Chi è nato dopo che questo partito è stato fondato (esattamente dieci anni nel mio caso), ne immagina i primi passi collocandoli in quell'epoca tra il dopoguerra e il boom economico con gli strumenti di cui dispone, primo tra i quali il cinema italiano che viveva allora una florida stagione. Pellicole in bianco e nero ma dalle tonalità di grigio più chiare dell'ombroso noir francese perché girati nella soleggiata Roma, tra Lambrette e Seicento, raccontando, tra gli altri, di giovanotti borghesi dal capello inumidito all'indietro, occhiali dalla montatura spessa e il caratteristico taglio della giacca di moda all'epoca, che non saprei descrivere per difetto di vocabolario sartoriale.

Il 27 marzo del 1957 uno di questi gentiluomini scese dal filobus in piazza Tirana e, dirigendosi affannosamente verso il bar dove aveva un importante appuntamento, quasi si scontrò con una carrozzina spinta da una bàlia e contenente un moccioso pieno di nei, futuro sindaco della capitale. Per associazione di idee Bandinelli ricordò che quel giorno, un miglio più a nord in linea d'aria, aveva luogo un avvenimento storico: proprio in Campidoglio erano riuniti i capi di stato e di governo di sei Paesi per istituire le Comunità economiche europee in quello che sarebbe diventato noto come il Trattato di Roma.

Nell'evocare nella sua mente l'importante evento internazionale, che avveniva con le emozioni ancora infiammate dalla rivolta popolare ungherese, gli batteva forte il cuore nel sentirsi uomo protagonista del suo tempo grazie al documento sulla federazione balcanica che aveva redatto in interminabili notti insonni e che ora avrebbe finalmente presentato agli amici coi quali aveva appuntamento nel locale davanti al monumento a Skanderbeg: quel Giacinto Pannella che sul nostro pianeta aveva preso il nome di Marco ed il terzo giovane compagno di avventure col quale avrebbe condiviso il resto della sua vita politica, l'imprenditore emiliano Sergio Augusto Stanzani Ghedini, reduce dal terzo Consiglio nazionale del Partito radicale dei democratici e dei liberali italiani, dal quale aveva ricevuto il mandato di redigerne una bozza di statuto.

"Va bene!", disse Stanzani dopo avere letto il documento di Bandinelli, ma Pannella non sembrava troppo convinto. "È prematuro" sentenziò sorprendentemente l'alieno scuotendo il testone, e per dimostrarlo prese per mano i due amici, chiuse gli occhi invitandoli a fare altrettanto e in pochi secondi li condusse con un salto spazio-temporale nella Tirana di 45 anni dopo.

- Ringasio Anjolo Bandineli per il suo pipone su la federasione balcanica e a questo propò invito Capatto a dare letura del documento di Michel Boselì

Bandinelli riaprì gli occhi e nell’ambientarsi credette di riconoscere Pannella circondato da una trentina di persone in una sala dell'albergo Skanderbeg. Ma no, non era Pannella: lo sconosciuto spilungone dall'accento vallone lo aveva presentato come un tale Capatto. Schiarendosi la voce con un colpo di tosse questi si dispose trepidante a declamare il contributo scritto inviato ai lavori del Consiglio generale del Partito dal suo erudito maestro spirituale bulgaro-scozzese, sotto le occhiate invidiose di Massimo Lensi che aveva inutilmente pestato i piedi per il privilegio.

Amnesty international conquista l'Africa

di Jonathan Power

Introduzione. Jonathan Power e' autore del libro Like Water on Stone, una storia di Amnesty international che uscira' nell'aprile 2001. In questo articolo per il periodico Prospect accompagna in Nigeria il presidente dell'organizzazione Pierre Sane' in una recente missione di confronto con il presidente Obasanjo, un tempo prigioniero politico sostenuto da Amnesty stessa.

Non e' difficile riconoscere Pierre Sane', il segretario generale di Amnesty international, tra i quattrocento passeggeri in attesa di imbarcarsi sul 747 per la Nigeria. E' seduto su una panca dell'aeroporto di Heathrow mentre parla al telefono cellulare, con delle carte sul grembo, elegante in una camicia blu, cravatta giallo pallido , giacca scura, scarpe immacolate, borsa di pelle marrone e un orologio d'oro piuttosto costoso che sbuca dal polsino. Mi chiedo se questo aspetto resistera' nel caldo e alla polvere della mezza estate equatoriale. Mi allunga un documento sulla missione di Amnesty in Nigeria. La sezione sulle precauzioni per il viaggio non e' rassicurante: "Le linee aeree interne hanno un alto tasso di incidenti... Per la strada sono comuni le rapine a mano armata". Lavoriamo entrambi per gran parte del volo. Seduto nella fila di poltrone davanti alla sua, volto la testa quando mi vengono in mente domande.

"Vedo dal tuo programma che parlerai solo per un'ora con Obasanjo. E' normale con i capi di governo?" "Un'ora va abbastanza bene" - replica - "altrimenti la discussione divaga. Ho molti punti qui" - dice tamburellando i fasci di carte - "e la sezione nigeriana avra' i suoi, ma dobbiamo selezionare i principali tre e concentrare la sua attenzione su quelli, altrimenti diventa una lista della spesa". "Obasanjo e' informato dei punti che solleverete?" chiedo. "Abbiamo scritto a lui e ai ministri che visiteremo". Mi mostra la lettera al ministro degli esteri. Una buona lettera, dura ma educata. "Mi concentrero' sull'impunita'. La sua commissione investigativa sugli abusi dei diritti umani sotto Abacha (il presidente militare della Nigeria dal 1993 al 1998) si e' arenata. Non hanno risorse o forse Obasanjo non vuole andare troppo lontano. Probabilmente pensa che questo aiuti la riconciliazione".

Mi passa un'altra carta, datata 15 giugno, un comunicato stampa di Amnesty sulle esecuzioni di stranieri, specialmente nigeriani, in Arabia saudita, che "Ha uno dei piu' alti tassi di pena capitale nel mondo, e per il dieci per cento sono nigeriani. La pena di morte puo' essere usata per un largo spettro di reati, compresi la sodomia e la stregoneria". Ma la gran parte dei nigeriani sulla lista di Amnesty sono stati decapitati per traffico di droga o rapina a mano armata. "La stampa nigeriana ha dato molto spazio a questo comunicato" dice Pierre. "Allora l'avete emesso alla vigilia di questa missione per riscaldarli?" "Certo" - risponde sorridendo - "E' bene avere la stampa locale in un umore amichevole quando arriviamo". La nostra delegazione e' composta da altri due che sono gia' la' - Stephane Mikala dal Gabon e Sarah Pennington, un'americana specialista di Amnesty sulla Nigeria. "Non avete un avvocato" noto. "Avevamo programmato di portarne uno. Volevamo anche un portavoce. Ma abbiamo dovuto tagliarli. Niente soldi". Pierre, che svolge queste missioni una volta al mese, vola in classe turistica.

Chiedo "Trovate che semplicemente recandosi in un paese per chiaccherare con i funzionari e i gruppi di pressione abbia un effetto catalitico?" "Oh si', spesso porta le cose in superficie. O dei prigionieri vengono rilasciati. Ma puo' funzionare al contrario. Sono appena stato in missione in Nepal e il primo giorno la guerriglia pro-cinese ha attaccato la polizia, uccidendo quindici agenti, e questa ha effettuato una rappresaglia. Pare che questo sia stato fatto come una segnale per noi".

Comiciamo la discesa su Lagos, volando sopra grandi distese di campi punteggiate di piccoli villaggi tra i quali serpeggia un fiume. Ma in pochi attimi comincia l'estrema periferia di Lagos. Dall'alto sembra dapprima ordinata e ben proporzionata; case dall'apparenza solida si affacciano su strade diritte.. Poi l'aereo perde improvvisamente quota e vola basso. Vedo il ferro arrugginito dei tetti, gli affollati balconi dei casermoni e il traffico che vi si versa attraverso, una folla fuori da una moschea, lunghe code per gli autobus gialli. Da qui non posso annusare la spazzatura o toccare la violenza. Ma so che e' li', luccicante sulla quieta superficie della luce serale. Presto saro' a terra, in mezzo ad essa.

Una efficente signora del ministero degli esteri ci incontra appena scesi dall'aereo. Pierre rifiuta la sua offerta di accomodarci nella sala VIP mentre lei ritira i nostri bagagli. E' quasi tranquillo nell'aeroporto a paragone della mia ultima visita 16 mesi fa, quando Obasanjo era stato appena eletto presidente dopo la morte di Abacha. Fuori e' lo stesso. La folla in attesa sta bene indietro, ma ci sono sempre un paio di poliziotti in giro. Due uomini avanzano presentandosi come come il presidente e il direttore di Amnesty Nigeria, poi si ritirano per permettere a un gruppo di una ventina di sostenitori di stringerci le mani, scattarci fotografie e condurci verso una bella auto rossa.

TRE LUGLIO
A colazione Sarah Pennington riassume succintamente a Pierre lo stato della Nigeria dal ritorno di Obasanjo al potere. E' un mondo diverso. La gente si sente libera. La paura se n'e' andata. Pero', ed e' un grosso pero', quando scoppiano problemi di dispute etniche ci sono frequenti rapporti di abusi da parte dell'esercito e della polizia. "Obasanjo ha detto 'sparate per uccidere'?" chiede Pierre. "Si', piuttosto apertamente" risponde Sarah. Guidiamo verso quella che sembra l'altra estremita' di questa citta' di otto milioni di abitanti, verso un'intervista del mattino presto per una delle nuove televisioni private. "Perche' sto facendo questo alle otto del mattino?" brontola Pierre a Sarah. L'intervistatrice si e' preparata bene. Inchioda Pierre su tutto dai diamanti della Sierra Leone alle guerre angolana e congolese, alle uccisioni liberiane, alla piaga dei bambini nelle guerre africane e alla situazione locale. Pierre conosce ogni situazione nei particolari, e come esse si collegano tra loro. Ha fatto la stessa cosa in Asia il mese scorso e in America latina il mese prima.

Ripartiamo meravigliati dalla televisione, funzionante con un bilancio esiguo ma veloce e professionale. "C'e' questa enorme energia in Nigeria" - dice Pierre scuotendo la testa - "Se solo avessero le istituzioni giuste potrebbero veramente andare lontano". Scendiamo lungo una strada trasandata e un edificio ancora piu' trasandato, sede nigeriana di Amnesty. E' circondata da negozi e uffici altrettanto scalcagnati, molti dei quali, con mia sorpresa, risultano essere negozi di computer o scuole di internet.

Amnesty Nigeria fu fondata nel 1968 da missionari nella citta' orientale di Calabar. Negli anni ottanta era diventata abbastanza grande da impiegare del personale e ora ha 5.600 iscritti in 32 gruppi in tutto il paese. Pierre presiede una riunione di comitato formale. Un generatore di corrente stride rumorosamente in sottofondo, procurandomi un mal di testa. Il loro principale problema e', ovviamente, il denaro. Stanno arrivando alla fine di un programma speciale dopo il quale si suppone siano diventati autosufficienti. Tra un mese un team di Amnesty verra' da Londra per due mesi per spiegare loro come reggersi sui loro piedi. "Tutte quelle chiese e moschee che vedo" - chiede Pierre - "dove trovano il denaro?" "Facendo impegnare la gente a versare parte dei loro guadagni" - risponde Simeon Aina, il presidente. Pierre dice che anche loro devono fare lo stesso. Due questioni saltano fuori nella discussione: il commercio di armi (chiedono come possono acquisire l'esperienza per trattarlo) e l'istituzione del Tribunale internazionale. Simeon dice che la spinta sembra essersi affievolita in Amnesty dopo l'approvazione degli statuti l'anno scorso a Roma. "Stiamo spingendo per la ratificazione" - dice Pierre - "Solo 14 paesi hanno ratificato e ne occorrono 60 affinche' possa decollare. Abbiamo una nuova campagna che comincia tra due settimane. Dovete fare in modo che la Nigeria ratifichi al piu' presto possibile".

Nel pomeriggio incontriamo le altre NGO nigeriane sui diritti umani. Tutti cantano la stessa canzone: di' a Obasanjo, quando lo incontri, che nonostance ci abbia dato liberta' politica viviamo ancora sotto la tirannia della polizia. "Ieri stavo facendo la spesa nel mio mercato locale" - dice un funzionario - "Improvvisamente dei giovani hanno cominciato a rovesciare i tavoli e a rubare il denaro delle donne del mercato. La polizia e' arrivata quando i giovani erano scappati e ha semplicemente arrestato le prime persone sulle quali e' riuscita a mettere le mani". E cosi' continuano i racconti: sulla nuova Forza anti-rapina che getta semplici indiziati in prigioni speciali dalle quali non riemergono mai; sui magistrati che sono ignoranti e prevenuti.

Il sole comincia a tramontare e il traffico ad accumularsi mentre attraversiamo Lagos per dirigerci verso l'inclassificabile sobborgo di Ikejin. Abbiamo un appuntamento con la figlia di uno degli uomini piu' ricchi che la Nigeria abbia mai prodotto, il politico e uomo d'affari Moshood Abiola, vincitore delle elezioni nogeriane del 1993. Abacha lo confino' a languire in una casa isolata dove divenne sempre piu' malato, senza aiuto medico ne' contatti con la sua famiglia. Dopo la morte di Abacha nel 1998 si vociferava di un suo rilascio se avesse rinunciato a pretendere la presidenza. Il segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan cerco' di mediare un compromesso con il presidente militare ad interim, generale Abubakar, ma Abiola ebbe un ultimo infarto e mori'. Sua moglie Kudirat era stata assassinata nel 1996 e suo figlio Mohammed e' in prigione in attesa del processo dove e' accusato di essere il mandante dell'omicidio. Amnesty ha lottato duramente per Abiola e Pierre ha voluto rendere omaggio alla sua figlia maggiore, Hafsat. Vagabondiamo intorno alla dimora, le cui stanze sono arredate con pesanti tappeti e mobili imitazione dello stile Luigi XIV. Hafsat e' una donna energica e affascinante, educata a Harvard, con una mente lucida di cui ha spesso fatto buon uso nel programma della BBC Newsnight durante gli anni di Abacha. Ci mostra le tombe di famiglia in un angolo del cortile.

QUATTRO LUGLIO
Chiamo Obasanjo da una cabina dell'aeroporto non appena sbarchiamo ad Abuja, la capitale politica. L'ho conosciuto per la prima volta come un amico quasi vent'anni fa, subito dopo il suo primo periodo come presidente, e ho recentemente rinnovato la conoscenza dopo la sua elezione alla successione di Abacha l'anno scorso. Mi dice di chiamarlo dall'albergo e mandera' qualcuno a prendermi. Alle 7.30 entro per la la prima volta nel raffinato complesso presidenziale. Costruito da uno dei suoi predecessori militari, ha l'aspetto di un campus delle ricche universita' private americane: edifici bassi sparsi su ampi prati interrotti dagli alberi. E' pulitissima, come mi capita di constatare con un crescente numero di edifici pubblici al giorno d'oggi in Nigeria. Vengo condotto nella sala da pranzo arredata col gusto nouveau riche dei dittatori militari, e trovo Obasanjo seduto a capotavola circondato dal suo entourage. Sta leggendo un Financial Times di cinque giorni prima e gli chiedo se questa e' la sua abitudine. "No, qualcuno me l'ha appena portato". Guarda a che cosa sto portando con me, Prospect e il nuovo romanzo di Ondaatje, e alza un sopracciglio come per dire "Sono per me?" Poiche' non ho portato regali, glieli offro. Obasanjo e' un lettore, e scrittore, vorace. Uno dei tre libri che ha scritto in prigione, This Animal called Man, e' un'erudita esposizione del credo cristiano, molto ben scritta. Parliamo spesso di religione: io il dubbioso che non vorrebbe esserlo, e lui levangelista che gli anni della prigione hanno fatto ancor piu' fervente.

"Cosi' stati viaggiando con Amnesty. Che cosa vogliono? Non ho niente da dire loro" - dice nella maniera militare che usa per intimidire -"E' per Odi?" "Penso che sia sulla loro lista" rispondo (Odi e' una citta' nel delta del Niger dove Amnesty dice che ci sono state esecuzioni militari extra-giudiziali nel settembre 1999). Scuote la testa. "Sembra che le esecuzioni continuino ancora qua e la'" dico. "Amnesty non sa niente di quel che succede" dice. "Allora perche' c'e' un'inchiesta?" insisto chiedendomi quanto posso continuare senza fargli perdere la pazienza. Cambio argomento. "Penso che l'altra cosa che solleveranno riguardi la commissione che investiga gli abusi dei diritti umani sotto i governi militari. sembra essere lenta" dico. "Dovrebbero andare a parlare al giudice Oputa, il suo presidente". "Lo faranno, ma mi avevi detto l'anno scorso che avresti fatto schioccare la frusta" replico. "E' quel che sto facendo". Si gira per parlare a un altro ospite, l'ex governatore dello stato di Lagos sotto Abacha. Poi se ne va. Quando torna gli chiedo quale effetto abbia avuto Amnesty nell'aiutare a minare Abacha. "Difficile determinarlo" - replica - "All'apparenza sembrava che niente potesse muoverlo. Ma tutte quelle pressioni dall'esterno hanno avuto un effetto. Ci sono molte teorie su che cosa abbia causato la morte di Abacha ad una cosi' giovane eta'. Un fattore e' stato lo stress dalla presione esterna" - fa una pausa - "Amnesty fa bene, il mondo ne ha bisogno, ma non hanno sempre ragione" (Lo stesso Obasanjo e' stato per tre anni uno dei piu' conosciuti prigionieri adottati da Amnesty, dopo essere stato imprigionato da Abacha nel 1995).

Lo avverto che Sane' e' un osso duro, ma non apprezza: "Me ne andro', lo sai, se non mi piace". La sua rabbia scintilla, si placa e la conversazione cambia.. Sparisce e ritorna in pantaloni corti. "Vieni a vedermi giocare. Lo faccio due volte al giorno". Camminiamo verso il cmapo di squash e lui gioca una partita veloce e vittoriosa contro uno dei suoi collaboratori. "Lo indimidisci" dico. "Sono bravo" sogghigna.

CINQUE LUGLIO
Alle 11 Pierre ed io entriamo nell'edificio del parlamento, una distinta cupola verde, e saliamo molte scale in cerca dell'ufficio del senatore Sogangi, presidente del comitato diritti umani del senato. Senza fiato e di cattivo umore quando finalmente lo troviamo, ci viene detto che ha cancellato l'incontro tra Amnesty e il suo comitato a favore di un altro con Jimmy Carter, ex presidente degli Stati uniti. Pierre e' incavolato , rigetta l'offerta di una quieta chiccherata piu' tardi nell'ufficio di Sodangi e decide di scrivere una lettera forte. Alle tre del pomeriggio attraversiamo verso il complesso presidenziale. Stanze pannellate di mogano, scale e pavimenti di marmo: mi chiedo quanti villaggi avrebbero potuto avere l'acqua corrente o una scuola elementare con i soldi spesi in questo. Sediamo in una sala piuttosto formale e siamo invitati ad alzarci quando entra Obasanjo, che si siede a capotavola con quattro consiglieri. Dall'altro lato del tavolo siedono Pierre e Sarah e Simeon Aina e Eke Ubiji della sezione nigeriana. Io mi siedo da parte. Simeon presenta tutti e poi Pierre fornisce un'introduzione avendo cura di sottolineare come il paese ora si senta aperto, come il senso di paura sia passato. "Mi rendo conto" - dice - "che la democrazia non risolve tutti i problemi dalla sera alla mattina: avete ereditato enormi abusi dei diritti umani. Siamo qui per parlare sia degli abiusi del passato sia di quelli che continuano sotto un sistema giudiziario che non e' cambiato molto". Scorre quindi la lista delle prove delle continue esecuzioni extra-giudiziali, le torture, l'abuso delle donne nelle prigioni e il comportamento della polizia. Obasanjo comincia "Non abbiamo molto tempo, ma voglio dire che ho un'alta opinione di Amnesty, ho sempre lodato il vostro lavoro". Prende la palla e la gioca per quasi un'ora: abbassa la voce, l'alza, racconta aneddoti, respinge fermamente la maggior parte delle proposte di Amnesty, ma dice che se hanno prove di tortura nelle prigioni di fornirgliele. E' essenzialmente irremovibile, sia pure con grande fascino. Sulla questione cruciale del comportamento dell'esercito Obasanjo ragiona come un soldato. "Bisogna pensare al morale dell'esercito, certo, ma anche alla cose cattive che fa l'esercito" dice Pierre. "Ti hanno mai sparato, Pierre?" ribatte Obasanjo, che fu preso di mira molte volte durante la guerra in Biafra. Pierre scuote la testa modestamente, nonostante la sua vita sia stata minacciata piu' volte. "Sfortunatamente" - aggiunge Obasanjo sorridendo - "non c'e' alcun luogo qui dove possiamo spedire Pierre a farsi sparare!" Solo alla fine, quando Pierre solleva la questione della pensa di morte, sembra esserci un modesto incontro di idee. "Non spingermi, io mi trascino a carponi, a volte cammino. E' cosi' che voglio". No, non dichiarera' una moratoria. "Il problema con le moratorie e' che finiscono. Ed e' un'opportunita' buttata via se uno deve tornare indietro. Io voglio abolire la pena di morte. Vado in quella direzione, ma c'e' molto lavoro educativo da fare. Non ho firmato condanne a morte e non le firmero' ora. Ma ogni governatore puo' prendere questa decisione e io non posso interferire. Ma voi di Amnesty dovete lavorare per scoprire le ingiustizie, cosi' la gente puo' essere istruita sui difetti della pena di capitale".

Pierre e Sarah hanno fatto del loro meglio. Conoscevano i loro argomenti e nessuno si e' impaperato. Guardo verso Pierre. Ha le ciglia appesantite, quasi chiuse. Questo contrasta col tipo. Non ha vinto un punto e si vede. Ma camminando lungo il corridoio dopo l'incontro, vogliono credere che qualcosa di buono ne sia scaturito. "L'abbiamo visto, e la porta e' aperta" - dice Pierre - "possiamo scrivergli e seguirlo. Abbiamo costruito un rapporto" - dice Sarah - "non c'era ostilita'". Sono caduti nella stessa fascinazione che io ebbi anni fa. Obasanjo e' cosi' diretto, con dei modi cosi' autorevoli che anche i critici cominciano a vedere le cose dal suo punto di vista. Ma Obasanjo, per quanto sia un vecchio soldato, ha un lato vulnerabile. Alla fine dell'incontro mi e' passato accanto e gli ho detto "Buona prestazione" "Lo pensi davvero?" ha chiesto incontrando i miei occhi coi suoi in cerca di approvazione. "Si', hai presentato bene il tuo caso, ma non posso dire di essere d'accordo su tutto" "Lo so che non lo sei, Jonathan" - risponde prendendomi per un braccio - "Vieni a cena con Pierre stasera. C'e' molto di cui parlare". E ce ne fu davvero. Dopo una giornata cosi' intensa fu un sollievo parlare di cose personali: il bisogno di Pierre di tornare a lavorare in Africa e il mio intramontabile dibattito con Obasanjo sulla moralita' cristiana e l'adulterio.

SEI LUGLIO
Oggi abbiamo appuntamenti con i ministri dell'interno e della difesa. Nessuno dei due c'e' quando arriviamo. Quello dell'interno offre un altro orario, che si scontra con quello del supposto incontro con quello della difesa. Alla fine non vediamo nessuno. Pierre e Sarah concludono che incontrare Amnesty non e' un'alta priorita'. "Forse abbiamo fatto uno sbaglio" - confida Pierre - "Non avremmo dovuto aspettare cosi' a lungo. Qui l'aria e' uscita dalla mongolfiera dei diritti umani. Avremmo dovuto venire sei mesi dopo le elezioni, quando le cose erano fresche. L'abbiamo fatto in Brasile e in Corea del sud e ha funzionato e tutti volevano vederci, a tutti i livelli. E i media ci seguivano dappertutto".

Guidiamo a nord verso la capitale dello stato islamico di Kaduna. La Nigeria ha una rete di buone arterie stradali e copriamo rapidamente i 180 chilometri su una doppia carreggiata, passando attraverso un'Africa cambiata pochissimo in centinaia di anni: semplici case di fango, alcune col tetto di latta, altre di paglia, nessun segno di elettricita' e neppure di scuole per gran parte del viaggio. Arriviamo alla casa del vice-presidente di Obasanjo dell'epoca quando lui era presidente militare. Erano amici e furono arrestati nello stesso periodo. Ma lui mori' in prigione e si sospetta che sia stato avvelenato. La vedova ci racconta dei recenti disordini religiosi tra cristiani e musulmani (duemila persone furono uccise nel febbraio scorso e altre 300 in maggio). "Non sapevo da dove questi scontri fossero saltati fuori. Kaduna e' sempre stata una citta' tranquilla. Cristiani e nusulmani hanno vissuto fianco a fianco per decenni. Parti della legge Sharia sono state praticate a lungo in Nigeria; ha un posto nella costituzione. Abbiamo sempre avuto tribunali Sharia per i musulmani come sistema alternativo di giurisprudenza. Gli sconvolgimenti sono avvenuti quando alcuni membri della nostra assemblea statale hanno cominciato a spingere per le pene Sharia: amputazioni e cose del genere. Non penso che il governatore abbia spiegato al pubblico che cio' non si sarebbe applicato ai cristiani.

SETTE LUGLIO
Guidiamo lungo una strada distrutta con piccole officine, chiese e moschee situate quasi fianco a fianco, smantellate e carbonizzate. Scaliamo i gradini di un altro edificio decrepito, sede della sezione di Amnesty di Kaduna. Fuori pende uno striscione con lo slogan Kaduna da' il benvenuto a Pierre Sane'. Una signora anziana mi accompagna al balcone. "Vede quelle grandi bruciature di asfalto scolorito sulla strada? E' li' dove hanno fatto i roghi e bruciata viva la gente". Dovetti stare a guardare. Non avrei potuto uscire. Non osavo andare giu' in strada".

Pierre, ora vestito in una lunga tunica da deserto nigeriano settentrionale, parla a un incontro della sezione locale di Amnesty e un grande numero di rappresentanti delle NGO. La stanza e' affollata e ognuno vuole avere la possibilita' di parlare. Sorprendentemente, quasi tutti sono brevi e precisi. Noto che non c'e' quasi nessuno nella stanza sopra i 40 anni. Ma non sono neppure studenti. In Nigeria la politica sembra essere cosa per la vecchia scuola, e l'attivita' delle NGO per i giovani professionisti istruiti. "Lo scopo di questo incontro e' abbastanza enorme" - dichiara il presidente nella pesante cadenza dell'inglese nigeriano. "La gente e' stata distrutta e non ha di che ricostruire le loro attivita' e le loro case. Lo stato dovrebbe compensarle" dice il primo oratore. Un importante musulmano locale dice: "Noi nigeriani siamo notoriamente religiosi. Il piu' delle volte ci rispettiamo reciprocamente. Poche persone hanno abusato della loro liberta' per fomentare l'odio". "Perche' il governo non spazza via le armi dalla citta'?" - dice un altro - "Dopo la guerra del Biafra perquisirono le case e confiscarono ogni arma e ogni proiettile". Pierre conclude l'incontro dicendo loro: "Le NGO devono coninuare a discutere questi problemi. La comunita' non progredira' finche' non progrediranno le NGO".

Ci dirigiamo verso l'ufficio del governatore. E' un musulmano, e forse un uomo tollerante: nessuno si e' sforzato di cancellare i graffiti fuori dalla sua residenza: Sir, sorry to say, No to Sharia. Come con Obasanjo, tutto e' molto formale. Pierre riassume le critiche delle NGO e il governatore fa un altrettanto efficace lavoro per rigettarle. "Mi ha fatto piacere vedere che nessuna nazione, grande o piccola, e' sfuggita alle critiche nel vostro rapporto annuale. L'ho visto discusso sulla CNN" - comincia il governatore - "Stiamo introducendo una forma di controllo da parte dei cittadini dei vari gruppi nei quartieri. Vogliamo che la gente sia responsabilizzata non solo sulla sicurezza ma anche sull'ambiente". Scorre la lista di Pierre. Compensazione: no, ma assistenza; armi: le stiamo cercando; NGO: "sono benvenute per vedermi"; Sharia: "non possiamo risolvere i problemi lottando, dobbiamo parlare".

L'incontro dura mezz'ora e corriamo all'aeroporto a prendere l'ultimo aereo del giorno per Lagos. Pierre dice che non dobbiamo perderlo. Domani sara' fatto capo Yoruba onorario dall'Alaffyn (re) di Oyo, per i suoi servizi ad Amnesty.

OTTO LUGLIO
Prima della colonizzazione britannica il regno Youruba di Oyo si estendeva attraverso la Nigeria meridionale fin dentro nel Benin. Oggi e' rimasto l'ombra della sua gloria: potere e ricchezza sono passati lungo tempo fa alla borghesia e all'esercito. Eppure i capi tradizionali conservano l'affetto del loro popolo, specialmente negli angoli remoti del paese dove siamo. Arriviamo alla casa del re, ferro arrugginito piu' che oro, al limite della piccola citta' di Oyo. C'e' un saluto da parte di vecchi uomini senza denti che sparano con moschetti fatti in casa. Il re e Pierre camminano sotto un parasole con la pubblicita' della compagnia petrolifera Gulf. Vecchi uomini e donne in successione vengono a prostrarsi davanti al re. Un bambino danza, vestito come una bambola di legno intagliato. Lo stesso Pierre e' vestito nei panni rossi di un capo. Si inginocchia davanti al re, che gli mette perline di vetro attorno al collo e un bastone nella mano. Parla il re, definendolo "uno dei figli illustri dell'Africa". Poi e' il turno di Pierre. La folla di duemila persone si accalca per ascoltare. "Amnesty international e' arrivata profondamente nel cuore dell'Africa" - dice Pierre - "profondamente oltre le citta', profondamente oltre i politici, profondamente dentro il popolo dell'Africa".

Questa e' la sorprendente conclusione alla quale sono giunto anch'io. Un'organizzazione cominciata 40 anni fa nella testa di un avvocato inglese cattolico discendente di ebrei ha messo radici nell'Africa piu' nera.


L'Organizzazione del commercio mondiale

di Simon Retallack

Introduzione. Simon Retallack e' autore di un rapporto sulle conseguenze ambientali della globalizzazione e vice-direttore delle edizioni speciali del mensile britannico The Ecologist, dal quale e' tratto questo testo che esplora in quali direzioni dovrebbero orientarsi l'Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e i suoi oppositori dopo gli storici fatti di Seattle nel dicembre 1999.

Alla fine dell'anno scorso, nelle strade e sale congressi di Seattle, la piu' nord-occidentale delle citta' americane, c'era un inconfondibile sensazione nell'aria: la sensazione di vivere un momento storico. A Seattle la presunta inarrestabile forza della globalizzazione economica ebbe la sua prima battuta d'arresto dell'era post guerra fredda per mano di un'alleanza senza precedenti tra gruppi di cittadini e delegati governativi provenienti da tutto il mondo. Il principale bersaglio e vittima delle loro proteste era il lancio del nuovo "millennium round" di negoziati commerciali di una istituzione che la maggioranza del pubblico e dei media mondiali conosceva a malapena prima di Seattle: l'Organizzazione del commercio mondiale (WTO).

La WTO nacque nel gennaio 1995 come risultato di otto anni di negoziati tra 125 paesi durante lo "Uruguay round" dell'Accordo generale sui dazi e il commercio (GATT). Opera da Ginevra e vi aderiscono 135 paesi. Le sue principali funzioni ufficiali consistono nell'amministrare e applicare oltre venti accordi relativi al commercio, risolvere le dispute commerciali tra gli stati e fornire un forum per i negoziati sul commercio mondiale. Questo almeno e' lo scopo che suona innocuo della WTO. Ma dietro questa blanda facciata burocratica l'organizzazione rivela una struttura piu' distruttiva. La ragion d'essere della WTO e' di eliminare le "barriere al commercio internazionale", barriere che, secondo le regole della WTO, includono non soltanto quote e tariffe sui prodotti che attraversano confini nazionali, ma anche ogni impedimento al profitto delle corporazioni, come le leggi locali, regionali e nazionali che proteggono i consumatori, i lavoratori e l'ambiente. Questo programma e' imposto da tribunali costituiti da pannelli di tre burocrati del commercio che hanno generalmente fatto carriere legali rappresentando multinazionali sulle questioni commerciali. Essi si incontrano in segreto e hanno poteri esecutivi legalmente vincolanti che includono la capacita' di imporre pesanti sanzioni commerciali economiche sugli stati inadempienti. The Economist ha definito la WTO "un embrione di governo mondiale", eppure nessun elettorato del pianeta l'ha mai eletta, ne' e' in alcun modo significativo responsabile verso il pubblico. Peggio, in ogni occasione durante i suoi cinque anni di esistenza ha sacrificato l'interesse pubblico sull'altare del guadagno delle corporazioni.

Finora, tra le leggi nazionali contro le quali hanno decretato i pannelli della WTO e conseguentemente causato il loro indebolimento, ci sono le leggi americane contro l'inquinamento atmosferico e le specie in pericolo di estinzione, e gli standard giapponesi di residui di pesticidi nel cibo. La WTO ha anche decretato contro la proibizione dell'Unione europea dell'importazione di carne trattata agli ormoni, potenzialmente pericolosa per la salute, e il regime della UE sull'importazione delle banane in modo da dare accesso preferenziale alle banane prodotte dai piccoli agricoltori dei Caraibi. In questi due casi, la WTO ha autorizzato l'imposizione di sanzioni rispettivamente di 128 e 190 milioni di dollari all'anno finche' la UE applica i suoi decreti. Decisivamente, in ognuno di questi casi i pannelli della WTO hanno preso le parti delle corporazioni coinvolte: rispettivamente societa' petrolifere venezuelane e brasiliane, societa' asiatiche produttrici di gamberetti e societa' americane produttrici di carne e frutta. La storia della WTO e' ormai tale che la semplice minaccia di azione della WTO e' generalmente sufficiente a persuadere i paesi a cambiare le loro leggi in accordanza. Per esempio sotto questo cosiddetto "effetto raggelante" gli Stati uniti hanno avuto successo nell'indebolire sostanzialmente una proibizione europea sull'importazione di pellicce di animali catturati con crudeli tagliole. A livello sub-nazionale, il governatore della California ha posto il veto sulla legge "Compra californiano" che avrebbe dato ai beni prodotti localmente un preferenza del cinque per cento per gli acquisti statali e degli enti locali, spiegando che avrebbe violato le regole della WTO. Tutti questi casi sono sintomatici di tendenze molto piu' serie e radicate che vengono promosse. Degrado ambientale, minacce alla salute pubblica, disoccupazione, ineguaglianza, insicurezza sul cibo, perdita di diversita' culturale e minacce ai diritti umani sono stati tutti esacerbati dalla WTO e i suoi accordi. Nonostante tutto cio', i due piu' grandi blocchi commerciali mondiali intendevano usare la Terza conferenza ministeriale dell'organizzazione, a Seattle dal 30 novembre al 3 dicembre 1999, per espandere ulteriormente i poteri della WTO. Gli Stati uniti volevano che la WTO istituisse un gruppo di lavoro per adottare nuove regole che avrebbero assicurato accesso senza restrizioni al mercato mondiale per prodotti geneticamente modificati, nonostante le crescenti preoccupazioni per la salute e l'ambiente. Un'altra priorita' americana era l'adozione da parte della WTO di una "Iniziativa avanzata di liberalizzazione tariffaria" che, tra le altre cose, avrebbe eliminato i dazi sui prodotti ittici e forestali. Risultato: accresciuta deforestazione ed esaurimento dei gia' troppo sfruttati oceani mondiali.

Un ulteriore obiettivo americano era l'eliminazione di dazi e sussidi agricoli prevalentemente giapponesi ed europei. Mentre questo avrebbe avuto alcune positive conseguenze ambientali, avrebbe anche compromesso l'agricoltura su piccola scala senza prodotti chimici, spesso dipendente da sussidi e dazi per non essere annientata da alluvioni di piu' economici prodotti importati. Il governo americano voleva anche espandere l'Accordo generale sul commercio in servizi (GATS) per comprendere nuovi settori come la sanita' e l'istruzione. Questo avrebbe dato alle corporazioni straniere il diritto di acquisire, possedere e operare ospedali e scuole di proprieta' pubblica in ogni paese membro della WTO. Un altro ancora degli obiettivi americani era di estendere l'Accordo sui diritti di proprieta' intellettuale connessi al commercio (TRIPS) a tutte le parti vegetali e animali per renderle brevettabili e controllabili dalle corporazioni, privando cosi' milioni di contadini del diritto di risparmiare e usare i loro semi senza dover pagare le corporazioni per poterlo fare. La priorita' europea era di espandere i poteri della WTO sulle politiche di investimenti, concorrenza e appalti. La UE cercava cosi' di dare alle corporazioni straniere il diritto di investire, intraprendere fusioni e acquisizioni e partecipare a gare di appalto pubbliche in ognuno dei paesi membri, libere da ogni condizione sociale o ambientale e discriminazioni su appalti e sussidi. Il piano della UE avrebbe implicato essenzialmente un ritorno del malfamato Accordo multilaterale sugli investimenti (MAI) che era stato sconfitto dalla pubblica protesta nel 1998. Per di piu' questi programmi prevalentemente guidati dalle corporazioni dovevano essere negoziati in segreto (come e' stata la norma per ognuno dei round sul commercio mondiale), senza la partecipazione o l'approvazione del pubblico, delle organizzazioni non-governative (NGO) o, come si e' scoperto, neppure la maggioranza dei governi membri della WTO.

Tagliate fuori dal processo, alienate e disgustate da gran parte di quanto veniva negoziato, oltre quarantamila persone andarono a Seattle per ricorrere a quella che storicamente e' l'estrema ratio: la strada. Il risultato e' stata la piu' grande e straordinaria manifestazione in America dalla guerra del Vietnam, guidata da una coalizione arcobaleno di gruppi sindacalisti, ambientalisti, di consumatori e di contadini, per i diritti umani e per la democrazia, provenienti da tutto il mondo. La reazione ufficiale alle proteste ha dimostrato una autoritaria intolleranza del dissenso che la dice lunga sulla natura della WTO e il suo atteggiamento verso la gente comune. Ha mostrato a milioni in tutto il mondo che dev'esserci qualcosa di molto sbagliato in questa istituzione se ha bisogno di difendersi sparando proiettili di gomma e gas lacrimogeni a manifestanti prevalentemente pacifici, caricandoli con autoblindo e truppe a cavallo, arrestandone centinaia (ma nessuno della quarantina di "anarchici" incappucciati che causarono le violenze ampiamente riportate), e imponendo un coprifuoco armato sull'area dell'incontro. Intanto nel dramma delle strade si rispecchiava quanto accadeva nei negoziati che, nello stupore generale, improvvisamente collassarono nel chaos e infine nel fallimento il 3 dicembre. Se crediamo agli umiliati sostenitori della WTO, cio' fu essenzialmente dovuto alla cattiva direzione mentre l'impatto dell'opposizione della societa' civile sarebbe stato "minimo". In realta' il ruolo delle proteste fu molto piu' importante. Fino a Seattle, vertici e negoziati sul commercio avevano avuto luogo senza la presenza di un numero significativo di manifestanti, NGO e media. Il lancio dell'ultimo round del commercio mondiale a Punta del Este in Uruguay nel 1986 ebbe luogo "nel silenzio dell'apatia pubblica" come dice il direttore generale della WTO, Mike Moore. Questo significo' che i funzionari commerciali governativi potevano fare accordi che realizzavano un programma essenzialmente multinazionale e occidentale e imporlo al resto del mondo impunemente. A Seattle tutto questo e' cambiato.

Anni di tranquillo lavoro di educazione e costruzione della coalizione sulle questioni del commercio mondiale da parte di gruppi come Public Citizen, Third World Network, International Forum on Globalisation e molti altri hanno finalmente dato i loro frutti a Seattle. Non solo duemila NGO si sono presentate con un vero esercito di 40mila manifestanti, ma una alleanza senza precedenti e' stata forgiata tra gruppi che rappresentano un vasto spettro di preoccupazioni sociali (comprese, decisivamente, quelle sulle questioni ambientali e sindacali), unite nella comune opposizione alla WTO e ai suoi scopi. Essi spediscono ai governi del mondo il diretto messaggio che la societa' civile non tollerera' una WTO ne' alcun nuovo round sul commercio che fallisca di affrontare le preoccupazioni sociali e ambientali e che meramente serva gli interessi delle grandi corporazioni e dei loro azionisti. I manifestanti erano abbastanza numerosi e potenti per non passare inosservati. Traevano forza non solo dal loro numero e dalla loro diversita' ma, soprattutto, dal fatto che il loro messaggio e' risuonato ad alto volume con un piu' vasto pubblico in importanti elettorati. La dimensione e la drammaticita' delle manifestazioni hanno anche attratto la piu' grande presenza mediatica nella storia di tutti gli incontri sul commercio mondiale, permettendo cosi' al messaggio dei manifestanti di essere trasmesso a un'udienza di centinaia di milioni in tutto il mondo. I membri dei media, molti dei quali apprendevano essi stessi per la prima volta della WTO, scrutinarono i negoziati come non avevano mai fatto prima. Tutto cio' ha reso molto piu' semplice (o molto piu' importante) per i governi resistere alle usuali pressioni per conformarsi e accordarsi ad ogni costo, creando tra i governi membri della WTO le condizioni per lo sviluppo di divisioni insormontabili che costrinsero in ginocchio i negoziati. Cosi' le obiezioni dei piccoli agricoltori e dei loro sostenitori manifestanti a Seattle, riflettendo la visione di potenti elettorati nazionali hanno fornito un importante incentivo per i paesi UE, sostenuti da Giappone e Corea del sud, per resistere i tentativi degli USA e di diciotto paesi esportatori agricoli del Cairns Group per l'eliminazione dei dazi e dei sussidi agricoli. Da cui il riconoscimento del commissario europeo del commercio Pascal Lamy che "Quello che sta accadendo fuori sta avendo un effetto sui negoziati". Le proteste, egli disse, rendevano "ancora meno possibile" cedere sulla questione. Similmente, l'ostilita' dei manifestanti e della vasta maggioranza del pubblico europeo verso il cibo geneticamente modificato ha reso politicamente azzardato per la UE cedere alla richiesta chiave degli Stati uniti di istituire un gruppo di lavoro della WTO sulle biotecnologie che avrebbe reso piu' difficile per i paesi limitare l'importazione di tali prodotti. Quando il commissario europeo del commercio indico' che avrebbe potuto cedere sulla questione, i ministri dell'ambiente europei, timorosi dello sdegno pubblico che ne sarebbe risultato, obiettarono apertamente e costrinsero a far cadere la proposta. Al tempo stesso l'opposizione dei manifestanti e di un grande numero di importanti gruppi sindacali e ambientalisti americani alla richiesta chiave europea di avviare negoziati su un nuovo accordo sugli investimenti del tipo del MAI ha fatto si' che gli USA non cedessero su questa questione, diminuendo ulteriormente la possibilita' di un accordo generale tra UE ed USA a Seattle.

Un fattore ancor piu' importante nel collasso dei negoziati fu l'opposizione senza precedenti della maggioranza dei paesi in via di sviluppo, che costituiscono due terzi dei paesi membri della WTO, a lanciare un nuovo round, e la loro richiesta, contrastata dagli USA, di rivedere gli elementi del round precedente. All'unisono con i manifestanti, molti hanno adottato lo slogan "No new round. Turnaround". In questo hanno svolto un ruolo importante NGO come Third World Network, che rappresentano letteralmente milioni di cittadini del terzo mondo, illustrando ai delegati i probabili effetti avversi sui paesi in via di sviluppo dell'adozione di nuove questioni spinte dai paesi sviluppati, e di diversi accordi esistenti. Gli USA hanno generato perfino maggiore opposizione da parte dei paesi in via di sviluppo per il loro rifiuto di abrogare la legislazione "anti-dumping" che impedisce l'importazione in America di prodotti sottocosto, rifiutando di applicare gli impegni a tagliare le quote sui tessili dei paesi in via di sviluppo e rifiutando di lasciar cadere la proposta per l'istituzione di un gruppo di lavoro WTO per esaminare a fondo la protezione degli standard di lavoro fondamentali. L'unica ragione per la quale gli USA hanno preso posizione su questa questione e' stata la sonante richiesta dei manifestanti e dei sindacati in tutta l'America che posti di lavoro e standard sindacali non siano compromessi dal libero mercato. Troppi voti erano in gioco, non ultimo per il candidato presidenziale Al Gore, perche' un nuovo round sul commercio fosse lanciato senza tener conto di almeno alcune delle preoccupazioni dei manifestanti su queste questioni. Come ha detto Sue Esserman, una vice-rappresentante commerciale USA: "Una chiara espressione di preoccupazione da parte dei lavoratori dev'essere tenuta in considerazione, ed e' precisamente quello che abbiamo fatto". La goccia che ha fatto traboccare il vaso per i paesi in via di sviluppo e' stato il modo in cui sono stati trattati durante i negoziati. A Seattle la WTO ha operato in un modo grossolanamente non democratico, permettendo che tutte le decisioni chiave fossero prese da una ventina di paesi negli incontri cosiddetti della "stanza verde", escludendo la gran parte dei delegati dei paesi in via di sviluppo, che furono tenuti all'oscuro, disinformati, o privati di interpreti e testi accurati. Furono essenzialmente ridotti al ruolo di spettatori dai quali tuttavia ci si aspettava che fornissero il loro consenso a un insieme di decisioni che non avevano praticamente avuto parte nel formare e alle quali erano largamente opposti. Questa pratica e' stata a lungo la norma dei negoziati sul commercio mondiale e i paesi in via di sviluppo alla fine avevano sempre ceduto. Ma non questa volta. Quello che ha fatto la differenza a Seattle, secondo numerosi delegati, e' stata l'atmosfera di dissenso generale generata dai manifestanti nelle strade, l'incoraggiamento delle NGO nella sala delle conferenze e la presenza scrutinatrice dei media mondiali. Tutti questi fattori hanno dato ai paesi in via di sviluppo la risoluzione e la forza di mantenersi compatti e, per la prima volta, rimanere uniti nell'opposizione al lancio di un nuovo round. Agli ospiti americani, incapaci di colmare le differenze facendo concessioni che avrebbero infuriato i manifestanti e i loro potenti elettorati nazionali, e incapaci di forzare un fait accompli sul mondo in via di sviluppo senza incitare la loro furia davanti alle telecamere del mondo, non fu lasciata altra opzione che lasciar collassare i negoziati.

Non e' esagerato affermare che a Seattle si e' fatta storia, perche' quegli eventi hanno gia' portato cambiamenti fondamentali. L'autorita' e legittimita' della WTO e' stata seriamente compromessa, cosiccome la filosofia guida della WTO che la gente e il mondo della natura debbano servire interessi economici e corporativi come parte di un processo inevitabile di globalizzazione mondiale. I membri della WTO sono nello scompiglio, con i governi di UE e USA, e dell'occidente e del mondo in via di sviluppo, ancora divisi da differenze sostanziali. I negoziatori del commercio sono consapevoli che una seconda sconfitta delle dimensioni di Seattle sarebbe probabilmente fatale per la WTO. Chiaramente sulla difensiva, essi ora accettano che la WTO abbia bisogno almeno di alcune riforme e che nuove voci debbano essere sentite. Dall'altra parte la societa' civile e' piu' forte che mai, come la sua filosofia guida che il commercio e gli interessi delle corporazioni debbano essere subordinati ai bisogni umani e ambientali. A Seattle, costruendo sui successi contro il "fast-track" nel 1997 e il MAI nel 1998, la societa' civile ha lanciato la piu' importante sfida internazionale e di ampia base al capitalismo mondiale del post guerra fredda. E' potente perche' e' piu' organizzata, unita e piu' che mai consapevole della sua forza, e per la prima volta il suo messaggio ha raggiunto i media mondiali e per loro tramite milioni di persone in tutto il globo. Ha quindi rimosso i fattori dei precedenti successi della WTO: ignoranza e apatia. D'ora in poi il mondo guardera', rendendo difficile ai ministri del commercio di concludere accordi contro l'interesse pubblico. La societa' civile ha ora un posto alla tavola massima e una voce che non puo' essere ignorata. Ha piu' influenza che mai.

La societa' civile deve ora cogliere l'occasione di sfruttare questa unica chance, per cambiare per sempre la WTO e l'economia mondiale. Deve evolversi da opposizione a proposizione, esigendo riforme non solo del processo, che ha chiaramente bisogno di una fondamentale democratizzazione, ma anche nella sostanza della WTO e dei suoi tanti accordi. La societa' civile deve chiarire assolutamente che le soluzioni cosmetiche proposte dal commissario europeo del commercio e da altri (un pochino di trasparenza in piu', consultazione e supporto tecnico dei paesi in via di sviluppo) sono grossolanamente insufficienti. Invece dev'essere sviluppato un programma unificante per un cambiamento complessivo che deprivi la WTO di ogni regola che minacci la capacita' delle persone, tramite i loro governi, di proteggere i loro ambiente, salute, mezzi di sussistenza, sicurezza del cibo, diversita' culturale e diritti umani e civili. Al fine di ampliare la capacita' della gente di raggiungere questi obiettivi, la WTO deve anche essere riformata per promuovere , piuttosto che minacciare, forti economie locali. In altre parole, invertire il suo attuale ruolo. Sviluppare un tale programma di cambiamento implichera' mantenere, rafforzare ed estendere alleanze nei settori sociali, in tutto il mondo, attraverso nuovi dialoghi. In particolare il mondo in via di sviluppo ha bisogno di essere rassicurato che questo e' nell'interesse dei suoi cittadini, diversamente dalla continua liberalizzazione economica e dalla crescita guidata dall'esportazione. Questo obiettivo puo' implicare di rigettare l'idea di usare la WTO per imporre standard ambientali e sindacali globali, un compito che e' meglio lasciare alle agenzie delle Nazioni unite fornendole di poteri vincolanti comparabili a quelli della WTO. Ma la WTO dovrebbe ancora essere riformata cosicche' non minacci questi standard laddove esistano. Se i governi dei paesi in via di sviluppo possono essere persuasi su questi punti, la societa' civile potrebbe trovare in essi dei potenti alleati, poiche' anch'essi sono emersi rafforzati da Seattle, per la prima volta capaci di esigere un alto prezzo per la loro futura cooperazione. Molti inoltre condividono l'obiettivo di rivedere gli accordi e procedure della WTO e di resisterne la futura espansione. Se questo unificante programma di riforma puo' essere sviluppato, la societa' civile dovra' far mantenere ai governi americano ed europeo la loro parola. A Seattle e subito dopo hanno promesso di includere le preocupazioni sociali e ambientali nelle decisioni future: ora li vedremo alla prova. E non solo rispetto alla WTO, ma anche lo IMF e la Banca mondiale, ed ogni altro tentativo regionale o bilaterale di far rientrare simili programmi dalla finestra. Se non lo faranno, devono sapere che incontreranno piu' opposizione che mai, non ultimo da una nuova generazione di giovani radicalizzati da Seattle, e dovranno confrontarsi con crescente resistenza ad ogni prossimo importante evento economico, fino al punto di lanciare campagne per finire l'adesione e il finanziamento di singoli paesi alla WTO. Seattle ha raggiunto cio' che non era stato mai ottenuto prima: ha esposto alla luce del sole il sistema del commercio mondiale, e conseguentemente quel sistema non potra' piu' essere lo stesso. Quanto differente sara' dipende pero' dalla capacita' delle NGO e dei cittadini in tutto il mondo di mantenere una sufficiente pressione sui loro governi per fare della riforma complessiva una necessita' politica. Il significato della sfida e' chiaro. Come dice l'attivista indiana Vandana Shiva questa e' la piu' importante lotta per la democrazia e per i diritti umani del nostro tempo. Non sara' facile, ma Seattle ha creato un'unica opportunita' storica per un vero cambiamento. Ora e' il momento di coglierla.


Il call centre del Partito radicale transnazionale

di Michele Boselli

Introduzione. Raccolta di tre interventi di "consulenza" da parte di Michele Boselli, gia' funzionario del Partito radicale transnazionale e attualmente impegnato nell'industria dei call centre, a commento della mancanza di professionalita' lamentata da alcuni potenziali sostenitori contattati dal call centre del Partito radicale stesso.

" [...] e lo dico con umilta' - resistendo e lottando ogni giorno, anche grazie all'invenzione, 4 anni fa, del primo - e a mia conoscenza ancora unico - call centre italiano per l'iniziativa politica [...]" (dalla relazione a Chianciano, 14-17 dicembre 2000, del tesoriere del Partito radicale Danilo Quinto).

Con altrettanta umilta' provero' ad esporre in sintesi i problemini del call centre del Pr, avvalendomi della mia esperienza di quasi 50.000 telefonate in un call centre internazionale con un traffico di 15 milioni all'anno, gestito con la professionale cattiveria di chi deve trarne il massimo profitto.

1. Il piu' grave errore e' sempre stato quello di ostinarsi a chiamare piu' volte le stesse persone a brevi intervalli di tempo senza tenere conto della loro insofferenza, che nel carattere tollerante degli italiani, e del bacino radicale in particolare, raramente si manifesterebbe nell'appellarsi alla legge sulla privacy, ma cionondimeno aliena le simpatie di molti che si allontanano perche' a torto o a ragione sviluppano l'impressione di essere coinvolti soprattutto come mucche da mungere.
Sapere ascoltare di piu' il "cliente", sintonizzarsi con lui e usare un po' di psicologia lasciandolo parlare piu' di quanto si parli, raccogliere la sua opinione con gli opportuni strumenti informatici e, pur senza incoraggiare le lamentele, accoglierle per esaminarle scrupolosamente, nella consapevolezza che c'e' la possibilita' che l'errore potrebbe essere dalla propria parte, anche se sappiamo che probabilmente non lo e'. L'ultima cosa che il "cliente" deve pensare e' che l'agente abbia fretta di concludere la telefonata una volta appurato che non e' stata produttiva per l'autofinanziamento: deve invece essere rassicurato che quanto ha da esporre (le ragioni per le quali nega il contributo finanziario) venga preso in considerazione e puntualmente trasmesso ai responsabili che dirigono il call centre. Per quanto attiene a questo punto e in particolare alla sua seconda parte, lascia molto bene sperare questo passaggio della relazione del tesoriere:

"[...] dovra' essere data attenzione alla comunicazione personalizzata con gli aderenti sulla base di un profilo che venga continuamente alimentato da tutti i contatti personali o telematici che l'aderente ha con il partito. Particolarmente importante in questo caso e' la funzione de Call Centre che deve essere visto come una preziosa opportunita' di conoscenza della persona contattata in modo da 'ritagliare' la comunicazione secondo le sue preferenze e i suoi interessi [...]"

Suppongo che per mettere in pratica tutto cio' egli pensi di servirsi di strumenti di Marketing and Sales Management o di Customer Relationship Management come per esempio Siebel, per citare quello forse piu' noto. Ma devo mettere in guardia il buon tesoriere che servira' a ben poco istruire gli agenti del call centre sull'uso di questi software se non verranno addestrati anche su diverse altre cosette altrettanto e piu' importanti, come per esempio:

2. Questo secondo punto e' piu' delicato da affrontare senza urtare la suscettibilita' dei bravi agenti del call centre radicale, ma qualcuno prima o poi lo doveva pur fare ed e' meglio che ci provi io delicatamente piuttosto che li fulmini Iuri Maria Prado... Lo spiccato accento regionale e' tra i maggiori fattori di irritazione per le persone che ricevono una telefonata fuori dal Lazio (oso supporre si tratti dell'80% del totale). E' un'irrizazione che generalmente non viene espressa per il timore da parte delle persone settentrionali che cio' possa venire interpretato male e provocare la permalosita' che e' per giunta caratteristica dello stereotipo romanaccio insieme alla faciloneria e trascuratezza che a torto o ragione e' un dato di fatto si associ automaticamente al provincialismo della capitale. Ora, anche ammesso che il Pr assuma la decisione politica di intraprendere una legittima battaglia per rivendicare la nobilta' della musicale parlata trasteverina, non sarebbe compito del call centre di condurla nella pratica quotidiana del telemarketing in modo controproducente ai fini dell'autofinanziamento.

D'altra parte, che ci piaccia o meno il call centre del Pr si trova a Roma. Per certi aspetti sarebbe un'ottima pensata trasferirlo all'estero come fanno tante aziende, sia per i minori costi che per inserire gli agenti in un contesto che permetta di coniugare la loro esperienza con una prospettiva di eventuale evoluzione di questo strumento in senso transnazionale e quindi plurilingue. Esisteranno pero' delle ragioni per tenerlo a Roma e io non le discuto in questa sede, cosi' come non discuto che a farne parte siano persone del luogo. Basta pero' il minimo sforzo per parlare italiano senza un pesante accento, come fanno i nostri mulo abruzzese e montanara piemontese o gli annunciatori dei network radiofonici nazionali. Gli agenti del call centre, che anch'essi operano a livello nazionale e non hanno il dovere di nascere parlando cosi', dovrebbero pero' essere messi nella condizione di poter fruire di aiuto nel rendere piu' neutra la loro dizione.

" Il telefono amplifica l'enunciazione incurante. Concentrati sempre su quello che dici e sul tono di voce che porta il messaggio: i tuoi clienti vogliono fare affari con una azienda che comunica in modo chiaro ed efficace "

Prendendo spunto da questo principio di Ted Hogan, il guru dei call centre autore di "Ted's Telephone Training Techniques", ho recentemente ricavato da internet un breve documento che e' stato scelto per essere usato nel training degli agenti (quasi un migliaio di 13 paesi) nel call centre dell'azienda dove lavoro. Se puo' servire, lo propongo di seguito come terzo punto anche all'attenzione di chi si occupa del training degli agenti del call centre radicale. Si intitola:

3. Migliorare la propria voce. Quando parliamo per telefono ai clienti, l'impressione che trasmettiamo loro dipende interamente dal suono della nostra voce: il modo di parlare, che e' relativamente poco importante quando ci incontriamo di persona, diventa fondamentale per condurre con successo la conversazione. I migliori agenti dei servizi clienti sanno che le loro voci devono mantenere l'interesse del cliente e aggiungere impatto al messaggio. Una buona voce si distingue per essere chiara, gradevole e convincente. Non tutti nascono con queste qualita', ma tutti possono svilupparle: ecco alcuni modi di migliorare la propria voce.

- Parlare con un tono piu' basso. E' un fatto dimostrato che la gente preferisce ascoltare una voce con un tono basso piuttosto che una fastidiosa voce stridula, che fa l'effetto di un allarme antincendio: desta immediata attenzione ma diviene presto fastidiosa. Al contrario, le ricche tonalita' dell'organo di una chiesa sono molto piu' piacevoli da ascoltare: il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di sviluppare una voce con queste tonalita', cosicche' il cliente desideri rimanere in linea e ascoltare cio' che abbiamo da dirgli.

Per aggiungere profondita' alla propria voce, bisogna provare a parlare con la bocca piu' aperta: invece di spingere le parole attraverso i denti, occorre formarle accuratamente con le labbra. I ventriloqui praticano questo principio al contrario (ecco perche' i pupazzi hanno sempre una voce stridula: le loro parole sono pronunciate attraverso una bocca quasi chiusa). Funziona bene per i ventriloqui, ma e' una pratica fastidiosa nelle normali conversazioni. Bisogna invece tenere le labbra in movimento affinche' le parole suonino piu' chiare e piu' gradevoli alle orecchie dei clienti.

- Lo stress incide sulla voce. Anche lo stress puo' alzare il nostro tono di voce. Se siamo tesi o nervosi i muscoli della gola si irrigidiscono impedendo alla voce di suonare rilassata. Ecco un semplice esercizio che rilassa la gola e migliora la qualita' vocale: inspirare profondamente attraverso il naso, trattenere il respiro per alcuni secondi ed espirare lentamente attraverso la bocca fino allo svuotamento dei polmoni. Avvertiremo cosi' i muscoli della gola, del collo e delle spalle rilassarsi. La chiave del successo consiste nel rendersi consapevoli di quando si e' stressati e quindi praticare questo breve rituale prima di riprendere le chiamate. Attori, oratori e cantanti lirici hanno sempre preso lezioni per allenare la loro voce, ma nel mondo di oggi questo tipo di training non e' ristretto alle professioni nel campo della politica o dello spettacolo. Avvocati, dirigenti, insegnanti e il personale addetto alle vendite hanno capito quanto la voce costituisca un importante ingrediente del loro successo, e soprattutto che la voce con cui sono nati non e' necessariamente quella con cui devono convivere per tutta la vita. Una buona voce si ottiene con la pratica. Ripetendo delle frasi davanti a uno specchio possiamo assicurarci di muovere bene le labbra e la bocca. Usando un registratore possiamo sentire la nostra voce come viene percepita dai clienti. Grazie a questi semplici accorgimenti pratici possiamo lavorare sulla nostra voce finche' siamo pienamente soddisfatti di come suona. Con un piccolo sforzo possiamo davvero suonare piu' gentili e convincenti con i nostri clienti, interni o esterni che siano.

4. Abbiamo visto come lo stress incida sulla voce. Ma non solo. In questo quarto punto non dobbiamo dimenticare che quello dei tanto bistrattati agenti di call centre e' per certi aspetti uno dei lavori piu' stressanti: l'agente e' senza rete mentre forma il numero di telefono di un potenziale "cliente" sconosciuto che per esempio in quel momento puo' essere incavolato per i fatti suoi e sfogarsi sul malcapitato parafulmine. Per mantenere la calma in tutte le situazioni e trasmettere sicurezza, senza scivolare nell'arroganza e senza contagiare il proprio occasionale cattivo umore, ma senza neppure farsi mettere i piedi in testa dal cliente e' necessario un training di tutto rispetto. Nell'azienda dove lavoro gli agenti del telemarketing godono di un periodo da tre a sei settimane di training prima di mettere le cuffie per effettuare le telefonate piu' elementari: credo che altrettanto meriterebbero quelli del call centre radicale. Se infatti sono dovute a pura cattiveria certe critiche lette qui, non e' neppure giusto ne' utile alla da altri gia' deturpata immagine del partito ne' rispettoso della persona che effettua la telefonata e di quella che la riceve mettere in linea una impreparata "piccinina", come qualcuno l'ha definita. E' invece necessario il contrario e cioe' considerare anche l'agente del call centre un "cliente" come quelli esterni altrettanto bisognoso della "customer satisfaction" che egli o ella potra' conseguentemente trasmettere quando effettua la chiamata. Esistono nel settore dei call centre molti tipi di incentivi, sui quali non mi sto a dilungare, che aiutano a costruire un team affiatato, ma vorrei sottolineare come il fattore piu' importante sia il training perche' quello umano e' il capitale piu' importante di qualunque software sul quale il nostro tesoriere (o chi per lui responsabile del call centre) puo' investire.

PARTE SECONDA
Invitato da Giacomo Nardone, sono certamente disponibile ad offrire una consulenza gratuita al call centre radicale, ma a 2.500 km di distanza e' una consulenza sui generis e limitata a questi interventi. Supponiamo invece che in un momento di follia il tesoriere mi acquisti con un contratto miliardario dalla multinazionale dei computer per ricondurmi alla transnazionale dei tappeti volanti, dandomi carta bianca per rifargli il call centre. Ecco dunque per l'orrore di alcuni lettori cosa diavolo combinerei. Per prima cosa lo sradicherei dal centro di Roma e come possibili alternative studierei quale opzione di sradicamento soft la fattibilita' di Brussels prevalentemente in funzione di quale sia il tetto di chiamate outbound che il gruppo parlamentare puo' effettuare gratuitamente dal PE; e quale opzione di sradicamento hard invece Ashford, appena al di qua della Manica a un paio d'ore da Brussels, per i vantaggi tipicamente britannici che ogni anno portano a insediarsi nel Kent migliaia di operatori economici francesi.

Una volta perso abbastanza tempo a studiare queste due opzioni, sceglierei l'India. Non soltanto infatti quel paese e' tra i piu' promettenti e probabilmente destinato a diventare il numero uno per l'industria dei call centre, ma vi sussistono anche evidenti ragioni politiche in funzione di quella che ho gia' definito nell'intervento precedente l'eventuale evoluzione in senso transnazionale del call centre. Ma procediamo con ordine. Nel contesto di intuibili vantaggi che economici che gia' attraggono molte aziende a trasferirvi i propri call centre, quello radicale opererebbe a Dehli come quinta sede radicale dotata, oltre al sottoscritto che trascorrerebbe i week end a Mauritius (Turkos non c'entra), anche di un residente permanente politico sul modello di Perduca a New York con la differenza che nell'azione locale potrebbe contare, se e quando necessario, anche su una piccola pattuglia di forza militante bell'e pronta importata dal'Italia. Veniamo percio' ad affrontare il discorso del fattore umano, riprendendolo come il piu' importante dal punto quarto e conclusivo del mio intervento precedente. Avendo avuto carta bianca, che ne farei delle vite, ambizioni, fidanzati e motorini degli agenti del call centre radicale? Non so quanti siano ma, posto X il loro numero, secondo la formula X/2 = RJ(102+192) selezionerei da imbarcare sui voli RJ102 e RJ192 da Roma per Delhi via Amman la meta' di loro arrotondata per eccesso che sappia meno peggio l'inglese ma soprattutto che abbiano meno vincoli che li leghino a Roma. Costoro avrebbero un mese di tempo per ambientarsi e nel contempo subire il training che infliggerei loro impietosamente. Ma cosa dire del mio training, io che nell'umilta' ormai ci faccio il bagno? Per quanto mi riguarda avrei speso le settimane precedenti (mentre fingevo di valutare le opzioni di Ashford e Brussels) a farmi "trainare" dagli agenti per approfondire quanto ci sia di specifico nella loro attivita' rispetto alla generalita' dei call centre e per conoscerli personalmente cosi' da poter effettuare una selezione consapevole e responsabile. Selezione non e' il termine piu' adatto perche' coloro che resterebbero non sarebbero i meno bravi, ne' la conoscenza dell'inglese la discriminante principale; lo sarebbe invece il loro orientamento verso quale sfida sentirebbero piu' stimolante, giacche' anche il rimanere a Roma costituirebbe una sfida, diversa ma di pari portata: si tratterebbe di assicurare, con forze dimezzate, la continuita' di un servizio in un periodo di transizione la cui durata si misurerebbe in mesi. Dopodiche' sara' sempre comunque necessaria la presenza nella sede romana di alcuni agenti per le chiamate inbound.

Ma rivolgiamo ora i nostri devoti pensieri a coloro che sono arrivati a Delhi al doloroso prezzo della rinuncia all'articolo determinativo "er" vittima del mio training, e sono ansiosi di sapere cos'altro abbia loro riservato il barbutamente mefistofelico tesoriere abbandonandoli nelle mie mani. Essi svolgeranno meta' della loro attivita' di notte, secondo collaudati schemi di rotazione che li vedranno alternarsi tra loro, godere del giusto riposo e svolgere altre piacevoli attivita' disintossicanti dal guinzaglio delle cuffie. Essi cresceranno e si moltiplicheranno, dapprima raddoppiando con l'inserimento di elementi pescabili in diverse categorie quali locali ed esterni con esperienza di call centre, militanti radicali di madrelingua inglese e spagnola, etc. L'eterogeneo insieme di tale fauna costituira' un secondo team che sfruttando le stesse postazioni in una diversa fascia oraria svolgera' analoga attivita' di telemarketing sulle Americhe. Confrontando costantemente le prestazioni e i risultati conseguiti dai due team si sviluppera' tra di essi uno spirito di sana e amichevole competizione come gia' era successo nella fase precedente (voi non ve n'eravate accorti ma io l'avevo notato) tra il team romano de Roma e quello "indiano".

In questa nuova fase sara' compito principale dei team leader di bilanciare attentamente capacita', ambizioni e plurilinguismi mescolando le persone per contaminare reciprocamente i due team affinche' quello importato originalmente dall'Italia diventi piuttosto europeo, per finire con l'apoteosi dell'introduzione di un terzo turno in una terza fascia oraria adatta a servire il sud-est asiatico. A questo punto saranno passati almeno un altro paio d'anni di storia del call centre radicale, il cui sradicamento da Roma oltre al radicamento del Pr nel subcontinente indiano avra' prodotto il simpatico fenomeno per cui i giovani simpatizzanti radicali in cerca di avventura e di un anno di esperienza di lavoro all'estero presteranno servizio volontario unendo l'utile al dilettevole...

PARTE TERZA

Spero che Giacomo Nardone rimarra' meno sconvolto da questo mio terzo intervento sul tema, che prende spunto dalla domanda retorica: sarebbe giusto o "immorale" incentivare gli agenti con delle provvigioni sui finanziamenti che raccolgono? La risposta di chi ci ha provato e' positiva. Chi ci ha provato sono per esempio le sezioni britanniche di Amnesty international e dei Friends of the Earth, organizzazioni alle quali sono iscritto e ho pertanto avuto modo di conoscere alcuni aspetti del loro fundraising. Esse si affidano a una societa' chiamata Tim Lilley Fundraising Consultancy (TLFC), fondata e diretta da un signore che ha lavorato 30 anni nelle vendite e piu' recentemente e' divenuto un accreditato psicoterapeuta londinese. Dal 1972 questa societa' ha sviluppato un approccio denominato "Differentiated Direct Fundraising" (DDF), un termine preso dalla teoria educazionale che descrive un approccio flessibile nell'insegnamento, che viene ottimizzato per tutti gli studenti permettendo differenze individuali nello stile, interesse, motivazioni e attitudini all'apprendimento. In termini di fundraising l'approccio differenziato fa leva sulla stessa sensibilita' nel contattare, costruire un rapporto col potenziale sostenitore e accompagnarlo nel suo processo decisionale. Questo approccio tiene conto delle differenze individuali nelle persone contattate e rispetta pienamente il diritto del potenziale sostenitore a dire di no. Gli agenti addestrati secondo questa metodologia non lavorano secondo un copione perche' questo detrae dalla grande varieta' di diversi stili personali che essi sviluppano nel contesto dell'approccio DDF. Il training e' piu' lungo di quello per l'usuale approccio a "copione" e richiede molto piu' impegno da parte degli agenti, la cui soddisfazione (e divertimento) nel lavoro aumenta enormemente poiche' le abilita' e creativita' di ognuno sono continuamente chiamate in gioco.

L'approccio DDF e' rilassato, rispettoso e non invasivo. Richiede intelligenza, positivita', impegno e coscienza da parte di chi lo pratica: i corsi di training DDF aiutano gli agenti a sviluppare queste qualita'. A grandi linee questo training comprende l'esplorazione di: 1. Come gli esseri umani stabiliscono e mantengono rapporti. 2. I modi in cui giungono a delle decisioni. 3. Come raggiungere l'equilibrio tra l'essere di massimo aiuto al potenziale sostenitore e mantenere al tempo stesso lo scopo primario di raccogliere fondi. 4. Come liberarsi da impedimenti alla chiara comunicazione.

Da un punto di vista pratico il training viene fornito in classi con un numero limitato di agenti, al massimo otto, ai quali vengono insegnate tecniche di rilassamento per facilitare uno dei concetti fondamentali del DDF: che il sostenitore si senta aperto e a suo agio quando viene contattato da agenti che sono rilassati anziche' frettolosi e stressati. Poiche' i corsi stessi sono differenziati a seconda delle perculiarita' dell'organizzazione beneficiaria del finanziamento, essi hanno un orario di massima (due sessioni di un giorno intero e sette sessioni di mezza giornata durante le prime sei settimane di lavoro) ma non una rigida strutturazione. L'intenzione e' di esplorare i temi di cui sopra esaminando i queattro punti principali che comunemente si incontrano nelle attivita' di fundraising: 1. Stabilire e coltivare il contatto con le persone. 2. Suscitare interesse. 3. Preoccupazioni, dubbi e richieste del sostenitore. 4. Raggiungere una decisione finale (chiedere il denaro).

In conclusione i risultati cui tende il training DDF riguardano la DIFFERENZA nel RAPPORTO col sostenitore: - Differenza. Per raccogliere abbondante ricchezza una organizzazione ha bisogno di essere identificabile come unica rispetto alla concorrenza. Usando l'approccio differenziato ci assucuriamo che il contatto tra l'agente ed ogni potenziale sostenitore sia il piu' unico, personalizzato e soddisfacente possibile. - Rapporto. Quando un potenziale sostenitore si sente rispettato piuttosto che "usato" e' piu' probabile che doni in modo continuativo e completo. E' improbabile che non tenga fede all'impegno concordato e, se anche decide di non finanziare una particolare iniziativa e' piu' probabile che lo faccia quando approcciato nuovamente una prossima volta se la loro decisione e' penamente accettata e trattata con rispetto.

Amnesty e gli Amici della terra si servono di TLFC per avere un training professionale cosi' da sviluppare una comprensione approfondita delle capacita' richieste per essere un efficiente "differentiated fundraiser" e allo scopo di assistere gli agenti a fare buon uso del loro talento in modo che il lavoro diventi una parte creativa e premiante delle loro vite.


Pillole radicali in preparazione del Congresso

di Massimo Lensi

Introduzione. In una serie di interventi nel forum telematico dei radicali italiani, l'ex funzionario del Pr Massimo Lensi affronta la questione della mancanza di legalita' statutaria nel Pr stesso e della sua mutazione genetica in partito ideologico di matrice liberista, per concludere auspicando la convocazione di un Congresso di rilancio delle iniziative transnazionali.

Vorrei approfondire un aspetto delle elezioni on line dei Radicali. Queste elezioni non sono state concepite per il rinnovo dell'organo, ma per il suo ampliamento. Differenza di non poco conto. Il Comitato di Coordinamento dei Radicali nacque due anni fa circa (inverno 1998/99). Non vi furono elezioni ne' consultazioni interne a nessun livello. L'organo si 'autoconvoco' in base ad un preciso tam tam tra alcuni compagni ed amici, sulla base dell'astratto concetto di 'coloro che si stanno occupando di qualcosa all'interno del Movimento'. Una specie di auto-cooptazione spontanea? No. Pannella aveva necessita' di formare un luogo politico di rappresentanza, necessario a lanciare le famose campagne del 1999. E quindi fu dato il via ad una cooptazione precisa, quasi scientifica. Non tutte le campagne erano ancora state definite, ma di referendum e Rivoluzione Liberale gia' si iniziava a discutere. In quel periodo ero fuori d'Italia, tra India e Tibet, e mi accorsi al mio rientro dopo numerosi mesi, esattamente il giorno di apertura dell'Assemblea dei Mille, che qualcosa era cambiato, radicalmente cambiato. Pannella era stato eletto precedentemente all'unica carica prevista per il' Comitato dei 48' che non ha ne' statuto ne' interna corporis. In breve: regole. Vive sulla tradizione e sulla consuetudine interna, si dice. Pannella era il presidente del Comitato. L'Assemblea lancio' le tre campagne (si era aggiunta nel frattempo la 'Emma for President': tralascio la storia della primogenitura di questa campagna...) e ratifico' un'ulteriore responsabilita', quella di Coordinatore dei Radicali italiani, ma non del Comitato. Nel corso dei mesi i Radicali per la prima volta scelgono, contravvenendo alla loro stessa storia, una ideologia come base fondante della loro politica: il liberismo in economia. Mai era successo. La strategia dei radicali si era sempre fondata sul congresso annuale e sulla pragmaticita' degli obiettivi inteso come programma. I tempi, dicevo poco sopra, stavano modificando il DNA radicale. Non a caso dal 1995 non era stato piu' convocato nessun congresso e il partito (radicale) non esisteva piu'. Se non nel sito www.radicalparty.org (premonizione dei fatti in corso?) e all'ONU come NGO. Salto temporale. Primavera 2000. Pannella si dimette da presidente del Comitato e non partecipa piu' a nessuna riunione dello stesso. Potrebbe sembrare, ma non lo e', una sconfessione pubblica dell'operato del Comitato e del Coordinatore anche a causa di un documento approvato (tra regionali e voto referendario) dallo stesso Comitato che ne avrebbe 'obbligato' (come analisi della teoria rivoluzionaria) lo scioglimento in caso di sconfitta referendaria. Avvenuta, ma non - attenzione alla finezza - interpretata come 'sconfitta'. La sconfitta e' di Berlusconi... quello del 1994. Alla conclusione dei lavori dell'ultima riunione Pannella decide di contravvenire a questa inquietante prassi chiamando in causa la 'disciplina' della sua funzione di eurodeputato della Lista Bonino. Interviene. Nel frattempo, nel corso della riunione precedente, il Comitato da vita ad una Direzione, composta anche dal Coordinatore nonche' dal Tesoriere (ma del PR) e dall'altra responsabilita' - funzionale - che nel corso dei mesi aveva preso vita dal nulla: il responsabile dell'informazione. Pannella nel suo intervento all'ultima riunione del Comitato legittima la vita stessa del Comitato attraverso la metafora istituzionale del parlamento italiano autoconvocatosi per ben due volte nella sua storia (la seconda, onestamente, non mi pare proprio una autoconvocazione in senso stretto, ma tutto e' possibile).

Le elezioni on line andranno quindi a creare anche una vera legittimita' a operare del Comitato, creando pero' un organo ibrido composto da un gruppo (i primi 47) di vecchi autoconvocati, e da un secondo di eletti attraverso la competizione telematica. Tutto cio' mi appare strano e confuso e sempre piu' legato ad una concezione partigiana del partito, vissuto esclusivamente come arma esterna in cui la democrazia interna poco conta. Ma necessario alla scelta - funzionale - di portare nel prossimo parlamento i 'folti' (poi trasformati piu' onestamente in 'pattuglia') gruppi parlamentari liberisti, liberali e riformatori all'americana. Il formarsi di un nuovo gruppo di dirigenti, non membri del Comitato, all'interno del movimento, e' un secondo elemento di riflessione. Anch'essi necessiterebbero di una cooptazione perche' anch'essi sarebbero utili - funzionali - al nuovo corso del progetto. Ma apriti cielo, si vedrebbero i radicali 'common people' andare a Torre Argentina con l'ascia in mano. Trucco: le elezioni on line. Chanches sulla carta per tutti... Ripeto: e' una scelta, anche legittima (se ci fosse piu' chiarezza da parte dei promotori dell'iniziativa), ma di cui vorrei fossero coscienti coloro che si stanno registrando e che decideranno di presentare una lista. A meno che una possibile lista di opposizione non sia veramente tale, forte, capace di essere da sola soggetto politico, con un proprio programma alternativo a quello della Direzione. In fondo la strada c'e'. Anche solo per divertimento... Il tempo pero' corre... Cerco di approfondire il tema della 'democrazia interna' dei Radicali. E parto dall'interessante constatazione del Coordinatore del Radicali sul tema, ripresa poi da numerosi interventi di altri dirigenti radicali durante i seminari e le riunioni. "Le forme di vera e propria "rappresentanza interna" (ad esempio l'eventuale rappresentanza territoriale o tematica) non possono essere stabilite prima di aver definito le regole complessive del Comitato, e quindi del relativo "tesseramento". I numeri dei partecipanti mediamente alle nostre assemblee non ci pare che consentano oggi dinamiche autenticamente democratiche per l'elezione della rappresentanza interna. Il rischio e' quello di una caricatura di democrazia dove prevale chi sa organizzare il sostegno di pochi amici. Proponiamo quindi la strada del sorteggio, gia' percorsa altre volte nella storia radicale." (3 settembre 2000, su Agora', Conferenza Rivoluzione Liberale) Va riconosciuta l'onesta'. Anche se questa succinta analisi e' piena di contraddizioni che credo non necessitino di ulteriori spiegazioni. Non c'e' democrazia interna perche' non ci sono partecipanti alle riunioni, ma non ci sono partecipanti alle riunioni perche' non c'e' democrazia interna. Il percorso per ottenerla e' il 'sorteggio' perche' si eviterebbe il rischio, si dice, di cordate tra amici (punto che dovrebbe riguardare invece un'altro momento, quello elettivo, dell'ampliamento del Comitato). Mi sfugge poi il concetto di 'rappresentanza tematica' in questo contesto, specialmente in relazione alla decisione di consentire la presentazione di 'liste programmatiche-tematiche'. Una volta esistevano, come oggi ad onor del vero, le associazioni federate al partito (Non c'e' Pace, Nessuno Tocchi Caino) che hanno rappresentanza all'interno addirittura nella Direzione (i due segretari fanno parte della Direzione). Misteri della fede... Non sto qui a ripetere analisi gia' scritte (liste contrapposte per gestire le candidature e gestione elettorale della Direzione per pilotare di voto, disponibilita' condizionata da parte della Direzione di convocare un Congresso), ma e' veramente strano che sia la quota dei 25 'sorteggiati' a trasformarsi in garanzia per la democraticita' dell'iniziativa. Nascera' quindi un comitato composto da 1) i vecchi 47 'autoconvocati (ma se andiamo a leggere i risultati del voto sui documenti approvati dal Comitato si scopre che dei 47 iniziali solo 28 si sono espressi votando o astenendosi); 2) da 25 eletti on line; 3) da 25 sorteggiati (con criteri di scelta: giovani sotto i 23 anni, donne ecc.); 4) da 25 cooptati in senso stretto. Solo i 25 sorteggiati garantiscono la democrazia interna?Sembrerebbe di si' da quel documento... E questa Direzione che ruolo giochera' nel nascituro Comitato? E come nasce e con quale legittimazione la carica di 'responsabile dell'informazione'? Re Artu' che pone la spada sulla spalla del cavaliere?

Prendiamo in esame, questa volta il liberismo. Brevemente perche' deve essere solo uno spunto, ma non riesco a capire un aspetto di questa scelta. Il PR nella sua storia ha sempre rifiutato di sposare qualsiasi ideologia, specialmente in economia. Il programma del partito si basava nel passato sull'individuazione degli obiettivi e su questi partivano le iniziative, maturate in documenti approvati all'interno dei Congressi (annuali o biennali). Il segretario era aiutato da mozioni che avevano nella maggior parte dei casi natura vincolante (con maggioranza qualificata dei 2/3 dei votanti) L'analisi radicale (condivisibile) parla di 'blocchi sociali' nel paese. Si adotta il liberismo per rompere l'assetto conservatore di potere che guida la societa' italiana. A destra come a sinistra. Si arriva a definire la Rivoluzione Liberale, liberista e riformatrice all'americana. La natura pragmatica del radicalismo e' scomparsa in nome dell'arrivo di una ideologia che dovrebbe svolgere la funzione, come tutte le ideologie, di rappresentare le categorie sociali di riferimento: partite IVA, disoccupati, precari ecc. In breve e' un altro partito quello che sta nascendo oggi che poco ha di simile al vecchio PR. Sta prendendo vita un partito ideologico che come sappiamo non necessita di 'democrazia interna', ma semmai di burocrazia. Il rischio e' molto alto. Tralascio in questa fase l'analisi sulle sconfitte elettorali e referendarie, sul concetto di 'non sconfitta' (battuta di arresto) espresso dal Comitato in sede di riunione di analisi sul voto e sul fatto che il progetto rivoluzionario (che non ha subito sconfitte, quindi) passa attraverso l'entrata in parlamento della pattuglia di deputati liberisti la cui realizzazione si sviluppa anche attraverso la � funzionale � iniziativa delle elezioni on line (di cui pero' solo i sorteggiati sono portatori della garanzia di democrazia interna). Deputati 'per cambiare il sistema' e non farsi cambiare da esso (vagamente mi ricorda qualcosa... di un passato non poi tanto lontano: correva il '77) Sfumo sulla mescolanza tra i concetti di 'liberismo' e 'liberalismo'.

Se in un partito e' assente (totalmente o parzialmente) la democrazia interna, la classe dirigente che esso forma che tipo di rapporto ha con la democrazia in generale? La funzione di un partito e' anche pedagogica e si concretizza nel formare una classe dirigente capace di portare 'valori' nel dibattito politico di un paese oppure il fine giusitifica i mezzi? E quindi e' naturalmente piu' forte la componente strumentale, efficientista? Se un partito fa pedagogia cattiva non allenando i suoi dirigenti alla prassi della democrazia (interna) e' possibile che la classe dirigente che ne esce sia impresentabile agli occhi di un potenziale elettorato? Il rapporto di fiducia con l'elettorato (e con i propri iscritti) come si concretizza? E' sufficiente la trasparenza dei lavori interni? Per chi scrive la funzione pedagogica di un partito e' particolarmente importante: crea una vera e propria arma di lotta per la trasformazione della societa'. Ma forse son vaneggiamenti di vecchie ... ideologie! Senza scordarsi , come scrisse Montaigne, che 'piu' la scimmia sale sull'albero e piu' le si vede il culo!"

Leggere con attenzione i documenti radicali e' cosa sempre importante e illuminante. Si puo' condividere o meno la proposta, ma la lettura puo' mettere in luce l'evoluzione di un soggetto politico, al di la' dei contenuti di merito espressi nei documenti. Dalle 'Valutazioni' sull'incontro tra Radicali e Verdi leggo: 'Sono emerse impostazioni differenti, e talvolta divergenti sul cosiddetto "movimento di Seattle", che a nostro avviso rappresenta un ostacolo al processo di abbattimento dei protezionismi a livello internazionale, e che opera contro l'interesse dei Paesi meno sviluppati in modo convergente con le rendite di posizione dei grandi sindacati e dei monopolisti di ogni tipo'. Non entro nel merito. Queste valutazioni - non analisi - hanno un forte contenuto ideologico, anche nell'uso della sintassi e delle parole adottate ('ostacolo', 'abbattimento' per esempio). Il redigente stesso del documento ne era inconsapevole, credo. Sono valutazioni legittime ma ideologiche. Un po' antiche, oserei dire, ed un po' 'moscovite'. Richiamano la memoria di antiche, anche esse, ottusita' post-sessantottesche che spinsero Adriano Sofri, per esempio, a sciogliere Lotta Continua, in nome del marxismo-leninismo. Sofri poi commise errori, fece cose egregie e anche cazzate, ma a suo nome. Qui invece si valuta in nome del 'radicalismo'.

Non e' importante che nell'altro Forum partecipino Pannella e Bonino. Non e' questo il punto che e' invece: 'ma a Pannella e Bonino importa qualcosa di quella community virtuale?' La valutazione sull'importanza di registrarsi ed intervenire e' riassumibile in questa frase di Von Clausewitz 'Quando la strategia e' sbagliata, raddoppiare le truppe in campo e' un grave errore.' Sta a voi scegliere. Ma se altre strategie, altre alternative fossero percorribili, allora la presenza avrebbe un suo laicissimo peso. Il vecchio pasoliniano - un evergreen della dirigenza - 'bestemmiare' si e' trasformato ormai in pacato miagolio, mentre a molti sovviene il ricordo di un altro Pasolini quello di 'vi hanno impedito di sapere chi siete: coscienze serve della norma e del capitale'. La parte interessante e' il 'vi hanno impedito...', ovviamente! Riporto l'intera poesia: Ad alcuni radicali (Pier Paolo Pasolini, 1959) / Lo spirito, la dignita' mondana / L'intelligente arrivismo, l'eleganza, / l'abito all'inglese e la battuta francese, / il giudizio piu' duro quanto piu' liberale, / la sostituzione della ragione alla pieta', / la vita come scommessa da perdere come signori, / vi hanno impedito di sapere chi siete: /coscienze serve della norma e del capitale.

Mi potro' anche sbagliare, ma secondo me i Registration Days sono (o stanno per) saltati semplicemente perche' i 'punti di riferimento' sparsi per l'Italia non sono molti coinvolti nell'iniziativa. In senso politico, ma anche in quello - chiamiamolo - 'affettivo'. In breve: da Roma non riescono a trovare nessuno che apra un tavolino per strada, perche' l'iniziativa stessa e' una non-iniziativa. Semmai un'idea, ma - ahime' - sviluppata malissimo. Con obiettivi che sono sempre di piu' sotto gli occhi di tutti. Il 'malumore' cresce? Non sarebbe poco di fronte a tanta sicurezza iniziale. E i 'registrati' sono arrivati a quota 4600 circa. Dal 15 agosto. Uhm! Qualcosa non va...

CONCLUSIONI

Il mio scopo e' quello di dimostrare una semplice quanto non detta, verita': il 'partito' sta attraversando una precisa mutazione genetica. La riassumo per brevita', anche se la brevita' non aiuta, data la complessita' del fenomeno: il partito radicale da annuale, pragmatico e tematico sta cambiando pelle e sta assumendo la forma di un partito di natura ideologica (il liberismo in economia). Al posto di una classe dirigente sta nascendo la burocrazia di partito (con a capo una leadership intoccabile). Le elezioni on line possono essere funzionali a questo processo di trasformazione portare una pattuglia di deputati liberisti in parlamento. Con la parola 'partito' intendo descrivere il magma (associazioni, PRT, Movimento, Comitato, Direzione) radicale che, giorno dopo giorno, si sta indurendo, assumendo una forma sempre piu' precisa: il partito liberista radicale. Le iniziative conseguenti sono, per necessita' anche contingente alla politica italiana, il riflesso di questa mutazione. Il meccanismo di rappresentanza assume connotati di 'lotta al blocco sociale'. La parola chiave e' quindi: 'Rivoluzione'. La lotta e' rivoluzionaria, ad una prima lettura, ma istituzionale in verita' se si riesce a sgombrare il terreno dal fascino che la parola rivoluzione stessa evoca in molti. L'iniziativa e' anche funzionale a cristallizzare, a livello organizzativo e per un lunghissimo periodo, lo stesso partito, in vista dei normali eventi che la vita stessa delle persone che compongono la leadership si porteranno con se', sia come conseguenza indiretta per il futuro delle iniziative e come eredita' di analisi e di lotta. Sarebbe impossibile pensare ad un partito radicale senza leadership carismatica, ma se il partito assumesse connotati organizzativi differenti si renderebbe praticabile una sua sopravvivenza. Ma come? In questo scenario una 'opposizione' che cerchi di richiamare attenzione sul tipo di mutazione in corso e' plausibile (e forse anche auspicata?). Sia per quanto riguarda la scelta organizzativa (Comitato ampliato, piu' Direzione) che per quella piu' politica-contingente in senso stretto: alleanze elettorali, programmi ecc. In breve non si deve guardare al futuro e non solo al presente, anche prossimo (elezioni politiche). La via possibile e' quella che passa attraverso la richiesta di convocazione di un congresso del Partito Radicale, l'unico soggetto che ha statuto, organi eletti, ecc. Poco importa se attualmente il PR si definisce 'Transanzionale'. Il congresso e' sovrano. Ma non si puo' dimenticare che fino alla convocazione del congresso il partito (radicale transnazionale) non puo' altro che operare sul terreno a cui e' stato chiamato, per precisa e statutaria responsabilita'. Occorre in breve, come e' riportato nella stessa mozione approvata dal Comitato il 30 luglio 'contribuire al raggiungimento delle condizioni minime necessarie per la convocazione del Congresso del Partito Radicale, in particolare per quanto attiene al nuovo Statuto, al programma politico e al coinvolgimento di un gruppo significativo di iscritti non italiani'. Il compito possibile di una opposizione politica, reale, concreta che non basa la sua dialettica solo sull'assioma 'questi sono stronzi, non c'e' democrazia interna ecc.' e' proprio il lavorare da militanti per creare le condizioni minime di convocazione del Congresso. Insieme a questo (e le iniziative di sostegno alla segreteria possono essere veramente tante: tra poco partira' una campagna Tibet-Cina rinnovata rispetto alle precedenti esperienze, ma anche Pena di Morte, Tribunale Penale Internazionale, lo stesso 'affaire ONU') il gruppo promotore potrebbe raccogliere le firme necessarie ad una formale richiesta di convocazione del Congresso. Lo statuto del partito all'art.2.1.1. recita: 'Il Congresso straordinario puo' essere convocato dal segretario, dal Consiglio Generale con la maggioranza assoluta dei suoi membri, da un terzo degli iscritti da almeno sei mesi al partito'. Questa e' la forma, la procedura descritta che potrebbe pero' essere considerata inattuabile proprio perche' lo stesso statuto e' ormai carta morta. Ma una petizione sottoscritta da qualche centinaia di 'registrati' ed da altre persone tra i militanti e dirigenti, di oggi e d'un tempo', avrebbe il suo valore. Per questi motivi ritengo che una possibile iniziativa, anche bella ed interessante per il dibattito che ne scaturirebbe, potrebbe essere quella di presentare una lista per le elezioni on line dal nome, programmatico, VERSO IL CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE, dove i candidati si dovranno impegnare anche (oltre a coadiuvare il compito di creare le condizioni minime) a raccogliere le firme tra i registrati sulla richiesta della convocazione del congresso del partito entro il mese di giugno del 2001. Per costruire le strade da porre come scelte possibili e percorribili nell'unico luogo dove le decisioni prese sono 'vincolanti' per tutti. Per costruire il confronto ed il dialogo. Il Congresso e' sovrano.


Le contraddizioni delle Nazioni Unite

di Alexandre Deperlinghi

Introduzione. In questo testo risalente al 1998, ma ancora molto attuale, il radicale belga Alexandre Deperlinghi affronta la questione della scarsa visibilita' del Pr nell'estenuante battaglia per il Tribunale internazionale, e piu' in generale quello dell'inadeguatezza dell'ONU rispetto alle tragedie del pianeta, per concludere proponendo questa sua bozza di programma per il rilancio del Partito radicale transnazionale.

Le guerre nel mondo, dal 1945 al 1980, hanno totalizzato lo stesso numero di morti del secondo conflitto mondiale. L'ONU, creata per mantenere la pax russo-americana, ha approvato convenzioni che vietano la tortura, il genocidio e i crimini contro l'umanita', che costringono gli stati ricchi ad aiutare i piu' poveri, ma, malgrado queste splendide conquiste del diritto internazionale ci sono stati il genocidio dei bosniaci, del Biafra, dei timoresi, dei cambogiani, degli Hutu e dei Tutsi, e di tutti quelli che abbiamo dimenticato. Il regime comunista cinese, responsabile di cento milioni di morti in cinquant'anni, ha il diritto di veto al Consiglio di sicurezza, e lo strumento che consentirebbe una vera applicazione delle convenzioni ONU, il Comitato di stato maggiore, non e' mai stato attivato. L'Organizzazione condanna il denaro sporco ma consente l'esistenza di paradisi fiscali che "ripuliscono" 2-300 miliardi di dollari l'anno. Grandi signori del calibro di Kabila, Saddam Hussein, Haffed el Assad, neo-dittatori come Lukashenko, trafficanti di droga come Gulbuddin Hykmatiar, o filantropi come Pol Pot e Suharto hanno avuto una poltrona al palazzo di vetro. L'ONU ha al suo attivo tanti testi contro la fame nel mondo e piu' di mezzo miliardo di morti di carestia al suo passivo, e grazie al principio di non ingerenza l'ONU si e' spesso rifiutata di intervenire manu militari nei conflitti interni degli stati. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione, che in senso stretto significa il diritto dei popoli a scegliere qualsiasi sistema di governo (dittatura del proletariato, democrazie, monarchia assoluta o altro), impedisce all'ONU di approvare una convenzione a favore del diritto alla democrazia nel mondo. L'ONU elenca dei diritti che non puo' fare rispettare senza la volonta' dei potenti. Il fondamento del diritto internazionale da' la prevalenza al diritto degli stati su quello degli individui. Tutto questo conviene ai mercanti d'armi, ai trafficanti di droga, alla "petrol society" ed ai suoi complici. Le conferenze sull'ambiente consentono agli esperti di dire che il disastro si conferma, e agli stati di prendere un decimo delle misure necessarie per evitarlo. Il valore degli scritti dell'ONU va misurato alla luce delle applicazioni effettive dei diritti elencati. Quotidianamente sono sistematicamente violati per piu' di un miliardo di persone. L'ONU non da' nessun aiuto serio per porre fine a queste violazioni. Senza negare le conquiste di diritto dovute alle varie dichiarazioni sui diritti umani, le celebrazioni alle quali assistiamo vanno controbilanciate con il genocidio in Sudan, dove sono morte due milioni di persone. Nonostante l'ONU, una parte importante del mondo gode di una protezione sufficiente dei propri diritti grazie alla "pax romana atlantica", opera della NATO.

VAE VICTIS
Il tribunale di Norimberga non fu un modello di giustizia. Malgrado le assoluzioni e le procedure corrette, e' stato infatti vietato agli imputati di leggere i giornali, impedendo cosi' alla difesa di usare l'argomento dello sviluppo del sistema staliniano in Europa. Il primo capo d'imputazione (guerra d'aggressione in violazione del patto Briand-Kellog del 1928) poteva essere rivolto ai sovietici per l'attacco contro la Polonia, i paesi baltici e la Finlandia. Per cio' che riguarda il secondo capo d'imputazione (i crimini contro i principi generali delle nazioni civilizzate: il genocidio), gli stessi sovietici non hanno dovuto rispondere del massacro di 10.000 ufficiali polacchi a Katin o del terrore staliniano. I russi non furono processati semplicemente perche' erano dalla parte dei giudici. Norimberga fu un esempio di giustizia giusta, ma parziale, dei vincitori contro i vinti.

Ci sara' riconosciuto un ruolo determinante nella battaglia per la ICC (Corte penale internazionale), ma occorre rendersi conto che questa battaglia ha consumato enormi risorse umane e finanziarie, in cambio di una notorieta' all'estero ben poco gratificante per il partito, dato confermato dalle cifre del tesseramento sulle iscrizioni all'estero. La Corte penale internazionale conviene al regime ONU perche', in sostanza, non rimette in causa la sua legittimita'. L'adozione di una norma dello statuto del Tribunale per la Yugoslavia, che impedisce di processare il personale ONU, in particolare i caschi blu che frequentarono i bordelli serbi (le fanciulle musulmane erano costrette a prostituirsi prima di essere ammazzate), fu una condizione sine qua non della creazione del Tribunale per la Yugoslavia. C'e' da rimanere perplessi davanti alle pagine delle maggiori testate internazionali, riempite di editoriali a favore dell'ICC. Offriamo un programma politico talmente edulcorato che non fa piu' paura al potere come una volta, oppure il potere e' cambiato e i buoni D'Alema e la mafia degli eurosocialisti ci stanno preparando davvero "le lendemains qui chantent" (il Sol dell'avvenire di Mao Tse Tung)? Va ratificato subito il trattato della ICC, come chiede un Robert Badinter, lo stesso che presiedeva una commissione giuridica incaricata di dare un parere sull'allora nuovo conflitto in Croazia e in Bosnia e che riteneva come sola possibilita' per uscire dalla crisi di ottenere un accordo tra le parti, nel pieno rispetto del diritto internazionale (idea ripresa da Cristopher Hill per i serbi e gli albanesi). Poi le bombe americane con l'arrivo di Chirac hanno messo tutti d'accordo.

Fa piacere essere d'accordo con l'ex guardasigilli francese sulle ratifiche, ma non apparteniamo allo stesso partito, le nostre radici politiche sono diverse. Il nostro surrogato di partito transnazionale non afferma abbastanza la differenza tra radicali e socialisti come lui: la necessita' di vedere i diritti non solo enunciati, ma veramente affermati (a volte con l'uso legittimo della forza, purtroppo). Montesquieu ne "L'esprit des lois" evidenziava la tripartizione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Il trattato che istituisce la ICC crea, di fatto, un inizio di giustizia mondiale, ma quale potere legislativo ed esecutivo mondiale stabilira' le regole che consentiranno di fermare le stragi e i criminali di guerra? L'Assemblea generale dell'ONU non e' il Parlamento mondiale. La logica stessa dell'ONU impedisce di trasformarla in una assemblea democratica e, anche se questo fosse possibile, accadrebbe il giorno successivo alle calende greche, feriale. I criminali della scorsa guerra mondiale sono stati fermati con la forza: un Milosevic e il sistema nazionalserbo non hanno paura di altro (per arrestare Toto Riina furono necessari 130 uomini in loco). Sono i bombardamenti NATO che hanno calmato i serbi della Bosnia.

Un criminale come Kabila e' ospitato in tre capitali europee mentre i "Lords Justice" rimettono in causa a Londra il fondamento delle convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche, negandone l'applicabilita' anche ai capi di stato reggenti ritenuti responsabili di crimini contro l'umanita' (fra i quali la tortura). La giustizia della regina ("suprema fontana di giustizia") fa acqua e a Parigi Jacques Chirac onora dieci capi di stato africani invece di arrestarli. I padroni del nostro mondo reggono perche' nessuno rimette in causa la loro legittimita'. Le battagliette transnazionali in Italia, Europa e Germania per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza, riformina voluta dalla neo-burocrazia europea, non sono garanzie per la pace. Sono motivate dalla vanita' dei politici, che intendono rassicurare gli elettori presentando loro la tessera di membro del Club dei potenti (non avendo la vera, l'arma nucleare). Cio' non fa che facilitare la paralisi di tutta la meccanica ONU, mentre rallentano le riforme serie della politica mondiale, come l'allargamento della NATO o dell'UE.

IL CONFINE DELL'UMANITA'
Dopo le minacce di Bagdad contro il Kuwait, gli USA avevano ribadito all'Iraq la loro indefettibile amicizia, e al governo kuwaitiano garanzie di sicurezza ("se vi attaccano arriveremo subito"). La Germania ha dato agli USA due miliardi di dollari, il Giappone cinque, gli arabi ben oltre cinque. Il materiale militare statunitense era a sei mesi dalla scadenza, le bombe buttate sull'Iraq erano destinate alla distruzione, come parte dei mezzi meccanici. Per il bilancio del govero americano "Desert storm" fu un'operazione redditizia, al di la' delle vendite di Patriot e di altri materiali militari. Saddam demonizzato, diventato dopo l'arrivo delle nostre truppe a Bassora il presidente Hussein, accetta le principali richieste dell'ONU e indossa la divisa dello "stabilizzatore" della regione, per impedire la rivoluzione degli sciiti di Bassora e del sud, e moderare le velleita' curde e iraniane. Lui e' la migliore garanzia di preservazione delle frontiere costitutite su dei tavoli europei, nell'interesse della British petroleum nel 1918-20. Il pretesto della guerra del Golfo e' stata una zona a cavallo sulla frontiera tra Iraq e Kuwait zeppa di greggio, dove fu concesso dal governo kuwaitiano, finalmente ristabilito, un contratto vantaggioso alla Texaco. Bush & Co. sono tutti figli del Texas. Il sostegno incondizionato dato dall'allora candidato Bill Clinton all'intervento armato e alla successiva politica USA nel Golfo e' stata una garanzia data all'industria degli armamenti, confermata dalle minacce di bombardare Bagdad alla vigilia della maggiore fiera regionale degli armamenti, ad Abu Dhabi. La stabilita' dei regimi dittatoriali per convenienza dei potenti della cosiddetta "comunita' internazionale" sara' la pietra tombale dell'ONU: gli USA regalano centrali nucleari ai nord-coreani in cambio del rispetto degli accordi sulla non proliferazione degli armamenti nucleari! Una stabilita' suicida, o una nuova politica un po' instabile, un po' funambolica, ma piena di ragioni e di speranze, impregnata dei valori del diritto: questa e' l'alternativa.
LE ORGANIZZAZIONI REGIONALI
La politica ONU di affidare alle organizzazioni regionali maggior potere, per risolvere le crisi ad un livello piu' basso, ha corresponsabilizzato la UE e l'ONU nel disastro balcanico. Per la guerra civile in Liberia fu dato mandato alla OUA (Organizzazione per l'unita' africana). La Nigeria, sola potenza militare della regione, e' intervenuta militarmente con la delicatezza propria dei metodi indigeni. Tre bande di criminali si disputavano il potere a Monrovia, l'OUA ne fece entrare in gioco una quarta. Il governo del Burkina chiese all'ONU di prendere sulle sue spalle la risoluzione del conflitto perche' la OUA non era all'altezza del suo mandato. L'ONU, incapace di risolvere certe crisi, non si vergogna di chiedere ad organizzazioni ancora piu' incapaci di gestire i conflitti. Spesso gli embargo del buon samaritano ONU sono dei palliativi a crisi che non riesce a risolvere. I serbi controllavano l'intero arsenale dell'esercito yugoslavo. Il Consiglio di sicurezza vieta la vendita di armi ai croati e ai musulmani, aggrediti e disarmati. Gli embargo contro l'Iraq, la Serbia ed altri non fanno che colpire popolazioni gia' vittime dei loro dittatori. Non urtano regimi dove e' cancellata la voce dell'opinione pubblica e degli elettori. Quanti iracheni sono vittime innocenti non della guerra, o di Saddam, ma dell'ONU? Gli Stati uniti hanno regolarmente scambiato petrolio contro grano ai sovietici, ma da Fidel Castro esigono la democrazia prima della fine dell'embargo americano.

La recente vittoria del tribunale cade in un quadro perdente, fallito. Spettera' ad un paio di esplosioni nucleari liquidare l'organizzazione, cosi' come la seconda guerra segno' la fine della Societa' delle nazioni. Gregor Yavlinski, uno dei pochi veri liberali russi, e il generale Lebed dichiarano ripetutamente che sono scomparse cento bombe nucleari, inclusi modeli portatili che pesano meno di sette chili, prologo di future catastrofi. Dopo il fallimento della Societa' delle nazioni, l'ONU ricevette maggiori poteri per garantire la pace. Del Consiglio di sicurezza, della NATO e del suo principale membro, chi ne e' stato il vero garante? I successi dell'ONU come l'intervento in Corea grazie alla poltrona vuota sovietica al Consiglio di sicurezza, le missioni di caschi blu ancora attive nel Golan, a Cipro, vanno misurate nel loro giusto valore. L'evoluzione del diritto internazionale, in tempo di pace, non si adegua al ritmo delle crisi. Come "affermare quei principi morali e quei valori etici che sono alla base della nostra civilta'" (preambolo alla mozione generale, assemblea dei parlamentari, Sofia 17 luglio 1993 [Notizie Radicali 5772]? Si conferma che l'ONU, come anche le cancellerie europee, era a conoscenza della preparazione del genocidio in Ruanda ben prima di agire ufficialmente. Nessuno si e' mosso.

Le pecore brucano e non si preoccupano del coltello del macellaio. I trattati europei hanno negato ai cittadini una costituzione europea. Gli stati nazionali non rinunciano alle loro prerogative spesso per fare, grazie alla "raison d'etat", quello che nessuna costituzione democratica autorizza (vendita di armi, di droga, corruzione). Il privilegio di essere uno stato sovrano non si abbandona cosi' facilmente. A meno che dei santi non prendano il potere, gli sviluppi maggiori dell'Europa democratica e dell'Europa "tout court" saranno affidati alla sola svolta storica dell'Euro, prossimo augurabile trionfante eroe, in un clima deflazionista, della rivoluzione microelettronica. La questione della Costituzione e' centrale mentre si continua solo a discutere di riformette. Il Belgio tra poco non esistera' piu' e fra qualche anno i francofoni di Bruxelles chiederanno l'indipendenza dalla Fiandra fiamminga, che gia' oggi comunica loro che saranno giusto "tollerati". L'impero sovietico si e' sciolto e quello russo non regge le centinaia di repubbliche autonome e le varie nazionalita'. Il riflesso, come nel caso della Cecenia, di usare il razzismo e la forza del potere centrale contro tutte le velleita' d'indipendenza, di convincerci che dovremmo provare a provocare lo smantellamento della Federazione russa, per proteggere i suoi popoli da un potere gia' andato troppo fuori controllo. Anche li' il regionalismo sara' il senso della storia, consentira' alla gente di controllare meglio le deviazioni antidemocratiche che hanno caratterizzato il dopo Gorbaciov.

I soldi dei contribuenti russi e occidentali sono scomparsi in un abisso profondo come l'anima russa: in tre settimane (settembre 1998) sono scomparsi 22 miliardi di dollari dati dal FMI. "Le personalita' piu' corrotte hanno mantenuto i loro posti ed e' invano che si cercano gli assassini. A causa della cinica crudelta' dei banditi, il prezzo della vita umana si riduce a zero. Con le riforme e' arrivato il tempo dei criminali. Dopo essersi impadroniti delle finanze hanno stabilito il controllo ideologico della societa'" (Aleksandr Solgenitsin). Le transizioni cilena o spagnola sono dei modelli invidiabili rispetto alla soluzione russa. L'ottanta per cento dell'economia russa e' gestito dai criminali, mentre i politici ricattano il FMI e il mondo occidentale con lo spettro di una crisi dove tutto potrebbe andare fuori controllo. L'assassinio della deputata Galina Starovoitova, liberale, firmataria del nostro appello per l'incriminazione di Milosevic, iscritta all'associazione antimilitarista di Nikolay Khramov (l'unica associazione radicale fuori dai confini italiani), promette un bruttissimo avvenire per la popolazione russa, che a volte auspica un golpe per risanare l'intero apparato! Davanti alla Lubianka la Duma ha deciso di rimettere la statua del fondatore della Ceka, Dzerzhinky, coautore del terrore staliniano. La motivazione ufficiale e' di fare paura ai criminali e simboleggiare la forza ritrovata di uno stato pronto a riprodurre il peggio della storia di questo secolo. La repressione in Cecenia fu scientificamente ignorata dai campioni della democrazia, troppo occupati a preparare gli accordi di Dayton e la bella figura del "successo diplomatico" americano, che nascondeva i soldi versati dal FMI per gli stipendi dell'esercito russo, boia di una guerra, la prima, che costo' centomila vite umane.

BOZZA DI PROGRAMMA
Qual'e' il potenziamento del tasso di efficienza dell'ONU che il Pr ha proposto nella sua ultima mozione? Il tribunale necessitera' di cinquant'anni prima di essere in grado di impedire a un altro Stalin di arrivare al Cremlino. Che altre vie ha proposto, o propone, il Pr? Se non rimettiamo in causa profondamente il sistema ONU, regime mondiale, ci ritroveremo o saremo percepiti come il prete accanto al boia invece di gridare nella folla: RIVOLUZIONE LIBERALE MONDIALE! Il cyberspazio va conquistato con tutti i mezzi (audio, video, scritto). E' tempo di creare un giornale multimedia, una TV sul Web, con un taglio giornalistico, non un elenco di comunicati stampa. Aprire un dibattito transnazionale dentro il partito e' fondamentale. E' la ragione di questo testo. Cerchiamo la "profonda revisione di mezzi, strutture, metodi di lavoro" e "l'assunzione piena di responsabilita' dirigenti e militanti da parte di nuove forze" prevista dall'ultima mozione congressuale. Va fatto lo stato politico e finanziario del partito e dell'area subito, riorganizzato, riaperto il dibattito interno al partito a la vita del partito, evitato il conflitto interno in una nuova cultura dell'organizzazione come espresso dall'Assemblea di Napoli, dove i romani erano maggioritari. Un Congresso, magari piccolo, con meno VIP e parlamentari, e piu' dibattiti, con tre lingue di lavoro per i documenti (inglese, francese, italiano) che eviti di essere una autocelebrazione di conferma di scelte perdenti precedenti (in termini di iscrizioni) va convocato presto. Possono iniziare i lavori delle commissioni congressuali con uno o due giorni di anticipo. Vanno al piu' presto analizzate e discusse in profondita' le ragioni del fallimento sia del partito transnazionale che della politica mondiale. Agora' o internet non possono rimediare a tutti i buchi della nostra strategia di comunicazione.

Il corpus legis ONU non e' applicato in tanti posti del mondo. Il Consiglio di sicurezza e' in parte in mano a dei criminali o a sistemi criminali, e invece di garantire la pace la minaccia. Va concepito il manifesto mondialista che proclama per le persone l'effettiva abolizione delle frontiere per quanto riguarda i loro diritti ad essere protetti da quelli che negano loro i diritti fondamentali, e che consente ai popoli di unirsi liberamente anche per raggiungere questo obiettivo. Una nuova Costituzione per l'Italia, l'Europa e il mondo, la stessa, va preparata. Siamo i soli in grado di compiere una sfida cosi' fondamentale, cosi' radicale e cosi' urgentemente necessaria. Il partito deve far sognare, chiudere o cambiare nome. Va fatto l'inventario del fallimento dell'ONU in tante crisi, senza negare i suoi successi, chiedendone sia la riforma che la costituzione di una federazione forte, democratica (di "cultura" liberale socialista), regionalista, dentro e attorno al continente europeo, per sopperire alle gravi lacune dell'ONU, in particolare nel difendere i diritti fondamentali degli individui. Fare convergere detta federazione verso la NATO e cercare la possibilita' di gettare in questo quadro le basi per offrire al continente americano le opportunita' di allargamento di questa nuova entita'. Il rifiuto della UE di aprire trattative con gli Stati uniti per una unione doganale e' un appuntamento mancato con la Storia. Dall'affermazione del vedere effettivamente rispettati i diritti fondamentali, il diritto alla vita, alla liberta', alla dignita', alla democrazia, a non soffrire per causa dell'ingiustizia dello stato, della fame, della guerra, dell'abolizione mondiale della leva: le battaglie possibili non mancano. E' tempo di responsabilizzare in termini finanziari il complesso petrolifero mondiale per i danni da esso causati all'ambiente. L'essere transnazionale significa rivendicare una cittadinanza mondiale. Va calcolato il costo dell'iscrizione sul PIL mondiale e non nazionale, il che semplifichera' anche il lavoro del tesseramento. Nei paesi piu' poveri possiamo regalare l'iscrizione per smettere di addizionare i centesimi con i copechi, senza modificare la gratuita' laddove l'iscrizione e' vietata dalla legge. Va chiesto un intervento militare europeo nel Congo e nel Sudan per evitare ulteriori tragedie. Vanno concepite campagne a scopo mediatico di dimensione mondiale, come la distribuzione e un lancio di preservativi gonfiati sul Vaticano, azione anticlericale ad Auschwitz dove i cattolici violano una risoluzione dell'ONU con l'erezione di croci attorno al campo di concentramento. Un nostro eurodeputato puo' farsi una canna alla Clinton, senza inalare, davanti alla Casa bianca per rilanciare la campagna del Cora. La battaglia per una convenzione ONU sul diritto alla democrazia potrebbe far parte di un pacchetto di riforme ONU da proporre per "Non c'e' pace senza giustizia". Possiamo rivendicare lo statuto ONU come partito politico che si presenta alle elezioni, o che non lo esclude.