della quale una delle funzioni principali era quella di garantire i diritti di minoranze, in particolare di quelle minoranze formatesi in seguito al Trattato di Versailles. Con i risultati che sappiamo. Oggi, la Comunita' europea da una parte, il Consiglio d'Europa, la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e l'ONU dall'altra, tentano di svolgere un ruolo di arbitraggio e di garanzia quanto al rispetto del diritto e della democrazia in alcuni conflitti in corso in Europa. In particolare nei confronti della ex-Yugoslavia e dell'Alto Karabach. Con i risultati che sappiamo, anche in questi casi.

1.9.1. I tentativi della Comunita' europea

Non ci soffermeremo sulla capacita' di incidenza della Comunita' europea, in quanto organizzazione sovranazionale, nella ex-Yugoslavia. Questa capacita' e' stata enorme per difetto. Ovvero la ripetuta mancanza di intervento chiaro e tempestivo da parte della C.E. ha contribuito in modo decisivo alla vittoria sul campo, militare e quindi politica, del progetto razzista e fascista perseguito con costanza dal regime di Belgrado. Tenteremo dopo, nella parte in cui analizzeremo "i limiti della Comunita' europea", di individuare le cause di questa situazione. Ci limitiamo ora a sottolineare l'assoluta prevalenza delle cancellerie nazionali sulle istituzioni comunitarie nella definizione dell'atteggiamento della CE rispetto all'ex-Yugoslavia. In altri termini non c'e' mai stata una politica comunitaria rispetto all'ex-Yugoslavia ma un susseguirsi di posizioni che di volta in volta tentavano di mediare tra posizioni contrapposte, producendo compromessi completamente inattuabili. A questo bisogna aggiungere che ad alcuni membri della CE (la Francia e la Gran Bretagna) questo nulla di fatto era piu' che conveniente, e poteva costituire quindi una reale scelta politica. Per due ragioni: perche' da una parte constituiva di fatto un "nulla osta" alla politica serba e dall'altra perche' era riconducibile non ad una decisione di questi paesi ma ad una decisione della C.E. stessa.

Infine e sempre rispetto all'ex-Yugoslavia sorge anche un altro interrogativo. Ovvero puo' una istituzione sovranazionale, la C.E., presentarsi come arbitro e garante in una determinata situazione quando e', tramite un suo stato membro, la Grecia, direttamente parte al conflitto, come nel caso del riconoscimento della Macedonia ?

Se, alla lettura del caso macedone, appare chiaramente che la C.E. non poteva svolgere un ruolo di arbitraggio, piu' generalmente ci possiamo chiedere se una istituzione sovranazionale puo' realmente offrire, al di fuori dei tradizionali patti - militari - di mutua assistenza, delle garanzie quanto al rispetto del diritto e dei diritti in territori terzi.

1.9.2. I tentativi della CSCE, dell'ONU, ...

Per quanto riguarda queste organizzazioni non si pone ovviamente il problema dell'estraneita' dello stato in causa rispetto all'istituzione sovranazionale in quanto tutti i paesi europei nel caso della CSCE, tutti (o quasi) i paesi del mondo nel caso dell'ONU, ne sono membri.

Non per questo, pero', queste istituzioni sono in grado di svolgere ruoli di arbitraggio o di garanzia meglio di quanto lo possa fare la C.E. In effetti, piu' ancora della C.E., queste istituzioni sono del tutto prive di caratteristiche federali e, in poche parole, funzionano secondo i vecchi principi della diplomazia. La CSCE, che fino a poco tempo fa prendeva le sue decisioni all'unanimita', confrontata con la guerra nell'ex-Yugoslavia, le prende ora all'unanimita' meno uno ! Per di piu' non e' dotata di un proprio esecutivo. L'ONU e' in mano ad un direttorio: i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Anche il Consiglio d'Europa e' organizzato sullo stesso schema, ad eccezione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, le cui sentenze hanno forza di diritto nei paesi membri, tramite modificazioni degli ordinamenti nazionali.

Per di piu' queste istituzioni non hanno caratteristiche democratiche, in quanto (con la parziale eccezione dell'Assemblea parlamentare per il Consiglio d'Europa) sono strutture del tutto intergovernative.

Essendo la questione delle minoranze spesso molto sensibile per gli stati (centrali), appare quanto meno difficile che essa possa essere validamente affrontata in seno a delle istituzioni sovranazionali nelle quali ne' le opposizioni, ne' le minoranze sono rappresentate. Ci domandiamo allora se sia immaginabile ed in quali termini una riforma in senso democratico di tali istituzioni. In altre parole sono concepibili parlamenti dell'ONU, della CSCE ? Parlamenti altri che puri e semplici organi consultivi ? Ovvero parlamenti in grado di prendere decisioni, poi applicate da organi con poteri esecutivi ? Parlamenti in grado, per esempio, di decidere di mandare un esercito in zone dove vengano calpestati diritti di "comunita' etniche" ? Parlamenti con commissioni permanenti di vigilanza e di arbitraggio sulla questione delle "minoranze" o "comunita' etniche" ?
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2. La crisi dell'Europa

A quattro anni dalla caduta del Muro di Berlino molte delle nostre speranze si sono trasformate in incubi. Da Vukovar ad Osijek, da Bosanski Novi a Sarejevo, dal Sangiaccato al Kossovo, dal Nagorno Karabak all'Ossetia, dalla Somalia al Togo, dall'Iraq all'Iran, ovunque imperano guerre o repressioni feroci.

Parallelamente, per molti, la speranza e gli ideali federalisti europei, l'obiettivo degli Stati Uniti Democratici d'Europa, si sono frantumati, dissolti nel nulla. Alla convinzione che il federalismo possa essere una soluzione praticabile per l'Europa e per molte altre aree del mondo, è subentrata la disperazione o, quanto meno, la delusione, la rassegnazione.

Non siamo di questo parere. Anzi, siamo di un parere esattamente contrario. Siamo più che mai convinti che il federalismo costituisca una chiave fondamentale per un futuro di pace e di prosperità, a cominciare dal continente europeo, e non solo per quello.

Con ciò non vogliamo dire che si possa far finta di niente, far come se non fosse successo niente, come se lo spazio dell'impegno federalista non fosse stato moltiplicato per tre, con la caduta del comunismo in Europa centrale ed orientale, come se la via economicistica e burocratica alla costruzione europea di questi ultimi anni non avesse avuto conseguenze terribili sia sull'edificio comunitario, sia sulle opinioni pubbliche europee.

Tutt'altro. Gli effetti di questa contaminazione economicistica, burocratica, verticistica, quindi antifederalista e antidemocratica, sono enormi, profondi. Li dobbiamo, li dovremo affrontare. Radicalmente. Rialzando le nostre bandiere, le bandiere del federalismo europeo, della nonviolenza. Alzando il tiro, ammesso che potremo ancora permettercelo.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.01. La crisi della Comunità europea

Che la C.E. stia attraversando una gravissima crisi non è più un mistero per nessuno. Più incerta è invece la consapevolezza della natura di questa crisi. Un certo atteggiamento, fatto di mistificazione e di disinformazione, ad opera dei governi e delle burocrazie nazionali da una parte, e dalla stragrande maggioranza dei mass-media dall'altra, rende oggi molto difficile, se non impossibile, all'opinione pubblica della C.E. e degli altri paesi europei capire la natura e l'ampiezza di questa crisi.

Per di più un succedersi di avvenimenti, dall'unificazione tedesca alla crisi monetaria che ha coinvolto Inghilterra, Spagna e Italia, dal "no" al referendum danese al piccolo "si" al referendum francese per il Trattato di Maastricht, dalla recessione mondiale alla "riforma" dell'agricoltura europea e alla dimissione al GATT, dagli enormi, dolorosi, e spesso sottovalutati, processi di mutazione dei paesi ex-comunisti alla tremenda guerra di aggressione del regime serbo nell'ex-Yugoslavia e la non meno tremenda dimissione dell'Europa, dal rinascere, ovunque nel mondo, delle questioni nazionali al moltiplicarsi, in Occidente, degli atteggiamenti di intolleranza nei confronti dello straniero, del diverso, hanno reso ulteriormente difficile la comprensione della crisi che stava - logicamente però - avvenendo nel processo di costruzione dell'Europa.

Una crisi che non è, quindi, congiunturale, ma che è iscritta nel modello stesso alla base dell'insieme del processo di costruzione "comunitaria", ovvero quello fondato sul postulato del primato dell'economia sulla politica, sul dogma che voleva - e vuole tuttora - che la convergenza delle economie dei paesi occidentali avrebbe portato, quasi naturalmente all'unificazione politica del continente.

Quarant'anni di lavoro in questa direzione non sono stati privi di successi rispetto ad uno degli obiettivi iniziali, quello della convergenza delle varie economie. Oggi, però, vengono alla luce, "grazie" anche ai formidabili fattori esterni di cui abbiamo parlato, i limiti di una tale costruzione. La sua incapacità - appunto - di affrontare con serietà e tempestività le nuove problematiche - o addirittura catastrofi, perfino sullo stesso continente europeo.

Dalla guerra del Golfo a quella nell'ex-Yugoslavia, dalla Somalia al Caucaso, l'Europa si trova, nel migliore dei casi, al rimorchio degli Stati Uniti d'America.

Parallelamente, la prassi - ormai consolidata - da parte delle classi dirigenti dei vari Paesi della Comunità europea di nascondersi dietro direttive o pseudo direttive di Bruxelles per far passare misure di razionalizzazione o di ristrutturazione all'interno del proprio paese, ha progressivamente indotto i cittadini, in particolare quelli di categorie più a rischio come gli agricoltori o i lavoratori dei settori "vecchi" dell'industria a vedere nella Commissione europea il responsabile "de tous les maux".

Da parte loro, le istanze esecutive di Bruxelles, non affatto insensibili al canto delle sirene "tecnocratiche" e "burocratiche" hanno capito con molto - troppo - ritardo i richiami provenienti dal Parlamento europeo e, soprattutto da alcuni gruppi federalisti, non ultimo il Partito radicale, per un drastico cambiamento di strategia, per l'attuazione, quindi, di una riforma che dia alla costruzione comunitaria solide basi democratiche, incluso una architettura chiara, intellegibile a tutti i cittadini europei.

In particolare si proponeva di cominciare a riportare l'edificio comunitario alle regole della democrazia e del federalismo classico, ovvero alla divisione dei poteri, alla trasparenza ed al controllo di questi, nonch‚ al ruolo imprescindibile del cittadino.

Il ritardo della Commissione, la pressione del tutto insufficiente del Parlamento europeo, la mancanza o l'inadeguatezza di partiti e movimenti federalisti europei hanno quindi lasciato spazio libero ai Governi nazionali, ovvero al Consiglio europeo ed alle sue consuete pratiche fondate sui "do ut des" nazionali, lontani se non estranei - per natura oltrech‚ per scelta ed interesse di potere - alla questione della democratizzazione della costruzione europea, a quella del suo deficit democratico.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.02. Riforma o Rifondazione

Se, come crediamo, questa è la situazione attuale della costruzione europea, non è più rimandabile la scelta di fondo quanto al tipo di Europa che si vuole. Due ci sembrano, anche se qui schematicamente riassunte, le strategie possibili per rilanciare la battaglia per una Europa unita.

La prima, di segno "europeista", punta alla massimalizzazione degli accordi di Maastricht. Ovvero intende lavorare nel quadro esistente, puntando su alcuni appuntamenti istituzionali importanti, ed in particolare su quello delle prossime elezioni europee (giugno 1994) e su quello della prossima Conferenza intergovernativa prevista per il 1996 (dicembre) per migliorare la trasparenza e la democraticità delle istituzioni europee, e più in generale, del suo funzionamento.

La seconda, di segno "federalista europeo", punta (o dovrebbe puntare) ad un chiarimento quasi risolutivo quanto alla natura della costruzione europea. Ovvero tra una cooperazione di segno sostanzialmente intergovernativa, anche se approfondita e istituzionalizzata, ed una vera e propria federazione democratica di Stati europei, sceglie risolutamente la seconda alternativa.

A partire da questa scelta si tratta quindi di rovesciare la logica che è stata alla base, e poi le fondamenta, del processo di integrazione europea per quasi quarant'anni, cioè che l'unione si sarebbe avverata al termine di un processo di progressiva integrazione economica.

Come abbiamo già accennato, le attuali crisi economiche e finanziarie - e non solo esse - dimostrano quanto sia fragile una tale visione. Essa rischia infatti oggi di vedere un lungo e paziente processo, portato avanti in tempi di relativa prosperità, essere definitivamente travolto dalle diverse crisi in atto.

La nuova logica sarebbe quindi incentrata sulla dimensione politica dello "stare insieme", della federazione. Non si tratta affatto di negare che le divergenze tra i vari stati dovrebbero essere affrontate e superate ma, al contrario di quanto previsto dall'attuale logica economicistica nella quale il superamento delle divergenze economiche e finanziarie è condizione di partecipazione ai meccanismi comuni, nella logica politica è l'unione che definisce i criteri ed i tempi di convergenza, investendo anche mezzi e risorse affinché‚ tale paese o regione che non adempie a certi criteri fissati dalle istituzioni della Federazione sia in grado di farlo.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.03. Approfondimento o Allargamento

Se questo diventa il criterio, è ovvio che cambia radicalmente l'approccio alla questione dell'allargamento e che, in buona parte, viene anche meno il dibattito sulla questione "approfondimento o allargamento".

L'approccio federalista consentirebbe probabilmente una adesione immediata di molti paesi del Centro ed Est europeo e, anche se con qualche riserva in materia di rispetto dei diritti umani di paesi come la Turchia o Israele; impedirebbe invece a paesi come la Gran Bretagna, la Danimarca, e, probabilmente, anche la Grecia, di imporre unilateralmente la loro visione "cooperativistica", intergovernativa dell'Europa.

E' ovvio che per questi primi paesi - del centro Europa - numerose, ed a volte assai lunghe, sarebbero le procedure di transizione in campo economico e finanziario. Questo anche al fine di evitare quanto più possibile gli effetti, spesso devastanti, di un approccio "tedesco" all'unificazione. Ma del tutto diverso sarebbe la capacità di questi paesi di partecipare, a pieno titolo e sin dall'inizio, alle politiche non strettamente di dominio economico, giust'appunto quelle la cui mancanza è oggi così crudelmente sentita dai cittadini europei.

Quanto a quei paesi oggi membri della Comunità europea, ma che non ne condividono le finalità federali, la soluzione sta - forse - nel garantirgli di poter continuare ad usufruire di una istanza di tipo "cooperativistico" o "intergovernativo", quale si configura oggi il grande mercato, chiamato dopo Maastricht, Unione Europea.

Una tale scelta di fondo costringerebbe in fine alcuni paesi - la Francia in primo luogo - ad uscire dall'ambiguità, facendo una scelta di campo chiara a favore dell'una o dell'altra ipotesi.

La questione dell'allargamento ai paesi dell'EFTA, a meno che non si parli dell'allargamento dell'Europa di Maastricht, non assume valenza politica di particolare rilevanza nell'ipotesi che ci interessa, ovvero quella della creazione di un nucleo di stati che danno vita a veri e propri Stati Uniti d'Europa.

Nella prospettiva europeista, però, l'allargamento ai paesi dell'EFTA, per via delle regole esistenti in materia di nuove adesioni ed in particolare per via delle competenze di co-decisione del Parlamento europeo in materia, potrebbe costituire una occasione, particolarmente in relazione al forte interesse britannico a favore dell'allargamento, per introdurre, in cambio dello stesso, alcune riforme di segno democratico delle istituzioni dell'Unione Europea o - anche se questa può apparire fantapolitica - in cambio dell'attribuzione di poteri costituenti al P.E.

Rimane però la questione, al di là delle valutazioni che si possono fare sulle reali capacità del Parlamento europeo, di far valere il suo limitato, ma in questo caso, reale potere, di capire se esistono ancora all'interno delle strutture dell'Unione Europea gli spazi per ottenere in tempi politici le riforme indispensabili affinché‚ l'Europa possa affrontare in modo non velleitario le tragedie in corso e quelle prevedibili che affliggono il continente europeo e il mondo, nonché‚ raccogliere le sfide ambientali, economiche e sociali all'ordine del giorno.

L'utilità in termini di "real-politik" delle istituzioni della C.E. oggi (dell'Unione Europea domani) è tale e così interiorizzata dalle varie classi politiche europee che ci sembra difficile che esse possano rinunciarci senza che vi sia una fortissima spinta esterna: dall'opinione pubblica e dalle istanze della società civile. Dalla politica agricola alla guerra nell'ex-Yugoslavia infatti, dal problema della disoccupazione alla politica nei confronti del Terzo Mondo, l'Europa di Bruxelles è diventata l'alibi per gli stati membri della C.E. dietro il quale nascondere l'evidente assenza di volontà politica.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.04. Il Partito della Costituente europea

Se, come crediamo, rimane pochissimo spazio per "giocare" all'interno delle istituzioni europee esistenti, nell'intento di ottenere una loro sostanziale riforma in senso democratico e federale, dobbiamo valutare se esistano le condizioni per concepire e, poi, portare avanti dall'esterno delle istituzioni della C.E. una battaglia federalista ex-novo per la creazione da parte di alcuni stati europei dei veri e propri Stati Uniti d'Europa.

Prima di tutto una ipotesi del genere dovrebbe fare i conti con le notevoli ripercussioni dei referendum danese e francese sull'opinione pubblica dell'Europa dell'Ovest, anche quella dei paesi tradizionalmente considerati come più "federalisti europei", ripercussioni per lo più negative che si sono congiunte con le paure di un rovesciamento sull'ovest delle nuove miserie nate a Est dopo la caduta della cortina di ferro, travolgendo il "consensus mou" sulla questione Europa preesistente.

Paure e inquietudini che sono state spesso catalizzate dai nuovi movimenti nazionalistici, grazie anche - e forse soprattutto - all'assenza di risposte credibili e convincenti da parte delle istituzioni europee e delle varie classi dirigenti. Paure e inquietudini che insieme alla percezione del deficit democratico delle istituzioni europee hanno contribuito al rigetto, esplicito o meno, da parte di una parte consistente dell'opinione pubblica del Trattato di Maastricht.

Non bisogna sottovalutare l'aspetto estemporaneo, congiunturale, di questi atteggiamenti e, quindi, la possibilità di un loro eventuale superamento in tempi relativamente brevi, una volta che le riforme contenute nel Trattato di Maastricht - molto modeste come sappiamo - saranno state vissute ed "integrate" direttamente dalla gente. Rimane però il dubbio che la crisi venuta alla luce con i referendum e, soprattutto, con l'emergere ad un livello non più marginale di fenomeni razzisti e di intolleranza, non sia paragonabile ad altre crisi precedentemente vissute; essa invece esprime, insieme ad un malessere sociale e politico più profondo, un'incapacità ormai palese da parte delle classi dirigenti di mobilitare, di federare, di dare speranza oppure solamente di illudere l'opinione pubblica con un progetto "europeo" così riduttivo, il cui carattere non-democratico prima ancora che burocratico e tecnocratico, è ormai evidente a tutti.

Ma più ancora che quella del "contesto politico generale", forse l'unica vera questione che si pone rispetto ad un tale impegno è quella di sapere se saremo in grado, come Partito Radicale, di portarlo avanti, e quindi, ancora prima, se saremo in grado di trovare le risorse umane e finanziarie per sviluppare il partito transnazionale e transpartitico, rafforzandolo nei paesi dell'Europa Centrale ed Orientale, e - soprattutto - gettandone le basi in quegli stati dell'Europa Occidentale dove esistono i presupposti di una volontà popolare a favore della creazione di una vera e propria federazione europea.

Forse però, anche se una tale ipotesi avrebbe o avrà bisogno di molti passaggi intermedi, è proprio a partire da un patto di adesione al PR incentrato su un tale rilancio della costruzione europea, senza per questo accantonare battaglie come quelle per l'esperanto, l'abolizione della pena di morte, l'antiproibizionismo sulle droghe ma, al contrario, integrandole in un certo modo in questo progetto, che potrebbe risiedere una delle chiavi per un rilancio della presenza radicale nell'Europa Occidentale, oltreché, ovviamente, per un suo rafforzamento nei paesi dell'Europa centrale ed orientale.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.05. L'Anti-Maastricht

In tale senso, andrebbe valutata l'ipotesi della redazione e della diffusione su larga scala, cominciando con tutti i membri dei Parlamenti d'Europa, di una vera e propria COSTITUZIONE dei futuri Stati Uniti d'Europa: un vero e proprio Anti-Maastricht, manuale per una Nuova Europa (un "mille lire"). Un testo chiaro, limpido, accessibile a tutti i cittadini europei, da contrapporre nello stile, come nel contenuto, al libretto sul Trattato di Maastricht diffuso massicciamente in occasione dei referendum danese e francese. Un testo-Manifesto che possa servire da traccia per l'impegno federalista del Partito Radicale nei prossimi 5 anni ma anche come punto di aggancio, come "base contrattuale" per l'adesione al PR da parte dei parlamentari e dei cittadini d'Europa, dell'Ovest in particolare.

Questo progetto di costituzione dovrebbe definire:

- i diritti e doveri fondamentali dei cittadini degli Stati Uniti d'Europa (a cominciare dal diritto alla vita, dal diritto alla lingua, ...);

- l'architettura istituzionale (e quindi anche il sistema elettorale unificato e l'istituto europeo referendario);

- le competenze o i terreni di azione (e quindi il principio di sussidarietà) degli Stati Uniti d'Europa, insieme a quelli di competenza degli Stati e delle regioni. Queste competenze dovrebbero comprendere comunque:
- la politica estera (con il diritto-dovere di ingerenza);
- la politica di sicurezza e di difesa;
- la politica macro-economica;
- una politica fiscale;
- la politica macro-ambientale;
- la politica energetica;
- la politica monetaria (a breve termine per alcuni stati, a medio termine - per le ragioni di cui sopra - per altri stati);

- le condizioni di adesione all'unione federale e di ritiro dalla stessa;

L'aspetto istituzionale, anche se spesso di interesse relativo da parte dell'opinione pubblica, è, e rimane, fondamentale se vogliamo evitare di ricadere negli errori dell'esperienza comunitaria.

In particolare una separazione netta tra legislativo ed esecutivo ci sembra fondamentale, così come lo è una partecipazione degli Stati membri al momento legislativo attraverso la delegazione di una loro rappresentanza diretta, elettiva (delegazione che potrebbe coincidere con le commissioni "Affari europei" dei vari parlamenti nazionali), insieme ad una rappresentanza (paritetica?) delle loro regioni e/o comunità linguistiche in un Senato europeo. Uno schema che si distanzia molto, logicamente, da quello dell'attuale Comunità Europea dove il Consiglio Europeo che riunisce Capi di Stato e di Governo, non solo mescola le funzioni legislativa ed esecutiva, ma accentra, se non addirittura monopolizza, ogni tipo di potere, a dispetto del principio della divisione, fondamentale in democrazia.

Prefigurando questi Stati Uniti Democratici d'Europa, si può ritenere che lo schema di repubblica parlamentare sia quello più consono all'esigenza di rispettare le diversità ed a garantire l'equilibrio tra i vari poteri, e tra i loro vari livelli (federale, nazionale e regionale).

In questo quadro federale, per ben marcare la profonda esigenza di divisione dei poteri e dei livelli di potere, andrebbe finanche tolta ai capi di Stato e di governo la presidenza della federazione. Invece, con funzioni del tipo di quelle vigenti nelle repubbliche parlamentari, un presidente potrebbe venire eletto dalle due camere europee (Parlamento e Senato).

Infine, questa impostazione, di segno chiaramente federalista non dovrebbe - assolutamente - essere contrapposta a quella che abbiamo chiamato europeista ma bensì essere "complementare" ad essa. Gli Stati Uniti o la federazione dovrebbero svilupparsi PARALLELAMENTE all'UNIONE EUROPEA (oggi ancora CE) risultante del Trattato di Maastricht.

Ad essi aderirebbero quegli Stati e solo quelli, che decidono di aderire IN TOTO alla Costituzione suddetta.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.06. Il Partito degli Stati Uniti d'Europa

Come abbiamo cercato di chiarire, l'Europa di cui stiamo parlando viene definita dai contenuti e non dalla geografia. E quindi, logicamente, prendiamo le distanze, dopo averlo fatto con la Comunità Europea, con le varie ipotesi di "Unione Paneuropea". Non nel senso che intendiamo escludere "per realismo" da questo processo di federazione europea alcuni paesi piuttosto che alcuni altri, ma perché, in questa nuova logica che vorremmo proporre, l'aspetto essenziale sta nella natura del contratto che verrebbe stipulato tra i vari stati aderenti. Un discorso quindi di qualità e non di quantità che potrebbe coinvolgere, nella sua fase iniziale, solo pochi paesi (dell'Ovest e/o dell'Est), per poi coinvolgerne altri, ma su delle basi sicure, definite: federali e democratiche.

Se questa logica dovesse essere nostra, rimane da capire come renderla operativa, o, in altri termini, come sviluppare lo strumento "Partito Radicale" perché‚ possa diventare a tutti gli effetti battaglia politica.

In questo senso, e senza dimenticare i pesanti limiti per ogni riflessione operativa costituiti dalle ipoteche finanziarie che gravano sul Partito Radicale, ci sembra indispensabile valutare la possibilità di riaprire alcuni fronti radicali nell'Europa Occidentale.

Prima di tutto andrebbe riattivato il potenziale rappresentato dalle strutture di cui disponiamo (fino alle elezioni del 1994) al Parlamento europeo di Bruxelles. Contemporaneamente, restando nell'ottica che è stata quella perseguita in questi ultimi anni nell'Europa centrale ed orientale e che ci ha visto "privilegiare" il lato parlamentare nel nostro impegno per lo sviluppo del PR, andrebbe valutata l'ipotesi di costituire presso alcuni paesi dell'Europa "comunitaria" delle strutture operative minime del PR, in grado di diventare basi di appoggio e di "relais" per lo sviluppo di una presenza radicale nei vari parlamenti.

Oltre al criterio "finanziario", dal quale non possiamo prescindere, va preso anche in considerazione, ovviamente, il "contesto politico", ovvero la possibilità di riscontrare interesse per una tale proposta nella classe politica oltreché‚ nell'opinione pubblica. Se questa é l'ottica, non potremmo prescindere dalla Germania, il paese che, anche se non con la convinzione necessaria, ha più insistito sulla necessità di una riforma in senso democratico dell'edificio comunitario. Oltre a questo paese, e con le dovute riserve, potrebbero essere presi in considerazione Spagna, Francia e Portogallo insieme ai paesi del BENELUX, dove la nostra presenza può essere ripotenziata a partire dal Parlamento europeo.

Parallelamente, ci sarebbe da ragionare su una rivisitazione dell'idea, del Partito Radicale all'origine, degli Stati Generali d'Europa, un'idea poi ripresa dal P.E. e dai parlamenti nazionali della C.E. e attuata, anche se in modo del tutto insoddisfacente, attraverso la Conferenza dei Parlamenti della C.E. Un'idea, questa, che dipende anch'essa dallo sviluppo delle presenze radicali nei parlamenti, dell'Occidente in particolare. Un corpo "parlamentare" che, se venisse a radicarsi in modo non più marginale ad ovest ed a consolidarsi ed arricchirsi ad est, potrebbe diventare centrale nella definizione e nell'attuazione di una ipotesi di "rifondazione" europea di segno federale e democratico. Questo "nucleo", insieme a costituzionalisti di valore, potrebbe, per esempio, lavorare alla definizione di una prima bozza di "costituzione" degli Stati Uniti d'Europa, a partire dai progetti esistenti, cominciando da quello di Altiero Spinelli.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.07. Oltre le crisi

L'Europa potrà quindi rinascere se sarà capace di affrontare e di gestire alcune crisi maggiori in atto oggi.

Schematicamente queste ci sembrano oggi le crisi da affrontare:

1. la recessione mondiale, e quindi le sue implicazioni economiche e sociali nell'Europa occidentale stessa;
2. la crisi del "post-comunismo" con le sue gigantesche implicazioni interne, in termini economici e sociali ma anche politici, e le sue implicazioni esterne come la pressione sulle frontiere e la comparsa di una concorrenza per alcuni settori economici dell'Europa occidentale;
3. il persistente mancato sviluppo di una buona parte del Terzo Mondo oppure uno sviluppo fondato sul commercio di sostanze proibite in alcuni paesi (droga in primo luogo);
4. lo sviluppo, in particolare in Europa centrale ed orientale, di ideologie nazionaliste o nazionalcomuniste e, in alcuni casi, la loro degenerazione in veri e propri conflitti;
5. il continuo degrado dell'ambiente a livello mondiale;

Si tratterebbe quindi di individuare, a partire da questa analisi generale ed accanto all'impegno sul fronte politico-istituzionale per la nascita degli Stati Uniti d'Europa, alcuni settori di intervento che possano prefigurare una inversione di rotta dell'Europa, ovvero che possano segnare il passaggio da una Europa che subisce ad una Europa che affronta.

Cercheremo di evidenziare alcune proposte politiche tenendo presenti due parametri: da una parte un parametro simbolico, ovvero la capacità della riforma proposta, se dovesse essere acquisita, di provocare altre riforme; d'altra parte un parametro di trasversalità, ovvero la possibilità che la riforma proposta consenta di portare congiuntamente elementi di risposta a diverse delle crisi sopra elencate.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.08. Il partito del Piano Marshall per l'Est-europeo

In un mondo caratterizzato oggi da enormi over-capacities di produzione solo una politica fondata sulla "spesa" potrebbe costituire una via d'uscita. Una politica della spesa che si potrebbe però concretizzare solo marginalmente in una crescita del consumo delle famiglie ed in una crescita degli investimenti delle imprese visti gli alti tassi d'interesse (per i quali è previsto un ulteriore aumento). In un tale quadro economico complessivo rimane quindi un unico spazio di manovra: le spese per infrastruttura, formazione e ricerca.

La liberalizzazione degli interscambi, la deregolamentazione insieme alla rivoluzione post-industriale - caratterizzata dall'introduzione dell'informatica, dei nuovi mezzi di comunicazione che cancellano le distanze ed il tempo - hanno provocato una vera e propria mondializzazione dell'economia. Questo dato di fatto rende indispensabile un approccio concertato e quanto più mondiale possibile al fine di affrontare l'attuale crisi e per attuare qualsiasi politica di rilancio dell'economia.

Se a questo criterio economico aggiungiamo due criteri politici fondamentali, quello di promuovere, non solo a livello europeo, l'emergere di vere e proprie federazioni democratiche di Stati, e quello dell'ambiente, abbiamo il quadro generale entro il quale definire alcuni obiettivi politici pertinenti con la gravità delle crisi.

Un piano Marshall per l'Est-europeo potrebbe essere un'occasione oltreché‚ uno strumento in questo senso, se accompagnato però da alcune riforme concrete all'interno della Comunità europea, anche per quanto riguarda la Politica Agricola Comune.

Come andrebbe gestito un tale piano ?

La sua realizzazione, di natura politica ancora prima che economica, necessiterebbe di una gestione unica, al livello europeo. In assenza di una vera e propria federazione europea, e quindi in assenza di un vero e proprio governo europeo, sarebbe concepibile affidarne la direzione ad una struttura come l'attuale Commissione europea ?

Quale intervento ?

Un intervento mirato alla realizzazione di nuovi sistemi di comunicazione nei settori a basso consumo di energia, più rispettosi dell'ambiente e ad alto valore tecnologico; un piano incentrato sull'ammodernamento dei networks telefonici, sulla creazione di networks telematici, sul rinnovamento ed il completamento delle reti ferroviarie, con l'introduzione di collegamenti ad alta velocità tra le maggiori città dell'Ovest e dell'Est e tra quelle dell'Est (contribuendo quindi ad evitare una riproposizione nei paesi ex-comunisti del tragico "tutto macchina" dello sviluppo occidentale dal dopo guerra ad oggi); tutto ciò fornirebbe anche alle imprese specializzate nelle tecnologie avanzate dell'Europa Occidentale una formidabile occasione di rilancio e di ulteriore sviluppo.

Parallelamente andrebbe operata una apertura dei mercati dell'Europa Occidentale ai prodotti dell'Est. Una misura questa che dovrebbe essere accompagnata da una nuova riforma della PAC, per molti versi opposta a quella appena realizzata. Il criterio vigente di attribuzione di aiuti comunitari per supplire al congelamento di terre, calcolato in funzione del livello di produzione antecedente alla riforma (una misura che privilegia enormemente le zone agricole più ricche e, all'interno di esse, ancora di più i grandi produttori), andrebbe sostituito con un criterio di remunerazione per il ruolo ambientale, ovvero per le attività a favore della difesa dell'ambiente svolte dagli agricoltori. Una tale impostazione consentirebbe inoltre di fermare il processo di desertificazione delle campagne dell'Europa Occidentale e, conseguentemente, di bloccare una ulteriore concentrazione di popolazioni nelle megalopoli.

Una proposta che meglio si concilierebbe con una deregolamentazione dell'agricoltura comunitaria, in primo luogo perché‚ restituirebbe al mercato la sua funzione regolatrice in materia di prezzi. Altri effetti derivanti dal ristabilimento delle regole di mercato sarebbero altrettanto importanti. Così il ristabilimento delle regole di mercato, con il conseguente equilibrio non fittizio dell'equazione domanda-offerta, consentirebbe ai produttori di riorientare le loro produzioni verso alcuni settori oggi distrutti dagli accordi di importazione ma anche verso produzioni di qualità, meno utilizzatrici di energia, di fertilizzanti e di fitofarmaci. Last, but not least, una tale politica toglierebbe agli americani molti dei loro attuali argomenti nell'Uruguay Round, consentendo agli europei di uscire dalla loro attuale psicosi della resa.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.09. Il partito della Transbalcanica

Un tale piano Marshall non sarebbe soltanto una iniziativa "macro-politica", ovvero una iniziativa di stabilizzazione politica risultante dallo sviluppo economico conseguente. In effetti la realizzazione di infrastrutture di comunicazione può acquisire un forte valore politico favorendo, per esempio, la crescita del tasso di interdipendenza tra paesi vicini, e quindi di capacità di dialogo. Può anche impedire l'utilizzazione di posizioni di rendita da parte di alcuni paesi nei confronti di altri. In questo senso la costruzione di un'asse di comunicazione ferroviaria Durazzo-Tirana-Skopje-Sofia (con possibile estensione verso Bucarest, Chisinau, Kiev ed Istanbul), oltre a favorire lo sviluppo di un'intera regione ed i suoi collegamenti con altre zone d'Europa (Sud-Italia in testa), toglierebbe all'asse di comunicazione Nord-Sud (Atene-Tessaloniki-Skopje-Belgrado) il predominio nei collegamenti balcanici e vanificherebbe l'attuale potere di ricatto della Serbia e della Grecia nei confronti della Macedonia.

Oltre a questa "trasversale balcanica", molti sono gli altri collegamenti da sviluppare. A titolo solo indicativo, possiamo menzionare i collegamenti Ovest-Est come quelli tra Berlino, Varsavia e Mosca, tra Parigi, Vienna, Budapest e Kiev, tra Monaco, Praga, Bratislava e Budapest, e quelli Est-Est come quelli tra Kiev, Chisinau e Odessa e tra Bucarest, Budapest e Varsavia.

Questo piano sarebbe di un ordine di grandezza del tutto diverso rispetto ai progetti oggi studiati dalla C.E. Un piano concreto, teso a facilitare la transizione all'economia di mercato dei paesi ex-comunisti, a favorire la progressiva compatibilità di queste economie con quelle occidentali e a rendere possibile, in tempi politici, una loro piena integrazione in una economia europea integrata.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.10. Europa: la piaga della partitocrazia

Da Varsavia a Roma, da Parigi a Bucarest, da Praga a Berlino, da Bruxelles a Budapest, da Bratislava a Madrid, dovunque, o quasi, sul continente europeo, dilaga la piaga degli effetti di una concezione della democrazia fondata sulla rappresentanza. Ad Est, dove questo sistema è stato recentemente reintrodotto, i suoi effetti disastrosi sono ancora "limitati" alla capacità dell'esecutivo di governare efficacemente, alla capacità del Parlamento di legiferare e di controllare effettivamente.

Ad Occidente, dove IL sistema vige da "sempre", ci sono, oltre a queste conseguenze disastrose, specialmente in tempi così difficili e spesso drammatici come quelli che viviamo oggi, quelle ormai evidenti a tutti e dovute al dilagare della corruzione eretta a sistema. Da "Tangentopoli" in Italia, che coinvolge quasi tutti i partiti (DC, PSI, PDS-ex-PCI, PRI, PSDI, PLI, ...), ai molteplici "affari" regolarmente insabbiati che hanno contrassegnato la vita politica del Belgio da vent'anni a questa parte; dagli scandali sul finanziamento dei partiti in Francia alle varie "Affaires" che hanno coinvolto personaggi politici di primissimo piano, non ultima quella sul sangue contaminato; dalle "dimissioni ministeriali" che hanno intaccato i vari governi della Germania al misero tramonto del cosiddetto "modernismo" socialista spagnolo, travolto anche esso dagli usi ed abusi di potere a fini personali o di partito; quasi tutti gli stati del continente europeo sono stati caratterizzati dalla corruzione e, anche se in misura variabile a seconda dei paesi, dalla ingovernabilità e dalla mancanza di reali condizioni di alternanza al governo.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.11. Il Partito della governabilità anglosassone

Per il Partito Radicale la diagnosi non è affatto nuova. Da più di dieci anni, in Italia, in altri paesi occidentali successivamente, da prima del crollo del muro di Berlino nei paesi dell'Europa Centrale ed Orientale, stiamo cercando di contrapporre al mito del proporzionalismo e della cosiddetta rappresentanza, il modello della democrazia anglosassone, del governo che governa, dell'opposizione che controlla e si prepara a governare. In Italia, dopo anni di censura, la proposta radicale è oggi fatta propria da settori consistenti dei principali partiti. All'Est, e malgrado il convincimento dichiarato, prima ancora della caduta del muro, di numerose personalità dell'opposizione a favore della democrazia anglosassone, quasi nessuna delle nuove democrazie ha scelto il sistema elettorale uninominale all'inglese. Col risultato che sappiamo: 18 partiti in Polonia, 11 partiti in Romania, 7 partiti in Ungheria, 9 partiti in Boemia-Moravia, 6 partiti in Slovacchia, 9 in Macedonia, ecc. Altri paesi, come la Bulgaria, che avevano optato per un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, l'hanno addirittura modificato successivamente. Una sola eccezione: l'Albania, dove vige un sistema maggioritario, uninominale secco all'inglese, con una correzione proporzionale per l'attribuzione di un venti per cento dei seggi.

In questi paesi, come da tempo in quelli occidentali, possiamo quindi oggi assistere alle stesse trattazioni a tempo indeterminato per la formazione dei governi, alle stesse crisi degli esecutivi, agli stessi mercanteggiamenti, alle prime compromissioni, alle lotte sfrenate per il controllo dell'amministrazione pubblica, dei mass-media, alcune volte in modo caricaturale, in puro stile "continentale", come in Ungheria.

Di fronte ad una tale situazione, la proposta anglosassone del Partito Radicale si propone e si ripropone con grande forza a tutti i paesi del continente europeo, e non solo europeo. Anche molti paesi dell'Africa, in corso di democratizzazione dopo molti anni di partito unico, si confronteranno o si sono già confrontati con questo aspetto fondamentale della democrazia.

Ma la scelta anglosassone non riguarda soltanto il momento del "buon" e dell'"effettivo" governo. Riguarda anche una questione cruciale del nostro tempo: quella delle nazionalità, delle minoranze e delle maggioranze "nazionali", della loro convivenza. Anche in questo contesto, questa scelta può consentire o, comunque, favorire la contrapposizione su concrete proposte di governo, invece di incitare alle divisioni fondate sull'appartenenza "etnica", "comunitaria", tese alla difesa di interessi particolari. Se tale scelta può apparire sufficiente anche per quanto riguarda la effettiva possibilità che vengano presi in considerazione gli interessi delle minoranze, nel senso che i consensi elettorali della o delle minoranze andrebbero naturalmente al partito che più si impegna a difenderli (come avviene in qualche modo negli Stati Uniti d'America), potrebbe essere opportuno però coniugarlo con il federalismo. Un sistema federale (o regionalizzato) consentirebbe in effetti, oltre ad avvicinare il potere ai cittadini (qualsiasi sia la loro "etnia" di appartenenza), di dare alle minoranze la possibilità concreta di autogovernarsi nei settori nei quali si esprime la loro "diversità", ovvero essenzialmente in quelli dell'educazione, della cultura e della comunicazione.

La questione anglosassone riguarda infine un altro tema di nostro interesse, quello europeo. All'interno del lunghissimo capitolo sul deficit democratico della costruzione europea giace anche, vittima della cultura continentale dominante, la questione della riforma e dell'unificazione della procedura per l'elezione del Parlamento europeo. In una prospettiva europeista, di riforma quindi dell'esistente, una nuova procedura elettorale, unificata e anglosassone, potrebbe costituire un elemento prezioso per un riequilibrio dei poteri della C.E. a favore del Parlamento europeo, finora unica istituzione a legittimità democratica. In effetti una tale riforma rafforzerebbe il rapporto tra eletti ed elettori, l'indipendenza dei primi rispetto ai partiti di appartenenza, tuttora partiti di carattere nazionale, favorendo anche la loro autonomia nei confronti degli esecutivi dei loro paesi di origine; conseguentemente ne verrebbe rafforzato il loro "peso" nei confronti del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Nella prospettiva, aperta con il Trattato di Maastricht, di un maggiore coinvolgimento delle regioni, ci si potrebbe spingere più oltre, cercando - opera difficile - di fare coincidere - laddove è possibile - questi collegi uninominali con le regioni esistenti nei vari paesi membri. In ogni caso l'elezione "all'anglosassone" favorirebbe l'emergere di solidarietà altre rispetto a quelle nazionali o, in misura minore, a quelle "euro-partitiche": risulterebbero evidenziate, per esempio, le affinità tra le regioni frontaliere.

Non è facile individuare su questo fronte il "Che fare", a maggiore ragione a livello transnazionale. Se, come crediamo e abbiamo tentato brevemente di dimostrare, il dato partitocratico è un elemento comune oltreché rilevante nel degrado generale del continente europeo (e non solo di quello), non per questo risulta immediatamente praticabile una azione comune su questo fronte. I livelli di degenerazione, così come il grado di consapevolezza rispetto alle ragioni di questo degrado, sono diversissimi. La questione - aperta - è quella di capire se siamo arrivati ad un grado sufficiente di maturazione e di convinzione su questo tema, in primo luogo tra i parlamentari iscritti, con l'obiettivo di darci alcuni strumenti transnazionali di lavoro e di impegno, come, ad esempio, una Lega transnazionale per la promozione del sistema anglosassone.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.12. Per la nascita di partiti europei

Il Partito Radicale, va ribadito, non è un partito europeo. Non per questo non può e non deve, crediamo, impegnarsi laddove è possibile far crescere le interdipendenze, ovvero quei processi di federazione regionale o continentale. Un processo che riguarda anche l'emergere in questi processi federativi di partiti federali.

Una necessità, questa, che viene affermata per la prima volta nel Trattato di Maastricht. Ma che rischia, con ogni probabilità, di essere interpretata - e poi usata - dalle classi politiche dirigenti europei, "coalizzate" (ed assolutamente non federate) negli pseudo-partiti oggi esistenti, come una ulteriore fonte di finanziamento pubblico. Il pericolo non è da poco. Vanno quindi prese da subito delle iniziative affinch‚ venga bloccato sul nascere ogni tentativo di riproposizione a livello europeo di partito parastatale. Vanno invece individuate le possibilità di offrire alcuni servizi a quei partiti che si propongono di agire nell'insieme della C.E.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.13. La questione delle nazionalità, delle minoranze

Già nel 1979, nel Parlamento europeo, nel Parlamento italiano, negli incontri tra delegazioni del PE e del parlamento yugoslavo, nelle piazze, nei loro giornali, i radicali in generale, Marco Pannella in particolare, ritenevano che "le questioni del Kossovo, del Paese Basco, dell'Irlanda del Nord, ... non potevano essere affrontate e risolte a Belgrado, a Madrid o a Londra, ma lo potevano essere, invece, a Strasburgo o a Bruxelles". Una analisi, purtroppo, drammaticamente confermata dalla storia recente ed attuale. Ma anche una proposta, spesso derisa, sempre bollata come irreale, dalle classi dirigenti della Comunità europea e dei suoi paesi membri.

Oggi, a quasi quattro anni dalla caduta della Cortina di Ferro, alle questioni basca, irlandese, kosovara se ne sono aggiunte decine di altre, che si credevano scomparse dal continente europeo, ma che erano state soltanto represse e negate da cinquant'anni o più di totalitarismo comunista.

Ovunque in Europa, e non solo, ha ricominciato quindi a bollire la pentola del nazionalismo. In alcuni casi, esasperata da classi politiche del vecchio regime in cerca di nuove basi di consenso, questa tremenda ideologia ha già fatto saltare il coperchio. Inutile dilungarci sul risultato della politica di questi signori che da demagoghi che erano all'inizio sono poco a poco diventati dei veri e propri criminali, responsabili di violenze, torture, stupri e stermini di massa: lo spettacolo di quanto sia avvenuto nella Croazia prima, nella Bosnia poi, è risaputo da tutti.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.14. Il Partito della sporcizia etnica

Purtroppo si aggiunge a queste tremende situazioni ex-yugoslava o caucasica e a quelle cariche di tensione, come in Moldavia, in Macedonia, in Romania, nei Paesi Baltici, in Slovacchia, in Russia, in Ucraina, nelle repubbliche ex-sovietiche dell'Asia Centrale, una totale e non meno tremenda assenza politica dell'Europa, delle sue istituzioni sovranazionali.

In un tale quadro, ovviamente, non ha molto senso parlare di un intervento di questa Europa, né di come bisognerebbe che fosse organizzata per tutelare i diritti delle minoranze e per organizzare la convivenza tra nazionalità diverse.

La questione, invece, è netta, immediata. Che fare? Che fare per fermare queste pazzie, per fermare la politica razzista e nazista di un regime, quello di Belgrado? Che fare per creare le possibilità di una rinascita della Bosnia che non si fondi sui risultati della pulizia etnica ?

Una cosa quanto meno è chiara. La nostra battaglia deve essere tesa allo ristabilimento di un assetto politico ed istituzionale che rispecchi proprio ciò che si è voluto cancellare con la politica della pulizia etnica, ovvero la convivenza su uno stesso territorio di diverse comunità etniche. Deve quindi partire proprio dagli antipodi della logica dei negoziati di Ginevra: quella della spartizione (grossolamente nascosta dietro uno pseudo decentramento), che non è altro che l'iscrizione, nella legge, dei risultati di una politica di forza, della politica di pulizia etnica del regime di Belgrado e dei suoi signori della guerra in Bosnia. Bisogna quindi ritornare allo "status antes": allo stato dei cittadini.

Alla base di questo ritorno alla situazione anteriore, c'è la gente: quelle centinaia di migliaia di persone cacciate dalle loro case, profughi in Bosnia stessa, in Croazia, in Slovenia, in Germania e, un po' dappertutto, in Europa. Individuato il nodo della questione, rimane da inventare una strategia, che non può essere che multiforme, ovvero la concretizzazione di una serie di proposte fatte in questi ultimi mesi dal P.R. o da alcuni dei suoi esponenti. I punti fondamentali sono:

1. l'isolamento totale della Federazione Serbo-Montenegrina da parte della Comunità internazionale per la sua fondamentale responsabilità nella tragedia bosniaca oltre che per la guerra in Croazia e Slovenia e per l'oppressione della stragrande maggioranza della popolazione del Kossovo;
2. la costituzione, nel quadro dell'ONU, di un tribunale internazionale per i crimini di guerra;
3. un appoggio deciso e massiccio, politico, amministrativo e tecnico, con le città della Bosnia da parte delle città del resto d'Europa, attraverso una campagna di gemellaggio puntato al salvataggio di tutti i dati anagrafici, storici, ecc. delle città occupate, distrutte, "pulite" da parte dei serbi; al fine di creare le condizioni per un ritorno di tutti i profughi;
4. il riconoscimento immediato della Macedonia;
5. l'elaborazione di un assetto istituzionale agli antipodi di quello oggi discusso a Ginevra, ovvero un assetto istituzionale che si fondi non su una divisione geografica ("decentralizzazione") che faccia corrispondere le regioni con le comunità etniche (perché questo comporta comunque il sancire gli "spostamenti" di popolazione avvenuti) ma tenendo conto delle realtà regionali;
6. riconoscimento al Parlamento del Kossovo di uno status internazionale analogo a quello dell'OLP.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.15. Il Partito delle diversità

Premesso che qualsiasi politica europea di garanzia delle minoranze non pu• prescindere, neanche minimamente, dalla risoluzione della tragedia bosniaca, rimane da capire quali meccanismi politici ed istituzionali di garanzia è necessario inventare e concepire, a livello del continente europeo (e non solo), al fine di impedire l'esplosione di altre tragedie di questo tipo.

Qui, come altrove, ci scontriamo, purtroppo e drammaticamente, con l'assenza o la sostanziale inadeguatezza, sia a livello europeo, sia a livello mondiale, delle attuali istituzioni internazionali. Abbiamo già visto i limiti - abissali - del processo "comunitario" di integrazione europea. Limiti che hanno per nome "cooperazione intergovernativa" invece di federalismo, "verticismo tecnocratico" invece di democrazia ma, anche, sostanziale trascuramento delle realtà regionali e delle minoranze, non certo colmato con la creazione, prevista dal Trattato di Maastricht, di un Comitato Consultivo delle Regioni.

Una inadeguatezza anche in questo settore, quella della C.E., non certo colmata dall'opera di altre istituzioni europee: il Consiglio d'Europa, completamente assente dall'inizio della guerra nell'ex-Yugoslavia; la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), anch'essa impotente; l'ONU, di cui viviamo ogni giorno la tragica inadeguatezza.

Di fronte però alla tentazione di individuare nuovi organismi o, meglio, istituzioni europee o mondiali incaricate di "gestire" i problemi delle minoranze (Alta Autorità Europea delle Minoranze, per esempio) ci sembra fondamentale confermare e, semmai, rafforzare, l'elemento centrale costituito dal Diritto, dai diritti di tutti i cittadini. Siamo in effetti, convinti, che solo nell'effettività del Diritto, dei diritti (e cioè anche con una giustizia che funziona, con leggi efficaci e applicate in materia di tutela del diritto all'informazione ed all'immagine), possono nascere le condizioni di un dialogo vero - quindi anche difficile e duro - tra maggioranze e minoranze, per raggiungere nuove articolazioni politico-istituzionali (autonomie, regionalizzazione, federalismo, ...) che consentano a ciascuna comunità di vivere, in convivenza con le altre, la loro propria diversità.
Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.16. Il partito degli Zingari

Nel bel mezzo della questione delle minoranze, ce n'è una molto particolare: quella degli zingari. Una questione che è riemersa in tutta la sua drammaticità agli occhi dell'opinione pubblica europea attraverso gli atti di intolleranza di cui è stata vittima questa comunità in Germania, in Ungheria, in Bulgaria, in Romania, e, più generalmente, ovunque risiedono consistenti comunità rom. Più recentemente, è stata decisa in Germania l'espulsione di 80.000 emigrati illegali, provenienti dalla Romania: questa misura tocca particolarmente i rom visto che costituiscono la stragrande maggioranza di questi immigrati.

Con questi avvenimenti è riemerso un vecchio dibattito, quello tra "assimilazione" e "integrazione", mai risolto o chiuso ma solo congelato ad Est dai vari regimi comunisti o, in Occidente, dalla crescita economica che consentiva in qualche modo di "contenerlo", di "accantonarlo", di "nasconderlo".

Manifestamente però‚ né la politica volontaristica (ed è un eufemismo) dell'Est, né i dividendi della politica del Welfare State dell'Ovest, ambedue fondate sull'assimilazione, hanno conseguito il loro obiettivo.

Le comunità zingare hanno mantenuto forte la loro identità, anche se, per alcune di esse, se ne è aggiunta o sovrapposta un'altra, di natura sottoproletaria, originata dalla rivoluzione industriale e dalla scomparsa delle classi artigianali.

Il nodo centrale della questione, a partire dal quale riaffrontare (o meglio affrontare, in ambito europeo) la questione zingara ci sembra quindi essere quello dell'identità. E, come è stato ormai dimostrato, non c'è possibilità di affermazione di identità se la politica - proclamata o meno dai vari stati - è una politica di assimilazione. E' giunto quindi il momento di inventare una politica tendente all'integrazione, fondata sull'affermazione delle peculiarità del popolo zingaro e sulle sue necessarie articolazioni con le varie culture nelle quali si è ambientato.

Si tratta, in altri termini, di creare lo spazio affinché‚ il popolo zingaro possa compiere una vera e propria rivoluzione transnazionale. Una rivoluzione che, sul modello delle rivoluzioni nazionali del secolo scorso, consenta al popolo zingaro di affermare e di vivere la propria identità, le proprie peculiarità linguistiche e culturali. Una rivoluzione che, all'opposto delle rivoluzioni del secolo scorso, fondi questa affermazione sulla interdipendenza del popolo zingaro con i vari popoli europei con cui convive. Una rivoluzione, ancora, che abbia come geografia la democrazia, come referente gli Stati Uniti d'Europa da creare.

In questa direzione si stanno cominciando a muovere alcune organizzazioni internazionali Rom. Di recente, sotto la loro spinta, è stato approvato dal Consiglio d'Europa un documento nel quale viene loro riconosciuto lo status di minoranza europea. Un riconoscimento senz'altro importante ma che rischia di non produrre effetti se non si riescono ad individuare alcuni obiettivi grazie al cui raggiungimento si possa cominciare a rendere questo concetto visibile e comprensibile.

Un compito difficile che necessita di un ulteriore sviluppo della riflessione insieme ad un maggiore coinvolgimento degli zingari iscritti al Partito Radicale. Quanto segue non va quindi considerato come una vera e propria proposta ma come un primo contributo.

Un punto fermo, dal quale dobbiamo partire, è il carattere transnazionale della questione, anche se, di fronte al carattere relativo, in termini politici ed istituzionali, dei referenti europei, i problemi di praticabilità politica non sono da poco. A titolo quindi solo evocativo, al momento, indicheremo due possibili obiettivi che potrebbero essere perseguiti nel quadro delle istituzioni della Comunità europea o di quelle del Consiglio d'Europa:
1. la promozione di una Università Europea Rom dove diplomati dei vari paesi europei possano compiere una formazione complementare di studio e di insegnamento della lingua rom;
2. la creazione di un'Accademia Europea Rom, dove scienziati di questa etnia possano difendere e promuovere la propria lingua e cultura.