Il Partito Radicale in Italia 
Da Mario Pannunzio a Marco Pannella 
1954 - 1974 

di David Busato 
Tesi di Laurea in Scienze Politiche, Universita’ degli studi di Siena, Relatore A. Cardini, AA 1995/1996. 

1. Storia e significato di un termine
2. I radicali in Italia fra il 1850 e il 1914
3. Il partito radicale tra la prima guerra mondiale e il fascismo
4. Pannunzio e il Mondo
5. Una politica parallela: i convegni
6. Gli amici de "Il Mondo"
7. Il PR dagli anni del centrismo agli albori del centrosinistra
8. La terza forza
9. Alternativa e centrosinistra
10. La sinistra radicale e il nuovo partito
11. Le battaglie esemplari: Eni, Omni, Piano Thirring, antimilitarismo, obiezione di coscienza, scuola, aborto e lotta per il divorzio
12. Il partito carismatico: Marco Pannella
13. Una battaglia con radici lontane
14. Cronaca di un referendum
15. Il PR dopo il referendum

1. Storia e significato di un termine

Il termine Radicale, proviene dall’Inghilterra. Il radicalismo inglese ha origini lontane: la parola nasce nel linguaggio politico anglosassone attorno al 1780, per designare la riforma elettorale basata sul suffragio universale maschile, per la quale si battè lungamente John Cartwright, che venne appunto definita "Radical Reform" e che fu ispirata dalle prime società ed organizzazioni democratiche inglesi con uomini come Priestley, Price e Thomas Paine (autore di "The rights of Man"). Pur non avendo un significato preciso che varia a seconda delle diverse tradizioni storico-culturali, il radicalismo inglese rappresenta le ali più avanzate del pensiero democratico, in pratica l’estrema sinistra borghese, con precise ascendenze laico-illuministiche.

Il primo radicalismo britannico, attratto da eventi contemporanei come la Dichiarazione dei diritti americana del 1776 e i fermenti politico-sociali francesi, attingeva, con forti tendenze giacobine, alle grandi idee di fede nella ragione e nell’uomo proprie dell’illuminismo, ma finirà per prediligere i problemi concreti e le riforme ai principi astratti, rappresentando così una filosofia eretica rispetto al classico liberalismo. Il radicalismo inteso come movimento ideologico si formò grazie all’apporto di James Mill ma soprattutto di Jeremy Bentham con il suo pensiero definito dagli storici appunto "radicalismo filosofico". Secondo la concezione filosofica dei radicali inglesi, la società si fondava sull’homo economicus, il cui interesse di singolo doveva essere posto in condizione di realizzarsi nell’ambito dell’interesse generale. Secondo Bentham: "La società è talmente costituita che lavorando alla nostra felicità particolare, noi lavoriamo per la felicità generale" . Proprio Jeremy Bentham e James Mill con i loro contributi teorici dell’ "utilitarismo" , riunirono attorno al radicalismo britannico del primo ‘800 un movimento democratico e riformista che riuscirà ad esercitare un notevole ruolo politico e culturale grazie alla stampa e ad una combattiva vita parlamentare. All’azione dei radicali, preludio ideologico dell’avvento laburista, infatti si dovettero alcune importanti riforme, fra le quali quella della revoca delle restrizioni al commercio e all’industria e soprattutto la riforma del sistema elettorale del 1832. I radicali non costituirono un vero partito ma bensì un gruppo di pressione che poi si dissolverà in altre forze politiche (soprattutto nei Whigs), agendo con un forte fermento innovatore.

Il termine "radicale" passò al linguaggio politico europeo continentale soprattutto in senso negativo, non come etichetta politica, ma come epiteto usato da coloro che occupavano posizioni di potere per definire gli oppositori democratici e costituzionali. In Europa un partito radicale organizzato fu quello svizzero, sorto nel 1829 e sostenitore del metodo del referendum. Ma il radicalismo inglese ha tratti differenti dal radicalismo francese: essi in comune hanno solo il nome, ma non la sostanza, non un legame di consistenza storica. Il Radicalismo italiano ebbe come modello proprio il radicalismo francese, di cui quindi è opportuno parlarne per meglio comprendere le vicende nostrane. Quello francese fu il Radicalismo per eccellenza. Di radicali in Francia si comincia a parlare intorno al 1820. Le sue correnti ispiratrici furono il dantonismo e il girondismo , filtrati attraverso le lotte politiche che portarono alla Rivoluzione del 1848. Di radicali in Francia si comincia a parlare intorno al 1820. Il nome come già detto, viene dall’Inghilterra. Si era allora scoperto a Londra un complotto per assassinare dei ministri, e la stampa britannica aveva attaccato, ancora una volta, i "radicali", come ispiratori e fomentatori di ogni disordine politico. All’indomani dell’assassinio in Francia del Duca di Berry nel 1820, il ministro degli interni francese Simeòn aveva esclamato: "Abbiamo forse anche noi i nostri radicali?" . Il nuovo termine entrava così nel linguaggio politico francese. Il termine di origine britannica serviva quindi a etichettare ogni forma di opposizione e di dissenso: radicali sono i cittadini che criticano il governo, radicali sono gli oppositori e i nemici dell’ordine costituito.

Sotto la Monarchia di Luglio esso indica le correnti repubblicane, socialiste, le società popolari e tutti coloro che avversano il potere borghese. Nel 1837 comparvero in Belgio e in Francia due giornali con il titolo di "Radical" legato a circoli rivoluzionari. Nella Francia di Luigi Filippo fino al 1848 sotto questo termine che racchiude l’opposizione politico-sociale sono presenti due correnti: una rivoluzionaria, cospiratrice che usa il termine come un prudente travestimento (Blanqui o la Societè des Saisons per esempio), e una che si batte alla luce del sole per un programma di riforme e di trasformazione democratica del regime. Sono questi i veri primi radicali nella Francia dell’Ottocento. I radicali ottocenteschi francesi non formano un partito e nemmeno un gruppo omogeneo ma sono accomunati da un solo scopo: la lotta contro Luigi Filippo. Il radicalismo francese che è formato da una base piccolo-medio borghese con forte sensibilità per i problemi sociali, si richiama alla grande rivoluzione della fine del ‘700. Esso si rifà agli ideali della Rivoluzione francese e alla Dichiarazione dei Diritti. Sotto la Monarchia di Luglio emergono tra i radicali francesi figure come Louis Blanc e LedruRollin. Quest’ultimo deputato dell’Estrema sinistra si batté per l’allargamento del suffragio e fu tra le prime file nella Rivoluzione del febbraio del 1848 (definita anche "rivoluzione dei radicali") nella quale egli, rifacendosi ai principi del 1789, proclamerà: "Si, siamo noi gli ultra-radicali, se voi con questa parola intendete il partito che vuole fare entrare nella realtà della vita il grande simbolo della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità" . Rivoluzione che segnerà il trionfo di Ledru Rollin che salì al potere come Ministro degli Interni. Ma la reazione dei moderati, dei conservatori che porterà la Francia al Secondo Impero spazzerà via ogni illusione radicale.


Col passare degli anni nuovi radicali si affacciano sulla scena politica: sono i Gambetta, i Ferry, i Clemenceau. E col passare degli anni viene abbandonata la tentazione rivoluzionaria e abbracciata la politica riformatrice. La figura più spiccata è quella di Gambetta che è fra i primi a proporre un serio programma (detto di Belleville dal nome del quartiere parigino dove Gambetta tenne un comizio), definito "la prima manifestazione politica ufficiale del "radicalismo". I radicali chiedevano: suffragio universale, ampia tutela dei diritti, la separazione della Chiesa dallo Stato, istruzione laica. Tutti argomenti che verranno ripresi non casualmente dai primi radicali italiani. In questi anni i radicali francesi si trovano divisi fra coloro che rifiutano la vita politicoparlamentare come Louis Blanc e coloro che lottano dall’interno delle istituzioni come Gambetta. E’ la stessa distinzione fra partecipazionisti e astensionisti che ritroveremo fra i radicali italiani. Dopo la caduta dell’Impero e nei primi decenni della Terza Repubblica, i radicali, collocandosi all’estrema sinistra, diventano una forza determinante nella vita politica francese. In quegli anni a sinistra dei radicali compare una opposizione dichiaratamente socialista. Comincia così in Francia la storia dei difficili rapporti tra il movimento socialista e quello radicale, che rimarranno quasi sempre divergenti anche per la loro diversa base sociale: borghese o piccolo borghese i radicali, operaia i socialisti. Qualcosa di simile vedremo anche in Italia. Nel radicalismo francese di quegli anni spicca la lotta contro la Chiesa e la battaglia per una legislazione democratica. Questi ideali influenzeranno concretamente il radicalismo italiano che riprenderà i vizi e le virtù del radicalismo francese facendo propri punti ideologici e programmatici come, fra i tanti, la difesa della laicità dello Stato, l’istruzione primaria e i rapporti con l’estrema socialista.

Nonostante la grande influenza francese, il radicalismo italiano ebbe un’evoluzione diversa: esso era l’erede diretto del "partito d’azione" mazziniano e incarnava la mediazione tra le correnti risorgimentali più estreme. Rodolfo Calamandrei descrive il programma radicale italiano, così come era delineato da Mazzini: "Accrescere la vera ricchezza dirigendo il capitale verso la produzione di cose necessarie alla vita e restringendo le spese improduttive; diminuire lo squilibrio tra le classi; avviarsi ad un’equa distribuzione delle ricchezze, mercè una pacifica trasformazione dell’attuale ordinamento economico in altro ordinamento, nel quale il lavoratore consegua intero (salva, si capisce, la devoluzione di una quota all’ente sociale, per il mantenimento dei servizi pubblici) l’equivalente del proprio lavoro" : ecco dunque la sintesi del programma radicale italiano. Chiedersi una data precisa della nascita del radicalismo italiano è difficile poichè si tratta di una evoluzione, entro una situazione politica, di uno specifico movimento e non di una fondazione di un partito. Tuttavia è sufficiente iniziare un’analisi partendo, come in Francia, da quello che è chiamato decennio di preparazione, cioè dagli anni intorno al 1850. Siamo in epoca mazziniana e in Europa si assiste al ritorno dell’ondata conservatrice momentaneamente scalzata dal potere nel ‘48. In questo periodo in Europa c’è l’attesa di nuove crisi rivoluzionarie e Mazzini cerca di riannodare i fili della democrazia: a Londra dà vita al Comitato centrale democratico europeo con il radicale francese LedruRollin che però non ha sbocchi concreti. In Italia Mazzini cercava di creare un saldo movimento rivoluzionario e nel 1850 costituì il Comitato Nazionale Italiano con Saffi e Sirtori. Ma egli era "costretto" ad agire prudentemente lanciando manifesti e proclami vaghi per poter comprendere il maggior numero possibile di forze democratiche, e proprio il composito schieramento democratico italiano, la infelice conclusione del biennio 184849 e la nuova realtà costituita del Piemonte di Vittorio Emanuele, spingevano Mazzini a una certa cautela. Ma le dissidenze in campo democratico si acuirono e uomini come Ferrari e Pisacane criticarono il " formalismo " mazziniano. Già nel 1852 uomini come Antonio Mordini, repubblicano convinto, e Agostino Bertani, avvertirono la crisi in cui si dibatteva la democrazia italiana e sarà proprio da questa crisi che verrà fuori la tendenza radicale. Era nell’aria l’idea di dar vita ad un’organizzazione, ad un nuovo raggruppamento politico che superasse il mazzinianesimo e che preannunciava il nascere di una linea radicale. Il più significativo rappresentante di questa tendenza fu Agostino Bertani: in lui, era già vivo il proposito di dar vita a un’organizzazione, embrione di un nuovo partito. Scriveva nel febbraio 1853 a Cattaneo: "...Sarebbe tempo opportuno a congiungersi per dar consistenza e manifestazione stimabile a un partito" . Con Bertani il programma radicale non fu più generico e astratto ma si concentrò concretamente sui veri aspetti della politica nazionale. I democratici italiani durante i primi quindici anni dell’unità d’Italia condussero dall’estrema sinistra dello schieramento parlamentare che sarà chiamato "sinistra storica", una tenace opposizione ai governi moderati. Sempre in questi anni Bertani continuò nella sua linea di organizzazione di una corrente democratica e oppositrice del moderatismo al potere, ma senza nuocere alla monarchia. Il primo radicalismo italiano nascerà appunto da questa concomitanza di impeto rivoluzionario e di realistica accettazione delle istituzioni esistenti, a cominciare proprio dalla monarchia stessa. Lo stesso Bertani disse "la Monarchia ha torto a considerare i radicali come nemici..." . In realtà il leader del movimento radicale proponeva alla Monarchia di uscire dalla formula "per grazia di Dio e per volontà della Nazione", e di accettare il principio della sovranità popolare attraverso la concessione del suffragio universale punto programmatico essenziale per i radicali. A partire dal 1862, con la crisi culminata con l’episodio dell’Aspromonte, nel movimento democratico cominciarono a distinguersi due correnti: l’una confiderà nell’intesa con la monarchia e sosterrà con Crispi la necessità dell’unione attorno al trono, preparando a distanza l’avvento della sinistra costituzionale; l’altra, vorrà dare alla democrazia radici popolari più profonde e si incamminerà verso il socialismo. Accanto a queste due correnti si inserirà la corrente radicale.

La perseveranza di dar vita a un nuovo partito, condusse alla fondazione, nel marzo 1862, dell’Associazione Emancipatrice Italiana, preludio di un movimento radicale: iniziativa volta a raggruppare le varie associazioni politiche in una nuova organizzazione, per dare ai democratici come Bertani lo strumento di pressione e di azione di cui ancora essi mancavano.

Il crescente attivismo radicale si espanse anche fuori dei confini del regno, con l’appoggio dato, grazie a campagne di stampa, all’insurrezione polacca del 1863. A mano a mano che il movimento radicale acquistò importanza e influenza si fece largo tra le sue fila il dibattito fra fautori dell’astensione e i fautori della partecipazione alla vita parlamentare. Si trattava infatti di decidere se strappare riforme in senso democratico e preparare il terreno alla Repubblica, oppure assumere un atteggiamento di astensionismo entro il quadro delle istituzione esistenti. La polemica, fra astensionisti e partecipazionisti, sorta anche come abbiamo visto nei radicali francesi, si prolungherà negli anni successivi. Le due vie divergeranno sempre di più: la prima porterà spesso al socialismo, la seconda al radicalismo.

Con il passare degli anni infatti si accentuerà sempre di più la differenza tra la sinistra costituzionale e il gruppo che diventerà l’estrema sinistra radicale. Scriveva Bertani nell’opuscolo Dell’Opposizione Parlamentare, nel 1865: "...l’importante è giungere a una necessaria e utile distinzione fra gli stessi uomini della Sinistra parlamentare..." . Per il leader radicale quindi la funzione del gruppo radicale era quella di opposizione sempre pronta a gettarsi allo sbaraglio, senza però rompere i ponti con gli altri settori della Sinistra.

La progressiva conversione radicale ai metodi parlamentari fu incarnata de Bertani che prenderà questa strada non senza titubanze e incertezze. Il 1864 infatti fu un anno che mise a dura prova questi dubbi e la volontà di Bertani di dar vita a un movimento politico-parlamentare di Estrema Sinistra. I vari avvenimenti, fra i quali la Convenzione di Settembre, sembravano piuttosto sollecitare il convergere di tutta la sinistra democratica su posizioni comuni, che non favorire l’autonomo costituirsi di un’Estrema Radicale. Tuttavia Bertani era dominato dall’idea di giungere a un vero e proprio partito: a Cattaneo, nel giugno del 1864, proponeva che il vecchio Partito d’Azione si costituisse in partito politico sotto l’egida e in nome di Garibaldi: "... non ti sembrerebbe opportuno uno scritto che reclamasse la costituzione del Partito d’Azione in partito politico, appellandosi partito della riforma..." . Questa frase indica significativamente il trapasso dall’azione rivoluzionaria alle battaglie riformiste sul terreno parlamentare (anche in Francia infatti il partito radicale sarà chiamato partito delle riforme). Nel già citato opuscolo Della Opposizione Parlamentare, egli scrisse: "... l’alternativa rivoluzionaria è dunque mantenuta in vita, pur nell’accettazione del terreno parlamentare...debbono pertanto i democratici radicali annunciare i loro più lontani postulati..." . Quali postulati? Indipendenza della magistratura dall’esecutivo, imposta unica, proporzionale, suffragio universale, istruzione primaria gratuita e obbligatoria, integrale laicismo, autonomie locali e decentramento, abolizione della pena di morte. Tutte istanze che ritroveremo lungo il cammino del radicalismo italiano.

Ma l’opposizione radicale in questi anni fu più una speranza che una realtà, più una tendenza che un partito: prenderà forza e consistenza man mano che si distinguerà dalla Sinistra Costituzionale.

Nel 1869 venne alla luce uno dei tratti tipici del radicalismo italiano : l’anticlericalismo: "E’ vero dunque che l’anticlericalismo, l’atteggiamento antireligioso, i radicali propositi di politica ecclesiastica hanno una parte importante nel costituire la fisionomia e i programmi delle formazioni politiche dell’Estrema, formazioni politiche i cui contorni sono ancora abbastanza sfumati nei primi anni ‘70..." . Questo estremismo anticlericale che rivedremo in più di un’occasione, nasce, sia dall’arroventarsi delle polemiche contro la Chiesa all’indomani di Mentana , sia da influenze massoniche e positivistiche, sia da suggestioni ideologiche dei "cugini" transalpini. Ma l’evento francese che suscita interesse e fervore in Italia e negli stessi radicali è la Comune parigina del 1871. Evento che senza dubbio mette in moto speranze e nuovi orizzonti. Tutta la scena politica e sociale nel nostro Paese accenna a mutare. Il progressivo logoramento della Destra al potere e un crescente malcontento creano nuove correnti e nuovi partiti: i repubblicani, i socialisti, i radicali. L’avanzare delle nuove forze radicali sulla scena politica italiana porterà al congresso nel 1872 di tutte le forze democratiche, repubblicane, operaie che si concluderà con un documento ricordato nella storia del radicalismo italiano come il primo Patto di Roma. Esso conteneva le istanze professate da sempre e ripetute con convinzione: suffragio universale, istruzione laica gratuita e obbligatoria, decentramento amministrativo.
Negli anni che vanno dal 1873 al 1876, le vicende del radicalismo italiano riflettono la crisi che investe tutta la situazione economica, sociale, politica.

Crisi di cui si interessarono non pochi radicali, intenti soprattutto a evidenziare la grave situazione nelle campagne e a risolvere la iniquità di condizione delle masse contadine. Nello stesso tempo di fronte alle repressioni e alle persecuzioni del governo della Destra, i radicali si opposero ai soprusi e agli arbitri polizieschi rivendicando la difesa della libertà dei cittadini. Atteggiamento che ritroveremo spesso negli anni successivi come uno degli aspetti più caratteristici. Le elezioni del 1874 costituirono un passo avanti sulla strada del sempre più rapido evolversi della situazione politica. Si registrò infatti una forte avanzata della Sinistra, soprattutto nell’Italia meridionale, mentre il Radicalismo si affermò nel settentrione, specialmente in Lombardia e in Emilia. Alla vigilia di queste elezioni la piattaforma programmatica della Sinistra storica e dei Radicali era più o meno la stessa; solo che spesso i radicali accentuavano le stesse istanze. I contrasti infatti sarebbero venuti alla luce più tardi, dopo l’ascesa della Sinistra al potere. Il piglio più risoluto e combattivo dei radicali è evidente, per esempio, nelle polemiche parlamentari del maggio 1875 sulla politica ecclesiastica . In quest’occasione Bertani presentò un ordine del giorno in cui invocava l’eguaglianza di tutte le credenze religiose; egli usò accenti di aspra critica per Pio IX, definito "fanatico vegliardo", e per i dogmi ecclesiastici. Questo intransigente anticlericalismo non fu prerogativa classica invece della Sinistra storica . La caduta della Destra, e l’avvento della Sinistra al potere il 18 marzo 1876, fu salutata anche dai radicali come una comune vittoria dell’opposizione. Molti radicali infatti vi scorgevano una conferma a posteriori della bontà della linea politica da loro adottata e un premio per la strada intrapresa della partecipazione alla vita parlamentare. Lo stesso Bertani confermava questa fiducia condizionata: "Se il governo oggi è di sinistra, ha pur bisogno che un’estrema sua parte lo ammonisca, lo sospinga ad ogni passo" . I radicali guardavano dunque con fiducia al nuovo Ministero Depretis, ma non era un’adesione incondizionata, bensì una vigilante attesa della prova dei fatti. Ma le poche certezze cominciarono a fare spazio ai dubbi: le repressioni poliziesche ordinate dal Ministro dell’Interno Nicotera indussero i radicali a staccarsi sempre di più dalla maggioranza e a difendere ciò che avevano sempre difeso e che continuava a latitare: la libertà di opinione e di associazione per tutti i cittadini.

Nel 1877 si delineò il distacco prevedibile distacco dell’Estrema radicale dalla maggioranza di sinistra. L’occasione, che vide la costituzione di fatto di un "Partito Radicale" inteso come partito dell’estrema sinistra , con tutti i limiti che la parola partito conserva nel lessico politico dell’ottocento (cioè di uno schieramento politico non statutariamente organizzato e amministrato, che consiste soprattutto di una sua base parlamentare ed elettorale), fu il 26 maggio 1877, quando cioè il gruppo Bertani composto da una ventina di deputati, votò contro il governo Depretis su una tassa impopolare sullo zucchero. Risoluto fu l’ordine del giorno presentato da Bertani in cui si affermava che il partito dell’estrema sinistra, fermo nei suoi principi di combattere la tirannide dello stato autoritario, esprimeva la sua completa sfiducia nell’attuale ministero che non ha compreso il principio della vera libertà e soprattutto si annunciava la costituzione dell’Estrema Sinistra in partito separato. La successiva radicalizzazione di questa fazione su temi di politica interna ed estera (soprattutto la speranza di uno smembramento dell’Impero asburgico ), condusse ad una frattura sempre più netta rispetto alla sinistra storica da cui proveniva la maggior parte dei suoi esponenti.

Bertani stesso nel discorso in cui dichiarò la fiducia al governo Cairoli nel 1878 affermò l’urgenza di necessarie riforme serie e radicali. Ma aspirare a ciò era sempre più difficile. La crisi della Sinistra che tante speranze aveva suscitato nei radicali era evidente. Lo testimonia la battaglia nel corso del 1879, per la riforma elettorale che si risolse nel 1882 in un sostanziale allargamento del suffragio , ma non nella concessione del suffragio universale voluto fortemente dai radicali.

I radicali di fronte all’incipiente trasformismo di quegli anni tentarono di reagire con iniziative sempre più basate su una vivace opposizione, ne fu un esempio la costituzione di un nuovo organismo chiamato Fascio della Democrazia nel 1883 che era fautore di una stretta alleanza fra tutte le correnti dell’estrema sinistra.

Da parte reazionaria si volle fronteggiare il pericolo radicale ( i radicali erano definiti nello stesso modo in cui erano chiamati i radicali francesi: "radicanaglia" ) attraverso un’alleanza tra moderati e progressisti. Lo stesso gruppo radicale perse alcuni suoi esponenti moderati, ma nonostante questo si attestò su nette posizioni di battaglia cominciando quella lunga lotta contro l’involuzione democratica del paese, e guidato da uomini come Bertani e Cavallotti, riuscirà ad imporsi come unica opposizione in Parlamento e nel Paese, almeno fino alla nascita del movimento operaio e socialista organizzato, rappresentando le istanze di rinnovamento, lo spirito di contraddizione, la critica al regime dominante. L’atteggiamento combattivo assunto in questi anni dai radicali si concretizzò in molte battaglie fra le quali la riforma scolastica e la questione agraria. Sulla prima questione Bertani si battè, restando pressochè isolato, per un’università libera, un insegnamento rigorosamente laico e una democratizzazione degli ordinamenti scolastici. Sulla seconda questione i radicali si preoccuparono del problema agrario interessandosi ai gravi problemi che attanagliavano le campagne italiane. Bertani disse nel 1885: "Chi considera i lavoratori della terra come una classe a parte, predestinata a quell’ufficio e a quegli stenti, dimentica che essi compongono l’immensa maggioranza della nazione, e che pertanto i loro interessi sono i veri interessi generali, mentre quelli dei ricchi...sono interessi particolari e di classe" . I radicali in questa ardua opera di apostolato nelle campagne cercarono la collaborazione dei primi socialisti, illudendosi di essere la loro guida ideologica e organizzativa. Ma i radicali italiani, sopravanzati dal socialismo, falliranno nel loro tentativo di penetrazione delle campagne a differenza di quelli francesi, e conserveranno una base essenzialmente borghese e cittadina.

Quando Crispi salì al potere, nell’agosto del 1887, l’atteggiamento radicale non fu concorde: molti lo attendevano al varco, altri come Fortis erano disposti ad appoggiarlo anticipando così quel dibattito che si protrarrà negli anni fra radicali oppositori e governativi. Ben presto le critiche radicali all’operato di Crispi furono accese per le ripercussioni della tariffa doganale del 1887 oppure quando fu approvata una legge proposta dallo stesso Crispi che prevedeva la costituzione dei ministeri con decreti reali. Questo per i radicali era un inammissibile rafforzamento dell’esecutivo a danno del parlamento che doveva essere difeso strenuamente.

Ma quando la politica di Crispi e dei radicali convergeva questi ultimi non si tirarono mai indietro come nel caso della battaglia anticlericale culminata nella erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo dei Fiori.

Un altro terreno di scontro che acuì l’ostilità verso l’uomo politico siciliano fu la politica coloniale: contrari all’allargamento dell’azione militare in Africa, i radicali si batterono anche, contro il volere di Crispi, per un’interpretazione dell’art. 5 dello Statuto (questione ripresa come vedremo nel Patto di Roma del 1890) che riconoscesse al parlamento il diritto di controllare l’azione dell’esecutivo anche per quel che riguarda la politica coloniale.

Il 1890 fu un anno importante per il radicalismo italiano. Fu l’anno del Patto di Roma che scaturì il 13 maggio dal congresso democratico organizzato dai radicali. Le elezioni amministrative del novembre dell’anno precedente avevano visto il vittorioso affermarsi dei blocchi dell’Estrema in molti comuni, e il rafforzarsi delle correnti repubblicane e socialiste avevano persuaso i radicali della necessità di fare qualcosa, per mettersi alla testa dell’opposizione anti-crispina e presentarsi al paese con un programma serio e riformistico. Il Patto di Roma rispondeva proprio a questo intento e i suoi punti essenziali erano un vero e proprio programma di governo. Prima di tutto per rinvigorire i poteri del Parlamento, era sentita fortemente la necessità di rivedere il già citato art.5 dello Statuto che stabiliva: "Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio" . Revisione che si sarebbe poi realizzata solo dopo molto tempo con gli articoli 78 e 80 della Costituzione Repubblicana , che riservano alle Camere il diritto di deliberare lo stato di guerra e di autorizzare la ratifica dei trattati internazionali più importanti.

Questa misura aggiunta ad altre come il diritto di riunione e di associazione sottratto a qualsiasi legge speciale o alle modificazioni della legge di pubblica sicurezza, formavano la risposta alle prevaricazioni autoritarie della politica crispina.

Nel campo amministrativo il Patto di Roma prevedeva la tradizionale istanza radicale dello sviluppo delle autonomie locali: "Al potere centrale bisogna mantenere solo quanto intimamente si lega alla compagine dello Stato: unità politica e giudiziaria, esercito e armata, grandi opere pubbliche, scambi internazionali ecc." . Una riforma fortemente caldeggiata fu anche quella di una legge che riconoscesse finalmente la riparazione in denaro per gli errori giudiziari e per le carcerazioni nei processi conclusi con l’assolutoria per l’inesistenza di reato .

Nel campo scolastico il programma era incentrato sulla gratuità dell’istruzione dall’asilo all’università, sulla laicità e obbligatorietà dell’istruzione primaria e sulla effettiva autonomia universitaria .

La politica estera non era certo tralasciata e i radicali chiedevano "Il riannodamento completo, intimo, fraterno dei rapporti politici e commerciali fra l’Italia e la Francia" . Per realizzare ciò era però necessario separarsi completamente dall’Austria , stringere rapporti stretti con Inghilterra e Germania , ma soprattutto rompere la Triplice: "L’ufficio di alleate mutato in quel di gendarme; il sangue di Oberdan gettatoci sul viso; la persecuzione accanita, rabbiosa nelle terre italiane soggette all’Impero...rovina economica e finanziaria" . Questo era agli occhi dei radicali il triste bilancio di un decennio di Triplice.

Il Patto, in cui erano presenti anche proposte per migliorare i bilanci tagliando le spese militari e coloniali , per ridurre il servizio militare , e per diminuire i numeri dei ministeri, si occupò infine, ma in maniera sommaria, di questione sociale: giornata lavorativa non oltre le 8 ore, l’istituzione di Camere di lavoro, applicazione rigorosa della legge sul lavoro dei fanciulli e nuove norme sul lavoro femminile, una seria legislazione infortunistica, sistema pensionistico per l’invalidità e la vecchiaia dei lavoratori , sviluppo del cooperativismo. Queste le proposte che attirarono le critiche dei socialisti: significativo in proposito è il commento di Turati: "...il programma non tratteggia che un lato solo, il lato parlamentare, dissertando su una serie di riformette e ritoccature la più parte politiche...è un programma che non è fatto per appassionare nè trascinare le masse" .

La realizzazione del Patto di Roma era subordinata a un forte successo elettorale nelle elezioni politiche che erano aspettate da un momento all’altro e che poi si svolsero il 23 novembre 1890. Un eventuale successo era visto necessario e per l’inserimento dei radicali nella nuova maggioranza.

Le elezioni però delusero le aspettative. La campagna denigratoria scatenata contro i radicali da Crispi e le divergenze fra socialisti e l’Estrema, furono tra le cause di questo insuccesso, che non fu tanto in termini numerici (risultarono eletti infatti, come mai non era successo, poco più di 50 deputati, soprattutto nel Sud), quanto di immagine. Non si era verificato l’evento tanto atteso: un raddoppiamento della rappresentanza radicale in Parlamento, che era considerato il mimino indispensabile per realizzare l’ambizioso disegno contenuto nel Patto di Roma. Il grande sogno per i radicali svanì, e da questa cocente delusione iniziò la parabola discendente del radicalismo in Italia, che affievolì il suo vigore combattivo.

Ma il radicalismo, pur in grave crisi era pur sempre una corrente importante: "I radicali avevano tradizione e prestigio, ma contavano su una organizzazione di partito piuttosto fragile, e non arrivarono mai ai 10000 iscritti...erano sostenuti da un notevole numero di professionisti, soprattutto avvocati..." . Infatti le sue radici, soprattutto in Lombardia e in Veneto, erano ancora abbastanza salde : nella prima che aveva prodotto uomini come Bertani, Cavallotti, Sacchi, il radicalismo ferveva ancora: non era un caso che il maggior organo della stampa radicale, "Il Secolo", si pubblicasse a Milano. Dalla seconda nel corso degli anni per merito di uno degli antesignani del radicalismo, Carlo Tivaroni, si affermarono idee radicali e associazioni come per esempio la Lega Democratica Veneto-Mantovana. Il radicalismo si collegò strettamente con l’opinione pubblica borghese e progressista, facendosi apprezzare anche negli strati popolari urbani di matrice socialista e democratica ed esercitando una attrazione verso i repubblicani e verso il movimento operaio (il primo deputato "operaio" fu infatti il radicale Antonio Maffi nel 1882). Anche sul piano culturale radicali, socialisti e repubblicani respiravano la stessa atmosfera di quegli anni che era rappresentata dal positivismo considerato un efficace strumento per sprovincializzare e ammodernare l’Italia. Anche nella battaglia per l’allargamento del suffragio (stessa lotta per i radicali francesi) i radicali si trovarono a fianco molti socialisti con i quali ebbero un rapporto controverso: a momenti di tensione e di disaccordo si alternarono momenti di importante e proficua collaborazione come per esempio quando nel 1889 il socialista Antonio Labriola costituì a Roma il Circolo Radicale. Proprio negli anni intorno al 1890 si fece strada la tendenza radicosocialista che secondo Massimo Fovel il maggiore rappresentante assieme a Meuccio Ruini, di questa corrente, essa si proponeva di dare "un indirizzo e un colorito sociale alla democrazia e al radicalismo: e sociale voleva dire in sostanza, ispirata ai concetti stessi di lavoro, cui si ispirava il movimento socialista". Mirava a "condurre qualche frazione democratica con le sue masse medie sul terreno stesso, ove i socialisti operavano con le masse operaie" . Secondo Fovel il proletariato e i ceti medi avevano molti punti di coincidenza e da qui la volontà di creare un blocco politico fra il proletariato e la piccola e media borghesia e quindi dar vita ad un’ alleanza tra socialisti e radicali per un partito appunto radicalsocialista che comprendesse anche la borghesia. Le premesse non mancavano. Gli anni compresi fra il 1890 e il 1895 furono infatti per i radicali ricchi di intense speranze. Nel maggio del 1890 il movimento radicale si era dato con il secondo Patto di Roma (il primo nel 1872) una base programmatica più precisa. Il programma elaborato da Felice Cavallotti suscitò molte critiche da parte socialista soprattutto da parte di Turati che accusò i radicali di non aver capito i tempi nuovi poichè era stata data poca importanza al concetto sociale rispetto al concetto politico, e la questione sociale ritenuta fondamentale dai socialisti era stata trattata come frammento seminascosto. Il programma deluse anche molti radicali che con le agitazioni dei Fasci di Sicilia avrebbero preferito una maggiore attenzione alla situazione sociale. La nascita del Partito dei Lavoratori italiani nell’agosto del 1892 (che nel settembre 1893 divenne Partito socialista dei Lavoratori italiani e nel gennaio 1895 Partito Socialista) provocò disorientamento fra le fila radicali: il nuovo partito assunse quel ruolo di rappresentante delle classi lavoratrici che fino ad allora era stato svolto dai radicali e sottrasse il proletariato all’egemonia della borghesia radicale. I radicali perciò si trovarono di fronte a un bivio: sollecitare intese con i liberali per contrastare i socialisti o cercare legami più stretti con questi ultimi. La scelta era ardua anche perchè la corruzione, l’incapacità della classe dirigente liberale e gli scandali bancari del 18921893 sembravano spingere i radicali verso la seconda soluzione, ma la estrazione sociale dei radicali era borghese ed era forte quindi i legami con i liberali. Un esponente della sinistra radicale L. Guarnieri stampò degli opuscoli in cui si parlò per la prima volta di "Socialismo radicale" e di "Radicalismo sociale" nel tentativo di indirizzare i radicali verso il mondo socialista. Egli era allarmato per il divario sempre più largo tra paese reale e paese legale, tra le masse popolari e la classe politica borghese e per uscire da questa crisi era necessario un "Profondo e radicale rinnovamento degli ordini sociali" e l’affermazione della "giustizia sociale" cioè "...il libero esercizio dei diritti individuali e l’uguaglianza reale di tutti i cittadini dinanzi alla legge". Queste concezioni unite a quelle del suffragio universale e alla creazione di un sistema bipartitico fondato su "...due grandi partiti nazionali fondati sull’odierna base sociale" avvicinavano le tesi di Guarnieri alle analisi dei socialisti di quegli anni : Questi due partiti non potevano che essere il partito "conservatore-liberale", espressione della media e grande borghesia, e appunto il partito "Radicale-socialista", formato dal proletariato e la piccola borghesia. "il socialismo egli spiegava è l’affermazione eterna dei diritti spettanti verso lo Stato all’uomo e al cittadino... e se al socialismo annettiamo l’attributo di radicale non è che per meglio spiegarci sulla natura dei nostri intendimenti...siamo convinti che il radicalismo sia il tratto di unione per il quale si possano rendere conciliabili gli interessi delle grandi masse lavoratrici". Il Radical-Socialismo, che Guarnieri sintetizzava in "Patria, Giustizia, Lavoro", si prefigurava pertanto come il logico punto d’incontro tra esigenze politiche e sociali della classe lavoratrice. La voce di Guarnieri non rimase isolata. Pure il giurista toscano Rodolfo Calamandrei, padre di Piero Calamandrei, attestò che il "socialismo, da pochi anni costituitosi in partito, ...aveva messo in crisi il radicalismo italiano, contestandone la ragion d’essere, la giustificazione logica e storica, e posto ai radicali degli interrogativi... O voi, socialisti militanti, volete l’attuazione immediata del collettivismo, e allora siete illogici; o ne volete l’attuazione mediata, graduale, e allora siete logici sì, ma rubate il programma ai radicali" . Per Calamandrei il radicalismo affondava le sue radici nel pensiero mazziniano, anche se quest’ultimo conteneva un programma incondizionatamente progressista, quasi rivoluzionario, mentre il pensiero radicale tendeva a migliorare l’assetto sociale borghese e il sistema politico liberale, rendendolo più equo e democratico. Calamandrei non vedeva nel socialismo un pericolo; il socialismo non era che "il programma radicale più qualche leggera sfumatura sociale...": solo Il radicalismo era per il giurista il programma più adatto per il nostro paese. La speranza di Calamandrei era che radicalismo e socialismo potessero percorrere "in piena concordia il comune sentiero" e battersi per l’istruzione assicurata ad ogni cittadino e per tutti i giusti principi egualitari. Pertanto il "partito radicale" era "tanto nel fine quanto nella tattica, essenzialmente socialista" ma aveva "nella storia parlamentare un trentennio di priorità" e quindi una superiore legittimità storica rispetto a quella dei " neonati socialisti". Quindi la scelta più logica per Calamandrei era che i socialisti confluissero nell’area radicale. Le idee radico-socialiste di Guarnieri e Calamandrei non riscossero in seno al movimento radicale grande successo. Anzi, nei primi anni del ‘900 fu confermato l’indirizzo conservatore dei vertici radicali, indirizzo che indusse Calamandrei a emigrare nel Partito Repubblicano. Tuttavia non mancarono fra radicali e socialisti accordi in parecchi collegi in occasione delle elezioni politiche fra il 1895 e il 1900, e neanche intese politiche che portarono alla costituzione della Lega Per La Difesa Della Libertà, sorta a Milano nel 1894 per iniziativa dei radicali e dei socialisti. Ma furono episodi sporadici compiuti individualmente. I dirigenti radicali nutrirono numerose riserve nei confronti nella dottrina socialista, ma anche da parte socialista l’idea dei radicali non era proprio positiva: Turati accusò, nell’ottobre del 1890, il movimento radicale di mirare "più al governo ed alla legge che al popolo, più alla decorazione che all’edificio" . Verso il movimento socialista i radicali commisero l’errore di pensare di poter continuare all’infinito e senza contrasti il loro compito di patroni: la base del movimento radicale fu sempre borghese e cittadina, e stentò a comprendere che i lavoratori potessero ad un certo momento rivendicare lo specifico diritto di scegliere le proprie forme di rappresentanza e di lotta, organizzandosi con propri movimenti di classe. Ma lo scarso successo della tendenza radicosocialista fu dovuta anche al fatto che intorno alla metà dell’ultimo decennio del XIX secolo, non si erano ancora maturate quelle trasformazioni nella struttura economica e sociale del paese che, tra i primi anni del ‘900 e la prima guerra mondiale, crearono numerosi e diversificati strati sociali intermedi fra la borghesia imprenditoriale e finanziaria e il proletariato sui quali le idee radico-socialiste si diffusero lentamente.

Nel frattempo, oltre alle possibili quanto minoritarie e improbabili convergenze con alleati vicini, la linea politica dei radicali era sempre messa a dura prova dal continuo succedersi dei governi. Dopo la delusione delle elezioni del 1890, infatti i radicali si trovarono di fronte il governo Rudinì che nel 1891 era succeduto a Crispi. L’atteggiamento fu, come altre volte, di speranzosa quanto scettica attesa. Le prospettive di Rudinì come i contenimenti di spesa o politiche più liberali e tolleranti furono disattese e i radicali passarono più tardi, con il rinnovo della Triplice, che essi avversavano, ad un’accesa opposizione. La linea radicale era sempre influenzata dalle opposte tendenze all’interno del partito fra oppositori e filogovernativi. A questa difficoltà di mediazione e di compromesso fra le varie anime interne si aggiunse la offensiva socialista che, come abbiamo visto, spiazzò i radicali e invase le loro sfere di influenza, come alcune tra le più salde organizzazioni radicali. Nella primavera del ‘91 infatti l’accordo fra il Consolato e il Fascio Operaio a Milano sigillò la sconfitta della tendenza radicale e pochi mesi dopo il congresso operaio di Milano vide il netto prevalere della linea turatiana su quella radicale. Turati sulla Critica Sociale scrisse: "Il socialismo sarà il giustiziere e il becchino dell’estrema sinistra".

Di fronte al governo Giolitti nel 1892 i radicali si mostrarono invece ostili sin dall’inizio: c’era disdegno per un politico considerato homo novus, proveniente dalla burocrazia e dall’amministrazione. Ma soprattutto era stato il modo in cui Giolitti era arrivato al ministero: la sua designazione all’incarico per una pura volontà del sovrano, incurante delle volontà parlamentari, aveva fatto subito irrigidire i radicali. Giolitti dal canto suo inizierà ad attuare la sua politica di cooptazione, tentando di attrarre con la prospettiva di buone riforme, i legalitari, cioè i radicali meno intransigenti disposti a collaborare con il Governo. Fu il preludio di quella costante azione che nel nuovo secolo, come vedremo, condurrà al graduale e quasi totale assorbimento dei radicali nelle maggioranze di governo.
Ma molti radicali intransigenti e antigovernativi, sordi alle sirene del giolittismo, furono in prima fila contro Giolitti per lo scandalo della Banca Romana in cui anche i radicali "possibilisti" si schierarono con i compagni oppositori.

La conseguente caduta di Giolitti e l’incarico dato a Crispi , attenuano per un po’ gli animi, ma la dura repressione usata nella sua terra dall’uomo politico siciliano nel 1894, conosciuta come Fasci Siciliani, scatenò di nuovo le polemiche da parte radicale. La dura politica crispina generò la coesione in un’unica voce oppositrice delle due correnti radicali, ma soprattutto la collaborazione fra radicali e socialisti . Esempio lampante è la fondazione nell’ottobre 1894, della già citata Lega Italiana per la difesa della libertà promossa dai radicali e da socialisti come Turati.

La politica repressiva e coloniale di Crispi finì miseramente nella famosa sconfitta di Adua nel 1895 che provocò le dimissioni dell’uomo politico che fece posto di nuovo a Rudinì. I radicali di fronte a quest’ultimo assunsero un atteggiamento inizialmente benevolo. Ma ormai il loro obiettivo principale erano nuove elezioni per vedere affermata la idea del leader Cavallotti: al governo solo da posizioni di forza in seguito a un buon risultato elettorale. Questa speranza di nuove elezioni spiega il perseverare nell’appoggio a Rudinì. Ma questa opera di fiancheggiamento governativo che si trasformò presto in palese irritazione (scrisse Cavallotti a Colajanni: "Col ministero, se il vento non cambia, temo che presto saremo ai ferri corti" ), portò se non altro alle sospirate elezioni che si svolsero nel marzo del 1897. I risultati videro un’ulteriore avanzata dei radicali anche se erano ancora una volta rimasti lontani dall’agognato traguardo di un ‘influenza forte sulla politica italiana. In aggiunta a ciò 22 deputati si costituirono alla Camera come gruppo dichiaratamente repubblicano, operando così un netto distacco dai radicali e indebolendone la forza d’urto. Il distacco dal governo Rudinì si accentuò sempre di più, e la morte di Cavallotti pose fine al disegno politico perseguito ostinatamente dal leader radicale di entrare a far parte delle maggioranze governative solo da posizioni di forza, come elemento determinante della situazione politica.

Leader incontrastato della democrazia radicale di quegli anni, Felice Cavallotti fu sempre in prima linea nel tentare riforme che migliorassero la vita democratica. Con Cavallotti il partito Radicale non si ridusse mai ad una pura e semplice combinazione elettorale e parlamentare, ma rimase forza realmente propulsiva. La sua morte il 6 marzo 1898 segnò il definitivo naufragio di un disegno politico perseguito a lungo tra infinite difficoltà. Forse solo il fascino di questo leader aveva permesso alla variegata pattuglia radicale di sopravvivere alla pressione delle forze reazionarie e del giovane avversario socialista mantenendo una linea programmatica lucida e decisa ( su di un giornale socialista si poteva leggere: "con la morte di Cavallotti scompare l’ultimo anello organico che poteva ancora avvicinare il proletariato italiano alla borghesia italiana" ). Gli successe Ettore Sacchi che impersonerà le incertezze politiche-programmatiche del gruppo radicale affiorate col dilagare della reazione di fine secolo e nel primo decennio del novecento.

Frattanto a Rudinì successe Pelloux che con provvedimenti restrittivi provocò un’ alleanza dei partiti dell’Estrema che culminerà nel 1899, in occasione delle amministrative, con la costituzione di "blocchi popolari" spesso vittoriosi. Sacchi ebbe però l’ingenuità di pensare che i radicali potessero diventare la guida dell’Estrema invece dei repubblicani e dei socialisti considerati due partiti più estremisti. Ingenuità che si trasformerà in disorientamento quando molti radicali cominciarono a essere scalzati e sopraffatti dal movimento socialista, come dimostrano già i risultati delle elezioni del 1900 che videro i radicali ottenere 34 deputati, due soli in meno dei socialisti.

Col dilagare della reazione e il nuovo corso della politica italiana, affiorarono tutte le incertezze dei radicali i quali, legati a una vecchia concezione della politica, non furono pronti a recepire i cambiamenti che avrebbero portato alla nascita dei partiti di massa e si piegarono spesso alle offerte giolittiane.

Infatti l’accorta politica di Giolitti con la sua venatura liberale e riformatrice finì per assorbire il grosso dei radicali nella propria maggioranza . Ma i radicali anche quando presero stabile posto nell’area governativa, e parvero rinunciare a un loro indirizzo autonomo e "annegare" nella routine della politica giolittiana, continuarono in realtà a denunciare le clientele sulle quali il governo poggiava nel sud e avanzarono rivendicazioni di politica estera antiaustriaca, di liberismo doganale, di perequazione tributaria. Rimase inoltre un gruppo di radicali in aperto dissenso da Giolitti a causa dello scottante problema di quegli anni del libero scambismo. Essi, che preferirono chiamarsi radico-liberisti quasi a voler evidenziare ciò che li separava dai compagni, rappresentarono una corrente minoritaria desiderosa di un rinnovato partito radicale che si ponesse come fulcro di una trasformazione del Paese in una moderna democrazia industriale e individuato nel nucleo di un grande partito costituzionale e liberale. Fra costoro vale la pena di citare De Viti De Marco che nel 1904 fu il fondatore della Lega Antiprotezionista.

"Alla formazione della Lega precisava lo stesso De Viti avevano concorso due forze autonome decise a combattere un comune nemico, il protezionismo: e queste due forze erano un gruppo di socialisti e un gruppo di radicali" . Nonostante fosse in dissenso dai radicali filo-giolittiani egli non recise mai i legami con il partito radicale convinto che dovesse rinnovarsi proprio sulla lotta liberista. Nel 1913 scrisse: "Molti affermano che sia finito il compito storico e la funzione politica autonoma del radicalismo... Affermo invece, che comincia proprio ora la necessità improrogabile e la opportunità di dare al programma d’azione radicale un nuovo contenuto... con l’aiuto delle masse".

Il leader radico-liberista sentì molto bene il disagio serpeggiante nel suo partito e scrisse: "Era nella coscienza di molti che la partecipazione dei radicali al governo, che aveva avuto carattere di alleanza col Sonnino e anche col Luzzatti, era diventata dedizione col Giolitti..." .

Sempre in tema di problemi dello sviluppo economico e industriale dell’Italia una posizione particolare assunse, nei primi anni del Secolo, un altro radicale indipendente: Francesco Saverio Nitti.

Proprio Nitti scriveva: "L’Italia ha bisogno di un Governo che unisca tutti gli sforzi in un’opera di produzione; di un governo radicale che rompa il quietismo e l’indifferenza. Ha bisogno soprattutto di una democrazia industriale, che comprenda gli elementi più attivi...la trasformazione immensa che ha compiuto il Giappone prova quanto possa l’opera di una minoranza onesta e decisa, se essa, riesca ad avere nelle mani il governo dello Stato. L’attuale movimento sociale della Francia è opera di pochi uomini. Gli elementi più migliori e più attivi della borghesia attendono con ansia un diverso e più largo indirizzo: e questo può essere soltanto l’opera di nuove forze radicali, che riescano ad attirare non solo i conservatori più illuminati, ma anche i socialisti desiderosi di realtà e che hanno già apertamente ripudiato il programma della violenza" . I problemi dello sviluppo industriale quindi dovevano essere al centro del programma di un rinnovato partito radicale che avrebbe dovuto fungere da fulcro della trasformazione del Paese. Ma anche queste ipotesi di lavoro restarono illusorie ovvero rischiarono di essere una vaga immagine del liberalismo. Il processo di industrializzazione, la graduale trasformazione capitalistica del paese e la modernizzazione della società italiana portarono ad una considerevole crescita della piccola e media borghesia. Si formò così nel periodo giolittiano una nuova forza sociale, il cosiddetto "ceto medio emergente", che pur essendo cresciuto non aveva visto crescere la propria partecipazione alla gestione del potere. I nuovi ceti medi erano respinti ai margini della società, estranei dai processi di produzione, oppressi dai gravami fiscali e esclusi dalla "stanza dei bottoni". Nessuna delle forze politiche esistenti era capace a sostenere le loro speranze, le loro ambizioni. Di qui l’insoddisfazione, il disagio e il rifiuto dell’Italia giolittiana di questi ceti, che portò al riemergere e alla lenta diffusione delle idee radical-socialiste. Nel 1904 fu inaugurato un nuovo corso della politica radicale con la trasformazione del movimento radicale in vero e proprio partito nel primo congresso radicale svoltosi a Roma nel maggio e con l’elezione, voluta da Giolitti per calcoli politici, di Marcora alla presidenza della Camera. Questa nomina fu il passo che avviò il Partito Radicale ad assumersi la responsabilità del Governo. Fu proprio nei mesi che precedettero il congresso radicale, che rispuntarono proposte volte a fare del partito una forza innovatrice e orientata verso una politica di stretta alleanza tra i ceti medi e il proletariato, e non contraria ad una fusione con l’ala riformista del Partito Socialista. Nel corso del suddetto congresso radicale del 1904, che segnò la nascita del partito, il funzionario del ministero dei lavori pubblici Meuccio Ruini si fece portavoce di questa tendenza rilevando che il partito dovesse darsi un preciso programma economicosociale. Ruini avvertiva l’esigenza che il partito radicale adeguasse prontamente il proprio bagaglio ideologico e programmatico ad una realtà economica e sociale in continua evoluzione. Egli da un lato combattè l’ingenuo empirismo, i personalismi del partito, cercando di dargli un indirizzo politico riformista nel rispetto della tradizione di Bertani e Cavallotti e dall’altro lato avversò il paternalismo conservatore e ottuso della maggior parte dei dirigenti radicali restii ad affrontare la questione sociale. Questo conservatorismo dirigenziale non fermò Ruini che anzi nella primavera del 1906 fece suo un opuscoletto anonimo intitolato Per un Movimento Radicale-Socialista per rilanciare i suoi ideali. Se la noncuranza fu il tratto dominante e costante dei vertici del partito radicale nei confronti delle idee radico-socialiste, sul piano locale, alla base invece qualcosa si mosse. Esempio di ciò è l’Unione Radicale sociale sorta a Milano nel 1906. Questa associazione che propugnò l’istruzione laica obbligatoria, il suffragio universale, la libertà di pensiero, si fece ideatrice di una rivista: "L’Azione Radicale" di cui però uscirono solo tre numeri. Tra gli uomini più in vista del Partito Radicale che mostrò di gradire le idee radicosocialiste fu l’economista e radicale veneto Giulio Alessio. Questi tra il 1907 e il 1911 fu fautore insieme a Ruini di questa coesione tra radicali e socialisti che considerava un fatto naturale. Alessio sosteneva un’alleggerimento della pressione fiscale e uno smantellamento della barriera protezionistica. Ma nonostante spinte contrarie e innovatrici, il partito gravitava ormai attorno all’area governativa. Nel 1906 i radicali Alessio e Credaro come sottosegretari e Sacchi e Pantano come ministri accettarono l’invito di entrare nel governo Sonnino (8 febbraio29 maggio 1906). Caduto quest’ultimo la partecipazione dei radicali al Governo fu confermata con i governi successivi di Giolitti, Sonnino e Luzzati, ma il partito perdeva rapidamente la propria specificità e il proprio ruolo autonomo perdendosi nella politica giolittiana, anche se, come è stato già detto, i radicali ebbero sempre l’indipendenza di giudizio e seppero sempre esaltare il proprio anticlericalismo. Non era un anticlericalismo di facciata, ma un’intima vocazione, una precisa volontà di separare Stato e chiesa . Volontà che si dimostrò chiaramente nel 1908, quando a una mozione presentata da Bissolati per la completa abolizione dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, i radicali votarono differentemente dalla maggioranza giolittiana. Alla base di questo pervicace anticlericalismo radicale c’erano anche evidenti ispirazioni massoniche . Da molti anni la Massoneria, riorganizzatasi verso la fine del Risorgimento sotto al guida di Lemmi e Nathan (poi sindaco di Roma), si era capillarmente diffusa nelle file dei socialisti, repubblicani e radicali. Nonostante le idee agitate da esponenti come Alessio, con l’approssimarsi della fine dell’età giolittiana si accresce l’ impressione che i radicali fossero sempre più Giolitti-dipendenti; ciò fu evidente in occasione della guerra libica quando essi accettarono passivamente . Tale impressione fu confermata l’anno dopo quando su intenzione di Giolitti di fare una coalizione fra i suoi parlamentari e i radicali, con Luzzatti presidente del consiglio., il segretario politico de radicali, Sacchi, offrì a Giolitti un accordo politico sulla base del programma di riforme giolittiano rinunciando a quelle richieste di politica ecclesiastica che avrebbero turbato lo status quo dei rapporti fra Stato e Chiesa. I radicali, a parte alcune defezioni come Colonna di Cesarò, votarono, come già detto, per il Ministero Luzzatti. nonostante ciò, le idee del radicalismo sociale di Alessio ebbero, nel sempre più variegato mondo radicale, un importante sostenitore: Massimo Fovel che, rifacendosi alla tradizione radicale cavallottiana, raccolse l’eredità politica di Ruini.


Fovel fu fermo nel criticare l’indeterminatezza e l’ambiguità delle mete politiche che si prefiggeva il Partito radicale e considerava il radicalismo italiano un fatto intellettuale da cui non trarre nessuna azione. Scriveva nel 1910: "...Il radicalismo è qui da noi mentre così non è nè in Inghilterra nè in Francia una creatura politica vagamente abnorme...esso è un organismo composito e ancora oggi vi coabitano due anime; e queste non sono poi altro che le due fasi principali della vita per cui è passato da quando i repubblicani lo accusavano di versar molta acqua nel vino della repubblica a quando i socialisti si felicitavano di avere in lui una sentinella avanzata nei posti del potere..." . Ma il radicalismo era per Fovel l’unica soluzione: "...il radicalismo è si, come pretendono i conservatori, una specie di anticamera dove i radicali stan battendo i piedi per la voglia del potere...ma è anche un limbo politico dove convengono quei pochi spiriti pensosi e disinteressati per i quali la politica non è bega di partito ma problema ideale..." . Il radicalismo doveva diventare "il veicolo politico per il soddisfacimento dei bisogni operai": "...educare a uno sguardo più lungo la miopia di qualche interesse corporativo, ingentilire il costume intellettuale e politico del minuto personale dirigente, liberar dalle mille angustie chi per la povertà della vita ancora vi si dibatte...ecco il compito che occuperà la prima ora della fortuna radicale...e verrà poi, se assiste la buona fortuna, il momento di intessere tutto un lavoro di rinnovazione non più indirizzato ai mandatari politici del movimento operaio ma ai lavoratori medesimi..." . Per Fovel i radicali non godevano di "gran credito fra le masse" e doveva conquistarselo "con la sincerità e con l’alacrità dell’opera" . Compito del Partito radicale doveva essere quello di "liberare" i socialisti riformisti dalla loro dottrina e di indurli ad accettare l’etichetta radicosocialista e scendere in mezzo ai lavoratori. Egli polemizzò più volte con i socialisti accusandoli di classismo e di corporativismo di classe "...ai socialisti torna utile andar ripetendo che essi sono il partito dell’avvenire e questo per la semplice ragione che la gente è credula..." , e lodò il fatto che il Partito radicale fosse il solo partito in Italia immune da ogni "contagio di classe", e sostenne che il partito dovesse sforzarsi di diventare partito di governo, ma non al servizio dei liberali e dei ceti dominanti ma in posizione egemonica secondo la vecchia idea cavallottiana. Ma i vertici del partito furono sordi a queste idee. Fovel scriveva il 25 aprile 1913: "i radicali d’Italia attraversano un quarto d’ora infelice...di colpo il radicalismo italiano che già segnava il passi impaziente nella anticamere del governo si trova risospinto, menatovi per il naso e tiratovi per le orecchie, nel limbo della politica. Esso non sa più che fare: si trova sbalestrato e sbigottito...essi si sono messi alle falde di Giolitti...hanno domandato a lui, rincarnato democratico, di metter fuori qualche legge che avesse dal più al meno l’etichetta della democrazia...Il partito radicale è diventato delirantemente giolittiano..." . Per porre rimedio a questa situazione Giolittidipendente, nel 1913 a Bologna si svolse un convegno nazionale dei radicosociali, ossia di quei radicali di sinistra che disapprovavano l’indirizzo politico della direzione centrale e soprattutto del gruppo parlamentare sempre succube di Giolitti. Dal convegno venne fuori l’idea di presentarsi alle elezioni politiche dell’ottobre 1913 con candidature autonome dal partito, idea che non ebbe molto successo (Fovel a Venezia prese poco più di trecento voti) e che suscitò il commento sprezzante dello stesso Giolitti: "...i radicosociali dicono parole bellissime ma hanno pochissime idee e non hanno un programma positivo" . Se i radicali gioirono per la concessione del suffragio universale, il Patto Gentiloni deluse le loro aspettative; l’unione fra giolittiani e clericali suscitò fermenti antigiolittiani all’interno del partito e avvalorò ancora di più le idee radicosociali e quindi un’alleanza fra socialisti e radicali. Nel luglio del 1914 Fovel fece ristampare in un volumetto l’articolo Intorno a una democrazia radicosociale, pubblicato per la prima volta nel 1912 che costituisce il vero caposaldo della concezione radicosociale, il momento sembrava propizio anche perchè il congresso del partito tenutosi a Roma ai primi di febbraio del 1914 aveva deciso per l’uscita dei ministri radicali dal governo Giolitti. Fu l’ultima volta in cui i radicali ebbero un peso decisivo sulle vicende politiche del nostro Paese. Poi irruppe sulla scena il primo conflitto mondiale

3. Il Partito radicale tra la prima guerra mondiale e il fascismo

La prima guerra mondiale arrestò la metamorfosi politica del Partito Radicale. Di fronte a questo evento i radicali si spaccarono, come il resto dei partiti e dell’opinione pubblica, se intervenire o no, e anche se prevalse la linea interventista il partito uscì malconcio da questo angoscioso problema, e molti storici indicano proprio questo momento quale inizio della crisi mortale del partito. Negli anni fra il 1915 e il 1918 si accelerò il processo di emarginazione dei radicali dalla direzione della vita politica. La frattura prodottasi tra neutralisti e interventisti prostrò a tal punto il partito che i radicali non ebbero peso in nessuna decisione importante presa in quegli anni. Gli sconvolgimenti prodotti dalla guerra e la radicalizzazione della lotta politica e sociale misero a nudo l’inclinazione conservatrice della maggior parte della piccola e media borghesia italiana, facendo di conseguenza riaffiorare le ambiguità e le contraddizioni dei radicali. Non a caso, la prima preoccupazione di alcuni deputati radicali dopo la conclusione del conflitto fu quella di ricomporre l’unità interna. Questo intento sembrava essere stato raggiunto nel congresso nazionale svoltosi a Roma l’11 e 12 marzo 1917, ma la disastrosa sconfitta di Caporetto rese impossibile una riappacificazione: molti radicali neutralisti aderirono all’Unione Parlamentare nata con il proposito di difendere il Parlamento, i radicali interventisti invece entrarono a far parte del Fascio parlamentare. Nella seconda metà del 1919 dei 70 deputati radicali che sedevano alla Camera (fra cui Credaro, De Viti De Marco, Sacchi, Ruini) 28 facevano parte del Fascio parlamentare (alcuni lo abbandonarono per formare il gruppo parlamentare denominato "radicale indipendente") e 27 dell’Intesa democratica creata da deputati amici di Giolitti. Le polemiche, le divisioni non solo di schieramento impedirono la definizione da parte del Partito radicale di una linea programmatica chiara. Solamente alla fine del 1919 la direzione centrale radicale tenne la prima riunione dopo la conclusione del conflitto per discutere della riorganizzazione del partito ma l’assoluta carenza di indicazioni e le proposte ricalcanti stancamente i vecchi schemi del radicalismo italiano resero ancora più incerta l’azione parlamentare. Le proposte più lungimiranti furono formulate da De Viti De Marco che mise in risalto la necessità di migliorare e diffondere l’istruzione e di dare pieno riconoscimento alla libertà di organizzazione sindacale e di sciopero, e soprattutto da Meuccio Ruini sfortunato teorizzatore nel primo decennio del secolo del suddetto "Radicalsocialismo". Le idee di Ruini che miravano a trasformare "la democrazia radicale in democrazia del lavoro" rimasero inascoltate. Egli osservò che per avviare la riorganizzazione del partito e farlo uscire dallo stallo politico in cui era entrato allo scoppio della guerra gli uomini del partito dovevano rappresentare non l’acquiescienza a Giolitti ma una proposta concreta ai mali dell’epoca. Per i radicali quindi il problema non era solo di idee e programmi, ma anche di uomini: solo dirigenti credibilmente e pienamente radicali avrebbero ridato slancio al partito. La partecipazione dei radicali al Ministero Orlando formatosi il 18 gennaio 1919 (ne facevano parte 7 radicali, fra cui proprio Ruini come ministro dell’industria, commercio e lavoro) fu considerata una soluzione provvisoria per attuare nel paese i provvedimenti più urgenti. Ma qual’era il programma che doveva rilanciare il radicalismo? Il carattere prettamente sociale, era ben esplicato con la volontà che ogni individuo dovesse avere una occupazione conforme alla sua preparazione e che ogni lavoratore invalido dovesse essere integralmente assistito dallo stato. Inoltre si propugnava la fissazione dei minimi di salario e di un orario massimo della giornata lavorativa, la legislazione del contratto di impiego privato e la costituzione di un demanio nazionale, mediante l’espropriazione dei latifondi a coltura arretrata e la conseguente assegnazione di piccoli lotti, mediante equo canone, ai lavoratori specialmente reduci di guerra. Nel campo politico-amministrativo i radicali chiedevano la riforma del sistema elettorale mediante la rappresentanza proporzionale e il suffragio universale per tutti i cittadini di ambo i sessi che avessero compiuto i ventuno anni, un prestito nazionale per risolvere il problema Mezzogiorno, la riforma e la semplificazione delle pubbliche amministrazioni con un decentramento regionale e la riforma della giustizia.

Nel settore scolastico si rivendicava l’educazione nazionale compito esclusivo dello stato e l’istruzione elementare obbligatoria. In campo internazionale si voleva la costituzione della società delle libere nazioni, il simultaneo disarmo di tutti gli stati e l’applicazione del principio di autodecisione dei popoli. La noncuranza della maggior parte dei deputati radicali verso questo programma di azione immediata uscito da una riunione della direzione centrale fece emergere un’ulteriore debolezza all’interno del partito. A ciò si aggiunse i ripetuti tentativi di ricucire gli strappi fra il gruppo parlamentare e i vertici del partito. La varietà di tendenze e i personalismi che convivevano in precario equilibrio all’interno del partito, sono confermati in maniera significativa dal fatto che negli anni del primo dopoguerra mai i radicali tentarono di creare un proprio organo ufficioso di stampa (come per esempio il quotidiano romano La Vita nell’età giolittiana), anche se alcuni esponenti radicali furono direttori come La Pegna a "L’Epoca" o Pantano a "Il Secolo". A confondere ancora di più la politica si aggiunse la nascita nel 1919 del Partito Popolare che mise viva preoccupazione negli ambienti radicali. Fino agli anni della guerra il partito radicale aveva sempre tenuto un’atteggiamento anticlericale sia per convinzione che per influenze massoniche. Era inviso il dogmatismo della dottrina cattolica, e il fatto che la Chiesa si fosse opposta al processo di unificazione nazionale e non avesse riconosciuto lo stato unitario. Pertanto il partito radicale vedeva in essa una seria minaccia per la libertà di pensiero, per il principio dell’assoluta laicità dello stato, per l’unità nazionale e per il progresso democratico del paese. Pertanto la fondazione di un forte partito cattolico non poteva non gettare allarme tra i radicali, i quali rischiavano di vedersi sottrarre come poi accadde consensi elettorali tra quei ceti medi che sino ad allora avevano costituito il tradizionale serbatoio di voti del radicalismo. Così il partito, pur restando fermo nel suo anticlericalismo, si divise fra coloro che erano per un’intesa politica fra democratici e cattolici e coloro come Murri che erano più diffidenti e attendisti sull’evolversi del mondo cattolico. Ma al di là di queste dispute strategiche, Il 1919 fu un anno in cui all’attenzione politica ci furono tre urgenti questioni: la riforma elettorale, il problema adriatico e la crisi del governo Orlando. Essendo un partito a carattere essenzialmente clientelare, e con una struttura organizzativa assai debole, il Partito Radicale aveva molto da perdere e poco da guadagnare dall’introduzione, per le elezioni politiche, del sistema proporzionale con lo scrutinio di lista. Nonostante i radicali fossero perfettamente coscienti del pericolo, il partito fu nella maggior parte favorevole all’abolizione del vigente sistema maggioritario con collegio uninominale. Un partito che si ispirava ai principii della democrazia non poteva abbandonare i suoi ideali per meri calcoli elettorali e il sistema proporzionale sembrava il solo capace di essere rappresentanza effettiva della volontà nazionale. I radicali sapevano bene che l’auspicata riforma presentasse molte incognite, ma come scrisse il deputato Ciraolo a Nitti il 30 marzo 1919: "Quale liberazione dalle tirannidi comunali!...E quale sfollamento di candidati e di deputati senza stato civile in politica,e senza stato morale in società! Non sarà un regime perfetto, ma è già meglio perchè è diverso. Ed è una valvola di sicurezza all’ardente bisogno collettivo di novità" . Sempre in materia di riforma elettorale i radicali si mostrarono unanimi e decisi nel chiedere l’estensione alle donne, senza alcuna limitazione, dell’elettorato attivo e passivo; non a caso proprio un deputato radicale, Gasparotto, il 29 luglio 1919 presentò alla Camera un progetto di legge in tal senso. Il progetto venne approvato dalla Camera a larga maggioranza il 5 settembre 1919, ma decadde perchè l’impresa fiumana provocò la chiusura della legislatura prima che anche il Senato potesse approvarlo.

Oltre alla politica interna anche la politica estera era al centro dell’attenzione per la definizione dei confini orientali del nostro Paese. Sulla questione adriatica i radicali furono concordi nell’invocare l’unione della città di Fiume all’Italia. A favore dell’annessione c’era il principio di autodecisione dei popoli che doveva essere applicato visto che già prima del termine del conflitto la maggioranza della popolazione fiumana aveva espresso il desiderio di rimanere italiana. Concordi nello scopo, i radicali si divisero sul mezzo. Alcuni come De Viti De Marco erano per la soluzione indicata da Bissolati, di un accordo con gli alleati e con la Jugoslavia, che permettesse l’annessione di Fiume in cambio della rinuncia dell’Italia ai diritti che Il Patto di Londra le riconosceva sulla Dalmazia peraltro a maggioranza slava.

Altri più risoluti, viste le gravi perdite italiane e l’aggressività Jugoslava, erano per l’annessione ma senza la rinuncia a nessuno dei compensi previsti dal Patto di Londra. Sebbene la maggior parte dei radicali fosse per la prima soluzione il sostegno dato del Partito radicale fu molto blando, tant’è che rimasero solo i socialriformisti a difendere questa tesi: la paura di provocare all’interno del partito nuovi strappi come quello della prima guerra tra interventisti e neutralisti indussero a una certa prudenza.

Lo svolgimento deludente delle trattative di pace a Parigi , ebbe un’importanza determinante nella caduta del Ministero Orlando alla quale contribuì anche l’opposizione radicale. Buona parte del gruppo parlamentare lavorò per favorire nell’incarico Nitti, neutralista convinto, nonostante fosse inviso ai radicali che erano stati interventisti. Nitti formò il primo Gabinetto il 23 giugno 1919 includendo 7 deputati radicali, 2 come ministri (Pantano ai lavori pubblici e De Vito ai trasporti) e 5 come sottosegretari (fra cui Ruini all’industria).

Lo stato di salute sempre precario del Partito Radicale fu al centro del convegno nazionale a fine luglio del 1919. Qui Murri fece una diagnosi del partito affermando che la crisi era soprattutto organizzativa, visto che i deputati radicali si erano serviti troppo spesso della propria autonomia "contro il partito", e non "nel partito" . Murri cercò di far riformare lo statuto del partito, limitando la pressochè illimitata autonomia del gruppo parlamentare rispetto alla direzione centrale, imponendo che in caso di crisi di governo, il gruppo non permettesse a suoi uomini di entrare a far parte del nuovo ministero senza che prima una commissione non avesse stabilito le basi programmatiche dell’accordo.

L’entrata in vigore il 2 settembre 1919 della auspicata legge elettorale pose sul terreno politico problemi nuovi. Nel partito era diffusa la convinzione che il nuovi sistema elettorale favorisse i grandi partiti di massa come i socialisti e i popolari, e che perciò fossero necessari accordi di lista con social-riformisti e liberali. Ma la possibilità per il Partito Radicale di definire una tattica unitaria per le elezioni politiche fu preclusa dalle ripercussioni della firma, il 10 settembre 1919, del trattato di pace italo-austriaco, che, non riconoscendo Fiume all’Italia, spinse, due giorni più tardi, D’Annunzio a occupare la città adriatica. Ciò rese più aspra la contestazione di molti radicali nei confronti di Nitti che portò allo scioglimento della legislatura il 29 settembre 1919. I personalismi, le discordie e i giochi clientelari emersi tra le fila radicali nel corso della campagna elettorale per le elezioni indette il 16 novembre, dimostrarono ancora una volta la grandissima difficoltà di fare del Partito Radicale un partito ben organizzato. Per queste ragioni cinque giorni prima delle elezioni Murri, deluso e sfiduciato si dimise dalla direzione centrale del partito. Il 16 novembre 1919, dopo anni di continua ascesa, il numero degli eletti appartenenti al partito radicale subì una flessione. Infatti, il calo dei deputati dai settanta della precedente legislatura ai sessantatre fu dovuto a cause molteplici. Innanzitutto, l’introduzione del sistema proporzionale con lo scrutinio di lista, non poteva favorire, come era già stato preventivato, un partito di natura prevalentemente clientelare e con un assetto organizzativo fragile e poco articolato come il Partito Radicale. In secondo luogo la frattura prodottasi all’interno del gruppo parlamentare sconcertò notevolmente gli elettori. In terzo luogo, il fatto che la maggioranza del partito si era schierata a favore dell’intervento in guerra aveva fatto assumere al partito stesso la corresponsabilità di quest’evento. Infine, il fatto che, la direzione centrale e la maggior parte dei deputati avevano sempre sperato in una tendenza radico-socialista e quindi avevano evitato di scendere sul terreno della lotta aperta contro il Partito Socialista, spinse in altre direzioni gli elettori che consideravano il Socialismo il nemico principale. Nonostante tutto il gruppo radicale rappresentava pur sempre il quarto gruppo per consistenza numerica, dopo i socialisti, i popolari e la sinistra liberale. Per quanto concerne gli eletti, l’aspetto più importante dei risultati fu costituito dalla trasformazione del gruppo parlamentare da prevalentemente settentrionale a prevalentemente meridionale. Siccome gli iscritti al gruppo radicale provenivano in larga prevalenza dal sud fu inevitabile che il partito finisse col risultare ancora più di prima "l’espressione politica di una di quelle democrazie agricole sostanzialmente precapitalistiche". A questi parlamentari eletti nel Mezzogiorno, a causa della struttura economica e sociale arretrata dell’Italia meridionale, erano per lo più "estranei i processi della economia moderna". Questa particolarità, insieme al radicalizzarsi dello scontro di classe nel paese, ci spiega la ragione della sostanziale incomprensione dei contenuti del socialismo dimostrata molto spesso dai radicali e il motivo delle loro posizioni molto spesso conservatrici. Nonostante ciò, alla prima riunione del gruppo radicale, parecchi deputati non mancarono di sottolineare la necessità di avviare trattative con i social-riformisti del gruppo socialista allo scopo di costituire un blocco democratico. L’altro grande tema che il partito dovette affrontare fu quello della sua ristrutturazione che si risolse con la direzione politica impressa dal solo gruppo parlamentare. Questo fatto, unito alla sua struttura organizzativa antiquata, verticistica e clientelare ne fece un partito sempre più avulso della realtà sociale italiana. Riguardo all’intesa con i social-riformisti, proprio quando l’intesa sembrava prossima alla conclusione, il gruppo socialista decise, contrariamente alle promesse fatte ai radicali, di votare contro la richiesta di proroga dell’esercizio provvisorio avanzata dal Governo, facendo così morire sul nascere le prospettive d’intesa. Il fallimento del tentativo di formare un patto di unità d’azione fra i gruppi parlamentari della sinistra democratica rappresentò una cocente sconfitta per il gruppo radicale che assunse posizioni sempre più ondivaghe come nel caso del comportamento tenuto nei riguardi del Gabinetto Nitti. Infatti queste incertezze furono evidenti sia nel secondo che nel terzo Ministero Nitti. Le perplessità degli ambienti radicali, tenute a bada durante il terzo Gabinetto, costituitosi il 22 maggio 1920, di cui fecero parte sette parlamentari radicali, si trasformarono in aperte opposizioni, a causa dei sanguinosi incidenti avvenuti a Roma il 24 maggio 1920, quando un corteo di studenti nazionalisti si scontrò con le guardie regie. Questi avvenimenti suscitarono una violenta campagna anti-nittiana, in cui ebbero la loro parte anche i radicali. I deputati discussero della situazione politica che si era ulteriormente aggravata per l’ondata di proteste contro il decreto legge che aveva aumentato il prezzo politico del pane. Le discussioni portarono alla decisione dei radicali di passare all’opposizione, causando così le dimissioni di Nitti. Quando Giolitti formò il suo quarto Gabinetto, il 6 giugno 1920, i deputati radicali gli garantirono l’appoggio, tant’è che al suo Ministero parteciparono tre ministri e quattro sottosegretari. L’indirizzo assunto dai deputati radicali fu di cauto riformismo: le illusioni di poter giungere in tempi brevi ad un’accordo politico con le forze operaie erano state abbandonate dai deputati radicali. Ciò è testimoniato in una lettera che il radicale La Pegna scrisse a Nitti il 7 settembre 1920 mentre era in atto la cosiddetta occupazione delle fabbriche: "Noi non rifiutiamo a priori anche la gestione diretta dell’officina e della cultura della terra, ma per la nostra stessa visione di concrete realizzazioni dobbiamo camminare conseguentemente senza salti e senza sbalzi... dobbiamo perciò volere una graduale e lenta conquista ed opporci a quegli esperimenti frettolosi ..." .

L’avvicinarsi delle elezioni amministrative generali pose ai radicali anche un’altro problema: quello del sistema elettorale con cui far svolgere le elezioni. Come si è visto la maggioranza dei radicali nel 1919 era stata favorevole all’introduzione del criterio proporzionale. Ma l’esito di quella prova elettorale, largamente favorevole ai due grandi partiti di massa, aveva convinto i radicali ad apportare qualche correttivo. Il 5 agosto 1920 il gruppo parlamentare radicale approvò un ordine del giorno di Ruini in cui pur accettando il principio proporzionale, si esprimeva l’avviso che convenisse convocare subito i comizi elettorali in tutti i comuni secondo la vecchia legge elettorale, e, quindi, con il sistema maggioritario, e rinviare a dopo le elezioni ogni proposito di riforma elettorale. In più c’è da dire che il criterio maggioritario, premiando in genere i vincoli clientelari, poteva favorire i candidati di un partito, come quello radicale, fondato essenzialmente sulle clientele. Nel settembre di quell’anno il nuovo segretario politico del Partito Radicale, Bandini, inviò una circolare a tutte le sezioni contenente le indicazioni programmatiche per le amministrative. In prima linea c’era la necessità di riformare i comuni e le province dandogli autonomia finanziaria e la revisione organica ed istituzionale degli enti locali, a cominciare dalla formazione di enti regionali con funzioni autonome. Inoltre il programma prevedeva 10 capisaldi :

1) Politica in difesa dei consumatori favorendo la nascita di cooperative di consumo.
2) Politica edilizia elevata a vero servizio comunale, istituendo un apposito "ufficio delle abitazioni", incaricato di vigilare in modo assiduo sul loro mercato e di disporre misure per l’igiene e le migliorie.
3) Politica di razionale sviluppo di tutti i servizi pubblici.
4) Politica di opere pubbliche.
5) Politica di propulsione e incoraggiamento per la valorizzazione delle risorse speciali del luogo.
6) Politica del lavoro creando dei Consigli locali del lavoro.
7) Politica di istruzione, creando una "scuola del lavoro" comunale per migliorare la capacità tecnica degli operai.
8) Politica sanitaria di assistenza rendendo possibile l’attuazione di un sistema completo di amministrazioni sociali.
9) Criteri rigidi di buona amministrazione.
10) Tutela degli interessi generali lottando per la purificazione delle amministrazioni dalle clientele.

Tra la metà di settembre e la metà di novembre del 1920 si tennero con il sistema maggioritario le amministrative generali. I candidati radicali che si erano presentati solo in liste di coalizione dal carattere spiccatamente antisocialista, subirono un arretramento a confronto delle elezioni amministrative della primavera del 1914. Intanto importanti cambiamenti avvennero al vertice del partito con la nomina di Ernesto Pietriboni come nuovo segretario, che si mostrò intenzionato a proseguire la linea di creazione di una solida alleanza fra i partiti democratici.

Ancora prima che la lotta elettorale per le amministrative entrasse nel vivo, si era tenuto a Torino il 26 e 27 settembre, un convegno nazionale radicale in cui il predecessore di Pietriboni, il segretario Bandini, aveva notato che un accordo totale con il Partito socialista era divenuto impossibile, dato che esso aveva assunto un carattere spiccatamente bolscevico. Ma oltre alle tattiche politiche, il convegno si era occupato principalmente dei problemi sociali del momento .

Dal dibattito scaturì l’invito al gruppo parlamentare radicale a presentare immediate e concrete proposte. Così nel novembre di quell’anno il gruppo parlamentare radicale approvò, oltre ad alcuni emendamenti ai progetti di legge governativi sulla riforma agraria, sul consiglio nazionale del lavoro e sulla cooperazione, lo schema di cinque disegni di legge (sulla produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, sulla scuola del lavoro e il tirocinio professionale, sui demani, le costruzioni edilizie e le case popolari, sulla produzione e la distribuzione dei fertilizzanti, e sul completamento degli acquedotti comunali) elaborati dalla commissione economico-sociale del gruppo. A causa dello scioglimento anticipato della Camera i deputati radicali riuscirono a presentare tra i primi di dicembre del 1920 e gli inizi di marzo del 1921, solo i primi tre di questi progetti di legge. Nel novembre alcuni deputati radicali avevano presentato alla Camera un ordine del giorno in cui invitavano il governo a risolvere il problema burocratico attuando il decentramento amministrativo e ovviando alle attuali stridenti sperequazioni di carriera, di stipendi e di orari. In aggiunta a ciò i rappresentanti radicali in seno alla giunta generale del bilancio della Camera presentarono e fecero approvare dalla giunta stessa tre ordini del giorno nei quali si chiedeva al governo di porre rimedio al grave disavanzo finanziario dello stato, abolendo il prezzo politico del pane, innalzando l’imposta sul vino e tassando maggiormente le rendite fondiarie. L’impegno dimostrato nell’autunno-inverno del 1920-21 del gruppo radicale nel formulare proposte tese a risolvere alcuni dei più urgenti problemi economici, sociali e amministrativi era alquanto inusuale ma aveva una spiegazione. I ripetuti scioperi, l’occupazione delle fabbriche, i disagi economici, le prime gravi violenze perpetrate dalle squadre fasciste, l’inconcludenza dei leader democratici avevano generato smarrimento, preoccupazione e sconcerto nei ceti medi. Pertanto per i deputati radicali occorreva far di tutto perché la piccola e media borghesia continuasse a riconoscersi dei partiti intermedi e in particolar modo nel Partito Radicale. Ciò è evidente dalla lettera inviata a Nitti il 2 novembre 1920 dal senatore radicale Ciraolo che ha un senso premonitore: "Le classi medie hanno bisogno di essere dirette, sorrette. Se persevera in esse lo scoramento... finiranno per buttarsi in braccio ai nazionalfascisti..." .

La partecipazione dei radicali alle elezioni politiche del maggio 1921 risultò molto meno diversificate rispetto alla consultazione elettorale del novembre 1919. Non venne presentata nessuna lista autonoma e non furono molti i collegi in cui i radicali comparivano in più liste. Inoltre nell’Italia centrale e settentrionale i radicali si presentarono (nonostante qualche piccolo dissenso come l’Associazione radicale romana che preferì non designare propri candidati) per lo più solo nei cosiddetti "blocchi nazionali", cioè in quei blocchi borghesi, ideati da Giolitti in funzione antisocialista, comprendenti anche liberali, social-riformisti, nazionalisti e fascisti. Il fatto che a fianco di questi ultimi ci fossero i radicali non deve stupire. Anche la maggior parte dei radicali, come la maggioranza della classe dirigente liberale, mostrò di non saper comprendere la vera indole del fascismo; i deputati e i dirigenti radicali consideravano il movimento fascista semplicemente una forza da usare come strumento per debellare il "pericolo bolscevico", ovvero per contrastare le punte estreme del socialismo che turbavano la vita delle istituzioni con continui scioperi. Una volta che il fascismo avesse assolto con successo questo compito, per i radicali non sarebbe stato difficile "normalizzarlo" e integrarlo nello stato liberale. E l’inserimento di candidati fascisti nei "blocchi nazionali" rappresentò proprio il primo passo dell’illusoria costituzionalizzazione del movimento mussoliniano.

Di grande indulgenza verso il fascismo e le sue violenze dette prova persino il ministro della giustizia, il radicale Fera, che alla fine del 1920 chiamò a Roma tutti i procuratori generali e raccomandò loro di ignorare i reati commessi dai fascisti quando commettevano reati a fini nazionali. D’altronde ciò che pensava Fera del fascismo si deduce da un discorso pronunciato all’immediata vigilia delle elezioni nel quale egli ascrisse a merito del movimento fascista di aver imposto "il rispetto dei simboli nazionali contro gli impeti rivoluzionari..." .

I pochi radicali che alle elezioni del 15 maggio 1921 parteciparono a liste di opposizione furono ostacolati nella loro campagna elettorale dalla pressione dei prefetti manovrati da Giolitti. Uomini come La Pegna candidato nel collegio di Siena-Arezzo-Grosseto o Cutrufelli, candidato nel collegio Catania-Messina-Siracusa, furono ostacolati. Lo stesso Cutrufelli scriveva a Nitti il 25 aprile di quell’anno: "Il governo mi combatte aspramente... la libertà non esiste più. La mia casa è piantonata dalle guardie regie. Rispondo con dentate, ma troppe armi sono puntate contro di me" . Il senatore Ciraolo scrivendo sempre a Nitti il 30 aprile 1921 rilevava indignato: "le elezioni si fanno in mezzo a spettacoli di anarchia... con la persecuzione ai migliori perchè non ministeriali, e la protezione ai maggiori perché ministeriali..." .

Il tema prevalente nella campagna elettorale di buona parte dei candidati radicali fu, oltre all’esigenza di frenare l’ascesa dei socialisti, quello della necessità della pacificazione generale e di un rapido ristabilimento dell’ordine e della disciplina. Tutto questo significava essere grati ai fascisti nella loro opera di baluardo contro il pericolo proletario, e usare quindi la massima energia e severità contro i socialisti e i comunisti che cercavano di sovvertire l’ordine. La consultazione elettorale del 15 maggio 1921 fece registrare una nuova grave sconfitta per il partito radicale, i cui deputati calarono da 57 a 48. Di essi 10 erano stati eletti nei "blocchi nazionali". Le cause di questo smacco elettorale che rappresentano anche le cause principali del rapido declino del partito dopo la guerra erano svariate. Prima di tutto occorre evidenziare la incapacità di tanti deputati e dirigenti radicali di cogliere il mutato clima politico del dopoguerra e l’impronta nuova impressa alla vita politica del Paese dal partito Socialista e dal partito Popolare, che, con la loro organizzazione di massa avevano reso i legami di natura clientelare e le intese di tipo trasformistico strumenti elettorali del tutto superati. In secondo luogo, l’assetto organizzativo instabile del Partito non aveva reso possibile far sentire in modo costante la propria presenza nella vita politica locale. In terzo luogo, il partito subiva le conseguenze della crescente inquietudine dei ceti medi, i quali, dinnanzi all’inasprirsi dello scontro di classe, mostravano sempre più di considerare il partito Radicale una forza politica non sufficientemente risoluta, capace di appagare le loro attese. In quarto luogo, il partito pagava la mancanza di quella che La Pegna ha definito "la figura riassuntiva e dominatrice" , ossia del capo indiscusso capace di tenere a freno le diverse tendenze che convivevano nel partito. Infine, i continui contrasti interni tra neutralisti e interventisti non permisero mai al partito e al gruppo parlamentare di seguire un indirizzo politico uniforme. Tra i radicali la delusione fu grande, come dimostra il fatto che dopo poco giorni le elezioni il radicale Cevelotto si affrettò a far presente l’esigenza di modificare la legge elettorale proporzionale, tornando al precedente maggioritario.

Terminate le elezioni, i deputati iscritti al partito radicale si trovarono di nuovo di fronte all’alternativa se ricostituire il gruppo parlamentare radicale o dar vita a un gruppo democratico più ampio. Il fondato timore che il gruppo radicale con 48 unità recitasse una parte marginale, li fece propendere per la seconda soluzione. In più, il fatto che nel marzo del 1921, all’immediata vigilia, quindi, dello scioglimento della Camera, si fosse giunti ad un passo dalla costituzione di un nuovo gruppo parlamentare di ispirazione democratica sembrava dimostrare che esistevano finalmente le condizioni per una fusione di una parte almeno delle forze parlamentari della democrazia. La creazione di questo nuovo gruppo, che avrebbe dovuto chiamarsi "Democratico-sociale", era stata promossa sin dall’agosto del 1920 dai deputati Aurelio Drago e Colonna Di Cesarò. Secondo loro il gruppo democraticosociale avrebbe dovuto riunire i rinnovatori, quei deputati radicali, e socialriformisti che avversavano tanto Giolitti quando Nitti. La chiusura anticipata della legislatura rese però vani gli sforzi di Drago e Colonna Di Cesarò. Il loro disegno, fu ripreso dal deputato rinnovatore, ex radicale, Gasparotto, che ai primi di giugno del 1921 allacciò rapporti con i deputati del Rinnovamento nazionale, (cioè i deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti), con alcuni radicali, social-riformisti e democratici-liberali (sinistra liberale), proponendo a loro di formare un unico grande gruppo democratico capace di fronteggiare i gruppi popolare e socialista. Il 12 giugno le delegazioni dei deputati radicali e di quelli del Rinnovamento nazionale, decisero di costituire un nuovo gruppo parlamentare a cui fu dato il nome di "Democrazia Sociale". A questo gruppo aderirono 65 deputati, formando così il quarto gruppo della Camera per consistenza numerica dopo i socialisti, i popolari e i democratici liberali. Il carattere e i fini del gruppo demo-sociale (che dopo pochi giorni fu costituito anche al Senato) furono illustrati in una serie di interviste: Gasparotto spiegò che con il nome Democrazia sociale si era voluto inserire "un giovane germoglio sul vecchio tronco della vita democratica", conferendo "un contenuto economico preciso all’indirizzo prevalentemente politico" che la democrazia aveva seguito fino ad allora. In altri termini il nuovo raggruppamento si prefiggeva di temperare l’individualismo, proprio della dottrina liberale, con la integrazione delle funzioni statali e con la organizzazione collettiva delle attività individuali. L’accoglienza riservata dalla stampa più vicina al partito Radicale alla formazione del gruppo parlamentare demo-sociale fu tutt’altro che uniforme.

"L’Epoca", ad esempio, mostrò piena soddisfazione e si augurò che fossero messe da parte le piccole ambizioni singole per dar luogo a una sola compagine democratica disciplinata. Per La Sera, invece, la costituzione del gruppo democratico sociale non poteva non lasciare profondamente delusi, perché era necessario un rinnovamento di uomini e di metodi.

Nella caduta di Giolitti i demo-sociali ebbero un ruolo fondamentale e la loro partecipazione al successivo gabinetto Bonomi fu subordinata all’accettazione di punti programmatici fra i quali la riforma dell’amministrazione sulla base del decentramento e l’applicazione globale delle assicurazioni sociali. Del governo Bonomi fecero parte sette demo-sociali: 3 ministri (Girardini alle colonie, Gasparotto alla guerra, Giuffrida alle poste e telegrafi) e 4 sottosegretari (Sanna Randaccio alla giustizia, Albanese alle finanze, Rossini all’assistenza militare e Sipari alla marina). La maggioranza dei deputati demo-sociali considerava improbabile l’idea di Ruini, di formare un grande partito di centro che raccogliesse tutte le forze della democrazia. Il direttorio del gruppo demosociale viceversa preferì adoperarsi per costituire un partito meno esteso e più omogeneo, mettendo insieme le associazioni radicali e le organizzazioni legate al movimento degli ex combattenti. I deputati demo-sociali intenti a gettare le basi del partito di sinistra democratica, trascurarono le questioni politiche più concrete, visto che tra la fine della primavera e la fine dell’autunno del 1921, proposte di un certo interesse volte a risolvere i problemi più impellenti vennero formulate soprattutto da esponenti che non sedevano alla Camera come Bruccoleri che fra le proposte si pronunciò in favore dell’istituzione della giornata lavorativa di otto ore.

La ricerca dei demo-sociali di allargare il raggio parlamentare del blocco democratico si concretizzò il 25 novembre 1921 quando avvenne la fusione tra i gruppi parlamentari demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico che divenne così il gruppo più numeroso della Camera (150 deputati) e al Senato (155 deputati). La fusione fu approvata dalla maggioranza dei demo-sociali ma col passare delle settimane la minoranza insoddisfatta accrebbe sempre di più: il gruppo unico democratico non aveva sortito gli effetti sperati di una sostanziale modificazione della situazione parlamentare. Nel gennaio del 1922 fu costituito il "Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale": fra i componenti di questo organo guida del gruppo democratico c’erano anche 5 rappresentanti della direzione centrale radicale che con questo gesto sancirono la fine ufficiale del Partito Radicale e la sua confluenza nel movimento democratico sociale.

Dopo la caduta di Bonomi, i demo-sociali furono presenti nella compagine governativa di Facta con 2 ministeri (De Vito alla marina e Colonna di Cesarò alle poste e telegrafi). Gli attriti all’interno del gruppo democratico erano sempre più frequenti per le difficoltà di darsi un preciso orientamento politico. A dare il colpo di grazia al gruppo parlamentare democratico fu la volontà di molti deputati demo-sociali di andare per la propria strada dando vita al partito democratico sociale. Il Congresso nazionale della Democrazia sociale e radicale svoltosi a Roma nell’aprile del 1922 sancì la nascita del partito della Democrazia Sociale, dando quindi forma al movimento organizzativo iniziato anni prima sui resti del vecchio radicalismo. L’intento era quello di creare un partito atto a soddisfare le esigenze postbelliche della popolazione, soprattutto nel campo lavorativo, ma a parte i buoni propositi di "diritto alla proprietà intangibile" e "il lavoro come principale coefficiente di consistenza nazionale", il programma era troppo vago. Chiaro fu invece sin dall’inizio l’orientamento anti-giolittiano e anti-nittiano della Democrazia Sociale. Ciò indusse la maggior parte ex dirigenti e degli ex deputati radicali legati politicamente a Giolitti o a Nitti a non aderire al nuovo partito, causando importanti ripercussioni sulla consistenza numerica (45 deputati contro i 61 del precedente gruppo demo-sociale) del nuovo gruppo parlamentare democratico sociale costituitosi il 3 giugno 1922. Al pari del Partito Radicale, anche la Democrazia Sociale fu un partito essenzialmente clientelare e legato attraverso moltissimi deputati alla Massoneria. Inoltre analogamente al Partito Radicale, la Democrazia Sociale non riuscì a darsi per difficoltà finanziarie un organo ufficiale di stampa eccetto l’unico numero di un bollettino mensile chiamato La "Democrazia Sociale" (15 febbraio 1923).

Insoddisfatti di Facta i demo-sociali si impegnarono perché fosse dato l’incarico a Orlando, ritenuto più idoneo, ma la costituzione del secondo Gabinetto Facta, il 1 agosto 1922, in cui ottennero 2 ministeri e due sottosegretari, rappresentò per i demo-sociali una sconfitta politica. Il comportamento ambiguo tenuto dai deputati demo-sociali nel corso delle trattative per la formazione del suddetto ministero suscitò molte critiche provenienti dalla base. E tali critiche oltre a nuocere alla credibilità del nuovo partito ne incrinarono la compattezza, mettendo allo scoperto la scarsa relazione tra i desideri e gli orientamenti della base democratica sociale e le scelte compiute dal gruppo parlamentare perso in giochi di potere, che, del resto era già stata una della caratteristiche costanti del Partito Radicale e una delle cause del suo declino. Nonostante ciò i deputati demo-sociali continuarono nella loro linea politica rigidamente conservatrice, tant’è vero che il 31 ottobre del 1922 quattro deputati entrarono nel Gabinetto Mussolini (Carnazza ai lavori pubblici, Colonna di Cesarò alle poste, Lissia sottosegretario alle finanze e Bonardi alla guerra) avanzando in cambio richieste generiche. Numerosi parlamentari e dirigenti demo-sociali, infatti, furono attratti dal movimento fascista, di cui non seppero coglierne la matrice eversiva. Il fatto è che sui demo-sociali si ripercuoteva in modo diretto la profonda crisi d’identità dei ceti medi italiani, combattuti fra la confusa, ma crescente aspirazione a un radicale rinnovamento politico del paese, che, facendo tabula rasa dei vecchi gruppi dirigenti, permettesse loro di inserirsi in posizione di preminenza nei meccanismi di potere dello stato, e la non sopita preoccupazione per il diffondersi del socialismo. Ma anche quei demo-sociali che deplorarono gli eccessi del fascismo (Sacchi, Fera...) dimostrarono grave miopia politica dichiarandosi favorevoli a un compromesso con esso. All’interno del gruppo democratico sociale l’unico che si mostrò contrario alla partecipazione al Gabinetto Mussolini fu Labriola che si dimise dal gruppo. Ma non fu il solo: forte e deciso fu il dissenso dei demo-sociali veneti. Il Veneto infatti era una delle regioni dove l’organizzazione demo-sociale era più sviluppata (basti dire che la sezione di Venezia aveva un organo ufficioso di stampa, Il Popolo, Giornale del Lunedì) non avendo però, rispetto alle regioni meridionali, un adeguato riscontro elettorale. I demo-sociali veneti, quindi, a differenza di quelli del Mezzogiorno, non avendo interessi clientelari da difendere, si opposero nella stragrande maggioranza al fascismo: "...la vittoria fascista ha sgretolato la costituzione e fatto crollare l’autorità dello stato...".

Dopo la costituzione del governo, la politica seguita da Mussolini nei riguardi della Democrazia Sociale fu quella "di rendere via via più difficili e di recidere alla fine i suoi legami con l’elettorato..." . Ai più o meno velati tentativi di Mussolini di limitare quanto più possibile l’autonomia della Democrazia Sociale, il partito reagì opponendo una tenace resistenza, ben sapendo che in gioco c’era la sua stessa sopravvivenza. Non a caso tra le condizioni per entrare nel governo presieduto da Mussolini i demo-sociali avevano messo quella del rispetto alle posizioni e all’attività della Democrazia Sociale. In realtà tutti gli sforzi dei demo-sociali di ottenere il riconoscimento dell’autonomia del partito e della sua parità di rango rispetto al Partito Nazionale Fascista, fallirono miseramente, poiché erano basati su un grossolano errore: quello di considerare il fascismo come una normale forza organizzata della vita politica italiana, con la quale trattare da partito a partito. Così non fu. La Democrazia Sociale si accorse della vera natura del Fascismo passando all’opposizione nel giugno del 1924, data fatidica dell’assassinio di Matteotti.

Qualche fermento di opposizione interessante si ebbe attorno al 1925 con il volume "Democrazia Sociale" del radicale Massimo Fovel, contenente un’aspra requisitoria e autocritica delle responsabilità del proprio partito e un richiamo energico alla tradizione cavallottiana: "La causa prima commentava per cui le formazioni democratiche si sono così rapidamente disperse sotto la pressione fascista, dipende dal fatto che esse mancano di una loro propria materia di ceti e di classi che ne siano la base particolare... il radicalismo sarebbe dovuto essere sociale... tocca oggi a una rinnovata democrazia risollevare, contro il fascismo, il profilo dello Stato moderno e civile". Anche l’Unione Nazionale delle forze liberali e democratiche promossa e diretta da Giovanni Amendola nel novembre 1924, embrione di un nuovo partito subito dissoltosi, rispondeva a questo intento disperato di salvare il patrimonio radicale. Già nel 1923 scrisse a Turati: "Si tratterebbe di vedere se si possa delineare una grande sinistra che si contrapponga all’attualità fascista". Questi furono le ultime voci del radicalismo italiano prima che il Fascismo spazzasse via ogni illusione: "Possiamo rallegrarci tra noi di aver tenacemente preferito la causa dei vinti a quella che avrebbe perduto le nostre anime. ... Basta sapere che tutto si muove per essere certi che un giorno la causa dei vinti sarà la causa dei vincitori. I figli ed i nipoti benediranno la memoria di coloro che non disperarono e che nel folto della notte più buia testimoniarono per l’esistenza del sole." . Restarono varie soluzioni radicali proposte da Salvemini, da Gobetti, da Carlo Rosselli, fino al Partito d’Azione della clandestinità. Fra le formazioni minori di brevissima vita, eredi del radicalismo italiano vanno annoverate il Partito Liberale Radicale e il Partito Radicale economico italiano , ma soprattutto la "Democrazia del Lavoro" (1944-46) di Bonomi e Ruini: "...un partito, la Democrazia del lavoro, con qualche venatura massonica e lontane ascendenze vetero-radicali... quella miniatura di partito radicale, piuttosto erede delle clientele meridionali che non di una vera impostazione politica, si è dissolta intorno al 1948" .


Per concludere, le vicende della democrazia radicale negli anni dopo la prima guerra mondiale rappresentano una prova eloquente della profonda crisi che investì la vecchia classe politica italiana. Né i dirigenti radicali, né dopo di loro i dirigenti demo-sociali furono in grado di cogliere la portata dei mutamenti economici, sociali e politici che la guerra aveva prodotto nel Paese. Comportamenti e linee politiche ambigue e vuote portarono alla fine del radicalismo. Incapaci di rinnovarsi e di guardare al di là dei conti elettorali essi continuarono ad agire politicamente con metodi superati. In verità non mancarono esponenti della sinistra del Partito Radicale come Ruini, La Pegna... che proposero idee coraggiose di matrice progressista, ma furono incomprese dal generale conservatorismo del partito. Momentaneamente scomparso dalla scena politica nel periodo buio del Fascismo e della guerra mondiale, il radicalismo verrà di nuovo alla luce negli anni Cinquanta grazie all’ostinazione di Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Niccolò Carandini e altri, tutti illustri esponenti della sinistra del Partito Liberale desiderosi di recuperare e rilanciare le idee radicali.