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Man chops off own penis


An eyewitness has spoken of the horrific scenes in Penryn on Friday when a man chopped his penis off with a kitchen knife in front of horrified onlookers. The 43-year-old man, who lives in the town, could be seen running along Mutton Row at around 8.45pm, allegedly naked. He then brandished the knife and cut off his penis, before collapsing to the ground. An eyewitness said he found the severed penis in a neighbouring garden. It is reported that the witness, a student in the town, said that the man looked him in the eye, "started screaming and then cut", adding he did not stay to watch. Three police officers called to the scene, PC Kim James, PC Jules Evans,and PC James Tompson gave first aid at the scene after finding the man in his house. With their swift actions credited as avoiding what would most likely have been a "fatal incident". A spokesman for South Western Ambulance Service said paramedics arrived just before 9pm the man was “bleeding heavily” and had fallen unconscious when they found him. The police received the initial call from a member of the public, to say there was concern for a man. A spokesperson confirmed that there was no one else involved in the incident. It is thought the man may suffer from a mental health issue. It is understood that two women saw the incident unfold and ran terrified to a nearby house, where a man took them in and called the police. The man is said to be in a stabe condition in hospital at Trelsike.
Crematorio, stavolta si fa 
Cinque ditte per il bando
Se ne parla da vent’anni, il Comune di Conegliano ora pubblica l’avviso pubblico In ballo 2,5 milioni che includono anche la gestione. E un accordo con Pordenone

Così titola l'odierna Tribuna di Treviso, in cui l'articolista ci regala un paio di perle: "Se ne parla da una ventina d’anni, ora sembra più vicina la fumata bianca per la realizzazione di un forno crematorio in città" [...] "L’amministrazione, infatti, ha sottoscritto nel 2011 un accordo con il Comune di Pordenone che prevede l’impegno da parte di quest’ultimo a garantire un numero di 250 cremazioni all’anno".

Ora io mi chiedo: se il Comune di Pordenone non dovesse riuscire a rispettare l'accordo, manderà in giro la polizia municipale ad ammazzare la gente per raggiungere il target???
TOSONI EUGENIO MACELLERIA
34, Via Alighieri Dante - 63811 Sant'Elpidio A Mare (FM) | 0734 990132
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Quarrel with girlfriend caused man to cut off his penis and flush it down toilet

In a fit of anger following a quarrel with his girlfriend, a drunken man cut off his penis and testicles with a pair of scissors. The 46-year-old man from Jilong city in Taiwan then flushed his severed organ down the toilet bowl
TOSONI CLELIA CUCITURA COLLANT
18, Via Europa Unita - 46010 Gazzuolo (MN) | 0376 97933
#193, 2.V.2013
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"Su libertarismo los ponía en el papel de propagandistas y provocadores, más que en el de líderes u organizadores"; ""Nosotros no tenemos el monopolio de la inteligencia", escribió Vaneigem, "sino el de su uso"".
John Patel & Virginia Welby
IL LAVORO MOBILITA

Prefazione di Mauro Suttora

Poche cose nella vita mi hanno procurato piacere quanto il privilegio di leggere per primo quest’Opera e l’onore di scriverne la prefazione”. Prefazione che avrei dovuto cominciare con queste parole, secondo i due sciagurati autori di questo indigeribile minestrone cucinato a quattro mani, che hanno sadicamente osato propinarmi per avvelenarmi un fine settimana. Trattasi, gli autori, di due miserabili individui privi di talento che hanno voluto sommare le loro esperienze lavorative col solo risultato di moltiplicare dolore e sconforto del lettore. L’uno provincialotto piazzista di aspirapolvere, uomo di bassa statura anche morale; l’altra una blogger drogata, dall’ambigua identità sessuale, alternativamente precaria nei call centre o più spesso disoccupata per pigrizia. Insomma due falliti che vogliono trarre profitto dalla notorietà della mia firma per cercare di vendere un libercolo il cui unico merito è di poter duplicemente funzionare in gabinetto sia come lassativo che come carta igienica. Altro sul loro “capolavoro” non ho da aggiungere, ma ho accettato di scriverne la prefazione per mio dovere di giornalista nell’informare il pubblico di cotanta pericolosa sconcezza narrativa.

Mauro Suttora, maggio 2013

Sommario

1. Porta a porta
2. I colleghi al Bar
3. La mia Ex
4. L’acquisto
5. Tappeti volanti
6. Gli sposini
7. I Balcani
8. Colpo di fulmine
9. La Scozia
10. Le mogli mamme
11. L’Inghilterra
12. Il pollaio
13. Il vagabondaggio
14. Senza gamba
15. Ritorno in Italia
16. Scusi se la disturbo
17. Le Team Leader
18. Epilogo

1 – Porta a porta

No, basta! Mi ero rotto le balle di mescolare gomma, un mestiere sporco e faticoso, roba da bestie! Fu così che decisi di intraprendere la mia tanto sognata carriera di venditore, nella fattispecie di venditore porta a porta. Sono sempre stato affascinato da quel mestiere, mi entusiasmava l’idea di esercitare una forma di controllo sulle persone, di influenzare in qualche modo le loro scelte, quantomeno per ciò che riguardava i loro consumi. Intanto però dovetti vivacchiare per qualche tempo con i soldini della liquidazione e guardarmi un po’ in giro. Insomma, un periodo sabbatico, come direbbero i fighetti del giorno d’oggi.

Io invece il fighetto non mi sono mai potuto permettere di farlo, nemmeno il paninaro in quei reaganiani anni ’80 di riflusso, pur provenendo da una famiglia relativamente benestante. Ex benestante. I miei antenati erano nobili che generazione dopo generazione caddero in disgrazia lasciandomi in eredità solo un appartamentino in quello che fu il loro settecentesco palazzotto nella Bergamo alta, i loro debiti e un nome ridicolo – Luca Giovanni Battista Fabio Maria Cappatelli de Capponis -, che anche per sfuggire ai creditori sono riuscito a cambiare in Giovanni Patelli, John per gli amici.

Sono cresciuto come tanti miei coetanei della piccola borghesia e dopo il diploma di maturità avrei voluto iscrivermi alla facoltà di agraria, ma frequentai solo una lezione sull’inseminazione artificiale delle vacche e non andai oltre perché non potevo permettermi le tasse universitarie coi lavoretti che trovavo su Secondamano, tipo masturbarmi alla banca del seme o lavare i morti… Eros e thanatos… Per necessità dovetti pertanto accettare un lavoro fisso in una fabbrichetta, ma ora no, basta!, mi ero rotto le balle di mescolare gomma, un mestiere sporco e faticoso, roba da bestie.

E con questo mi sono un pochino presentato. All’epoca, se un esperto agente di qualche polizia segreta avesse dovuto fare rapporto a un suo superiore sul mio appartamentino, non si sarebbe trovato spiazzato come un qualunque piazzista. Anche se il caos imperante tendeva a nascondere i dettagli, con un rapido colpo d'occhio avrebbe certamente memorizzato la scena soffermandosi sull'essenziale. L'ipotetico agente in questione avrebbe scritto di un bilocale di circa settanta metri quadrati con un salottino arioso e illuminato in cui spiccava un grande divano rosso porpora. La spia avrebbe fotografato mentalmente altri dettagli come i mobili di legno grezzo, il piccolo angolo cucina con la lavatrice salvaspazio, ma nel bagno una grossa vasca con l'idromassaggio, niente televisore ma un sacco di libri, più uno dei primissimi personal computer.

Poi senza ulteriori indugi si sarebbe dedicato alla camera da letto, separata dal resto solo da una tenda, dove regnava un disordine di sottofondo che restava impigliato nell'atmosfera dell'appartamento anche dopo le grandi pulizie che, lo si capiva abbastanza chiaramente, effettuavo con una certa serietà quasi una volta all'anno. Il nostro esperto osservatore avrebbe cominciato a capire che c'era qualcosa che non andava, che la mia personalità sfuggiva ai normali profili criminologi, e ne avrebbe trovato conferma nell’embrione di manoscritto sul comodino di legno di fianco al letto. Era lì in bella mostra, ma abilmente confuso nel disordine, quello che dopo un quarto di secolo avrebbe preso forma in questo libro.

Mi offrirono un lavoro part time come friggitore di patatine da Burghy, che nei primi anni ’80 a Bergamo anticipò di qualche tempo il più famoso McDonald's, che quattro anni dopo l’avrebbe assorbito. Capii in quel momento, davanti allo specchio di casa, in salopette rossa, camicia gialla a righe bianche e cappellino in tinta, di non essere un uomo-azienda. Avrei dovuto cominciare l’indomani e infatti mi presentai rassegnando le dimissioni. Ancora oggi sul mio libretto di lavoro brillano i timbri: assunto e licenziato lo stesso giorno. Il direttore un po’ seccato mi chiese pure di firmare una dichiarazione dove mi impegnavo a rinunciare alla liquidazione. Divertente, non avevo nemmeno cominciato e stavo già firmando una rinuncia alla liquidazione. Cinque minuti dopo, nel fare manovra, andavo a sbattere contro un paracarro, distratto dal meraviglioso fondoschiena di una giovane passante. Ecco, mi mancava solo di sfasciare la macchina!

Ma come sempre la vita è più fantasiosa delle favole. Poco dopo essere arrivato a casa mi suona al citofono un certo signor Vanilla, uno spilungone impomatato di gel, incaricato di una molto nota ditta produttrice di aspirapolvere venduti porta a porta. Pare che qualcuno, non ho mai scoperto chi, mi avesse segnalato come disoccupato. Mai che la gente si faccia i cavoli suoi, ma quella volta mi fece piacere. Il tipo mi raccontò tutto il suo pistolotto sull’azienda multinazionale, di come fosse leader nel suo settore e di come, grazie al buon nome e all’intensa pubblicità, gli apparecchi si vendessero come il pane. Infine mi propose qualche giornata dimostrativa per prendere visione del genere di lavoro. Simulai scetticismo, ma in realtà non fu difficile convincermi: in cuor mio era proprio quello che aspettavo da tempo.



2 – I colleghi al Bar

Imparai per prima cosa che è al Bar (con la B maiuscola vista l’importanza che riveste in questa attività) dove si ritrovano la mattina gli agenti porta a porta, in gruppo, agenti di cui l’entusiasta (o finto entusiasta per dovere) signor Vanilla era il responsabile. Fui accolto in un’atmosfera palpabilmente falsa, con quell’aria artificiosa tipica di coloro che vogliono presentare le cose meglio di ciò che veramente sono. E in quante altre occasioni in futuro, una volta entrato nel sistema, fu chiesto a me stesso di comportarmi in modo ineccepibile quando si presentavano potenziali nuovi agenti, di arrivare sempre puntuale per dare il buon esempio, di evitare battute inopportune e di recitare la parte dell’agente ultra gratificato!

Dopo qualche giorno di supervisione, affiancato da agenti esperti ed affidabili, la prassi consisteva nel frequentare il corso di formazione in ufficio, un primo corso di addestramento della durata di una settimana. Fu lì che conobbi per la prima volta, in tempi ancora non sospetti, un fanatico “talebano”: il signor Frosi, capo distretto. Frosi era un barbuto caterpillar cinquantenne, alto e magro, ed era soprattutto un autentico stacanovista. Uomo di montagna, grande camminatore, si era buttato in questa azienda partendo da semplice agente e lavorando sodo, con umiltà, facendo una carriera tutta basata sul darsi da fare duramente, anche perché altrimenti non è che fosse dotato di grande talento, ma certo non difettava nella perseveranza.

Dopo che anni più tardi me ne andai verso altri pascoli, la sua carriera proseguì fino quasi ai vertici dell’azienda, della sua filiale italiana, ma ho saputo di recente che si è dimesso poiché il posto finale che agognava e meritava a coronamento di tanto impegno che aveva profuso per decenni gli è stato soffiato da una donna che aveva una carta in più di lui da giocare… Mi spiace perché era un onesto sgobbone, ma il fatto che non abbia accettato la cosa e li abbia piantati senza tanti complimenti gli rende onore. Al giorno d’oggi purtroppo siamo abituati a vedere gente disposta ad accettare ogni compromesso, soprattutto nel lavoro. Abbiamo perso il senso dello scandalo, la capacità di indignarci e ribellarci. Frosi invece no.

D’altra parte se lo potè permettere perché a quest’ora sarebbe comunque stato vicino all’età della pensione, mentre io avevo e ho ancora pur bisogno di lavorare, e quello dell’agente porta a porta è un lavoro principalmente da Bar, che era il nostro ufficio. Sembrerà strano, ma la maggior parte del tempo gli agenti la passano al Bar, tant’è che il tasso di alcolismo tra di loro è piuttosto superiore alla media. Insomma ci si trovava al Bar la mattina, poi a pranzo, poi nel dopo pranzo e buona parte del pomeriggio. È lì che ci si incontra tra colleghi e con il responsabile, si raccolgono gli ordini, si fanno le riunioni, i corsi di aggiornamento, si distribuisce il materiale, tutto al Bar.

Ma attenzione, dev’essere un locale assolutamente vecchio e decadente, roba da pensionati e uova sode. Già, perché l’esercizio nuovo e alla moda è controproducente, in primis perché costoso e, in secondo luogo, nei Bar nuovi dopo avere consumato di fatto ti cacciano, ti fanno capire di levare le tende perché non tollerano un bivacco di una decina di giovanotti, che a turni alterni occupano tavoli consumando pochissimo, poiché è noto che gli agenti e in particolar modo quelli porta a porta sono molto pidocchiosi.

Un mio collega, il Granelli, addirittura leggeva il giornale senza comprarlo. Diceva al giornalaio “scusi posso dare un occhiata per favore”, lo sfogliava, e poi con diligenza lo richiudeva bene e lo riponeva ringraziando. La maggior parte dei giornalai scuoteva la testa disarmata, qualcuno invece lo mandava anche a quel paese. Probabilmente ora passa il tempo libero nei supermercati, nella corsia riviste e giornali! Era veramente tirchio il Granelli, perennemente a dieta, non mangiava quasi mai, e pur tuttavia veniva con noi al ristorante, mi si sedeva accanto e poi ordinava solo un primo e come secondo mangiava il mio, che gli offrivo impietosito.

Però era un bravo ragazzo e vendeva pure parecchio. Con falsa modestia il Granelli faceva sempre lo scanzonato e dava l’aria di quello che in giornata non avrebbe venduto nulla, poi la mattina dopo si presentava con la sua Fiat 128 con impianto a metano, uno tra i primi in Lombardia, immancabilmente col suo sorrisino beffardo e un bel ordinino in tasca. Era la rabbia di tutti, sì perché tra gli agenti la competizione, l’invidia, il livore, sono alle stelle. Da questo punto di vista la peggior categoria al mondo è probabilmente proprio quella dell’agente di commercio.

Basti pensare che praticamente tutta l’economia nazionale passa tra le mani degli agenti di commercio, ma la categoria è tra le meno rappresentate nel mondo del lavoro: gli altri liberi professionisti hanno un albo, delle associazioni, gli artigiani pure, così come i trasportatori o naturalmente ci sono i sindacati per i lavoratori dipendenti, ma gli agenti non se li caga nessuno, non sono mai riusciti a costruire una vera categoria, proprio per questa grande propensione a fregarsi reciprocamente appena possono! Ora solleverò le proteste femministe, ma secondo me sono un po’ come le donne, che dietro le apparenze non riescono a fare veramente gruppo. Il nostro motto è mors tua vita mea!



3 – La mia Ex

La tirchieria del Granelli non può che evocarmi alla mente la mia ragazza dell’epoca, Virginia, una Ex con la E maiuscola. Non che lei fosse tirchia, tutt’altro: aveva le mani bucate, ma abituata a vivere in strada mi parlava spesso di come si potessero consumare gratuitamente una varietà di beni e servizi. Per esempio come viaggiare gratis in treno, auto-denunciandosi al controllore subito dopo la partenza, fingendo di essere stati derubati di denaro e documenti, per essere sbattuti giù, ma senza multa, alla fermata successiva e ricominciare col prossimo treno. Col vantaggio, tra l’altro, di poter fumare durante le soste. Io non ero tanto interessato dal punto di vista utilitaristico (non mi sognerei mai di viaggiare in quel modo, impiegando 16 ore per fare 400 km), quanto invece mi affascinava quella sua filosofia che mi sarebbe comunque stata di ispirazione nel lavoro e nella vita, perciò per quanto abbia sempre odiato il fumo le permettevo di inalare sul balcone, ascoltandola rapito. E innamorato.

Fumatrice incallita, credo che Virginia non abbia mai comprato un pacchetto di sigarette in vita sua. Le sere del fine settimana faceva il giro della ventina di affollati Bar del centro scroccandole a quelli che esibivano il pacchetto sul tavolino e non potevano certo mentirle “non fumo”. Ogni venerdì e sabato sera in meno di un’ora riusciva a mettere insieme un pacchetto per il giorno successivo, ma ci riusciva anche nei giorni lavorativi, con un altro metodo: non avendo niente di meglio da fare raccoglieva per le strade i mozziconi che avessero ancora dentro almeno un centimetro di tabacco, che recuperava buttando i filtri (nei cestini della stazione, non per terra come gli sporcaccioni sui quali parassitava), e tutto quello che doveva spendere era in cartine, giacché i filtrini se li arrotolava con un altro di quei generi che non aveva mai acquistato in vita sua: i biglietti del treno, ovviamente usati, che rinveniva nella stazione stessa, punto di riferimento universale di ogni buon vagabondo.

Tuttavia, saltuariamente e precariamente, doveva anche lei lavorare per alimentare quelli che chiamava i suoi bisogni tossici primari, cioè le altre droghe che a differenza del tabacco non c’era alternativa all’acquistarle. Infatti il mese tipico di Virginia consisteva in una settimana ad alcol, la seconda a cannabis, la terza nuovamente alcolica e l’ultima a benzodiazepine tipo Valium e Xanax, per poi ricominciare il ciclo, coincidente con quello mestruale e le fasi lunari. Tutta roba che costa e non si può scroccare, se non in minime quantità assolutamente insufficienti per lei, che pertanto prendeva dei lavoretti nei famigerati call centre.

È stato così che l’ho conosciuta. Il sistema funziona in questo modo: l’operatrice del call centre chiama una gran quantità di utenze in una tale provincia per convincere chi risponde (generalmente una casalinga) a ricevere senza impegno un nostro agente, nella fattispecie il sottoscritto, per una dimostrazione gratuita. Statisticamente, sul gran numero di chiamate riuscirà a prendermi almeno tre appuntamenti al giorno, talvolta anche 5 o 6. Questo si chiama generare una lead, ovvero una opportunità per il venditore. Lei non deve vendere niente per telefono, perciò si chiama telemarketing e non telesales. Riuscire a vendere sarà compito mio, che però sono enormemente facilitato dall’andare a visitare qualcuno già vagamente interessato o quantomeno predisposto a ricevermi, invece di suonare campanelli a casaccio.

Virginia era molto brava non solo nella quantità di lead che mi generava, ma anche nella qualità: ci si sentiva più volte al giorno e a discapito della sua infinitesimale provvigione scartava una lead consigliandomi: “guarda, per domani hai un appuntamento alle 15 nel posto X e uno alle 16 a venti km di distanza. In teoria ce la potresti fare, ma secondo me ti conviene rinunciare al primo che potrebbe farti perdere tempo arrivando in ritardo al secondo che invece suona più promettente”. Aveva la capacità non comune di sintonizzarsi sulla frequenza della persona con cui parlava e capire se accettava la visita per un effettivo bisogno dell’oggetto oppure solo per curiosità.

E curiosità fu da parte mia, per il suo ottimo lavoro e l’ormai consolidata amicizia telefonica, che mi spinse ad invitarla per conoscerci personalmente. L’indomani a metà pomeriggio, quando lo storico locale milanese è quieto e accogliente, non ancora invaso dalla folla degli aperitivisti, davanti a due birre rosse al Bar Magenta rimasi stordito dalla sua bellezza: sotto i lunghi capelli nerissimi mi abbagliavano due occhioni verdi a contornare un aquilino nasoppione giudaico-romano sopra labbra da favola. Tutto il resto del suo corpo meraviglioso l’avrei scoperto la sera stessa nel mo letto, dopo avere trascorso il pomeriggio al Parco Sempione a parlare e parlare di tutto, come se ci conoscessimo da sempre.

Nei mesi di relazione che seguirono, la sua bisessualità (o pansessualità come la chiamava lei) non mi infastidì. Finché mi tradiva con delle ragazze, l’importante era che non lo facesse con un altro uomo, e questo non accadde. La storia finì invece per il suo indomabile spirito libertario. Aveva dentro un nucleo esistenziale di sofferenza che la spingeva a scappare fisicamente da un luogo nell’illusione di riuscire a fuggire da sé stessa. Andò a Roma e ci sentimmo solo qualche volta per telefono, poi lentamente la candela della comunicazione si spense. Aveva nuovamente cambiato lavoro e città, io non ne conoscevo il nuovo indirizzo. Molti anni dopo con l’avvento dei social network appresi, ma senza osare contattarla, che aveva continuato a svolgere lavori precari nei call centre, sia in Gran Bretagna che in Italia. Per quanto inchiodata a una scrivania con delle cuffie in testa a mo’ di guinzaglio, si può dire che anche nel suo caso il lavoro mobilita.



4 – L’acquisto

L’acquisto è soprattutto una scelta emotiva. Non è il raziocinio che ci spinge a comprare, assolutamente. A distanza di tanto tempo ricordo ancora oggi una sera incredibile. Contattai alla mattina una signora dall’aspetto elegante e la parlata forbita, che mi diede l’appuntamento per le 20.00. La sera stessa mi presentai con le mie valige dimostrative circa alle 19.45, sempre per via del fatto che si cercava di fare il meno tardi possibile. Mi accolse sbalordita

Ma come, l’aspettavo per le 20.00, si accomodi ma la dovrò fare attendere per un quarto d’ora, il tempo che terminiamo la cena”

Accidenti, non ero abituato a tutti quei formalismi. Mi fece accomodare in sala, visione stupenda, due pareti di almeno 5 metri per 3.50 di altezza ciascuna, entrambe coperte da una libreria bianca consistente in centinaia e centinaia di libri veri, dico veri perché solitamente nelle case comuni si trovano pochi libri e per di più finti, vale a dire mai letti, sono spesso gli allegati da due euro di Corriere o Repubblica, oppure i primi tre libri comprati a 6.90 euro al Club degli editori: qualche ricettario, la storia della Formula 1 e un paio di guide turistiche.

Quelli invece no, erano libri di ogni genere e varietà: da Henry James a Norman Mailer passando per Kafka fino ai contemporanei Brodsky, Kundera e Drakulich, si notava un’altalenante preferenza per le letterature slava e americana, ma non mancavano i nostri Silone, Pavese, Flaiano, Testori, tanti di Pirandello, l’immancabile Umberto Eco e i miei preferiti Fruttero & Lucentini. E poi tutti i mattoni di Tolstoj e Dostoevski in uno scaffale che faceva angolo con quelli altrettanto pesanti di Sartre e Proust. E ancora saggi di storia, filosofia, matematica, e volumi illustrati di fotografia, architettura. Illustrati anche i dizionari etimologici in almeno sette lingue.

C’era veramente da sbizzarrirsi a curiosare la biblioteca in quel quarto d’ora che trascorsi intanto che al di là della porta a vetri il rumore delle posate e la totale mancanza di conversazione mi metteva un po’ di soggezione, insieme all’austero tappeto orientale e gli imponenti mobili antichi di famiglia. Grande sapore di cultura anche nei quadri sulle altre pareti, soprattutto tante antiche carte geografiche di tutti i continenti, e nei dettagli: soprammobili di peltro, cristallo e ceramica ma senza nessuna ostentazione di lusso o sontuosità. Insomma davvero un bell’ambiente.

Arriva la famiglia, lei signora bionda naturale sui quarant’anni abbondanti ma ancora di molto gradevole aspetto, “correttrice di bozze”, si definì con falsa modestia, per una casa editrice di cui ora non ricordo il nome e per la quale immaginai che invece svolgesse il più delicato incarico di valutare i manoscritti degli aspiranti scrittori (immaginai fosse questa la sua vera professione per spiegarmi il numero immenso di libri per casa), e lui occhialuto professore universitario di storia dell’arte, decisamente di qualche anno più anziano, più il bambino figlio unico di circa sei anni. Si mettono sul divano e mi autorizzano a dare il via alla dimostrazione. Li percepivo preoccupati per il loro prezioso tappeto orientale, ma non lo davano a vedere, mantenendo un’aria abbastanza distaccata, soprattutto da parte di lui, ed io un po’ imbarazzato procedo nel mio lavoro con scarsissimo feedback e partecipazione da parte loro. A quel punto, non tanto per calcolo meschino quanto piuttosto per inconscia intuizione, sfodero quella che si sarebbe rivelata la mia arma vincente: coinvolgo il bambino, gli faccio provare la scopa elettrica, lo faccio giocare con i tubi telescopici flessibili e così via. Finita la parte dimostrativa, ci accomodiamo al tavolo per la contrattazione, illustro i vari dettagli e dico il prezzo.

Bene, bello, le faremo sapere!”

Io ovviamente insistevo per concludere il contratto, ma il tipo con fermezza mi dice:

Guardi, la nostra famiglia ha dei budget programmati da rispettare, questa è una spesa imprevista che va programmata nel tempo e non possiamo affrontarla qui stasera”

Pur alle prime armi, ero già abbastanza esperto da sapere che in quei casi insistere troppo è dannoso, servirebbe solo a rafforzare il rifiuto, perciò chiudo il libro e cambiamo discorso. Incominciamo a parlare dei loro impieghi e delle loro passioni e, come sempre, parlando d’altro si abbassano le barriere che la paura di spendere fanno alzare al potenziale acquirente. Infatti il professore si rivela meno rigido di quanto volesse apparire e, visto che è bergamasco come me, decide di farmi provare una grappa speciale barricata (notare che io ero digiuno). Bevuta una grappa, ne versiamo una seconda, l’alcol scalda la mente e la discussione prende anima intanto che il bambino si addormenta sul divano!

A quel punto la mamma lo prende in braccio per metterlo a nanna. Torna dopo qualche minuto e dice al marito:

Mentre lo mettevo a letto mi ha chiesto se l’avevamo comprato, gli ho detto di no e lui mi fa - Compralo mamma, che è bellissimo e poi ti serve-”.

Inutile dire che presi la palla al balzo, riaprii i contratti e mezz’ora dopo uscii da quella casa, non poco balordo di grappa, con i crampi nello stomaco dalla fame, ma con un bel contrattino di vendita in tasca!

Nel rientro a casa in auto rivedevo tutta la serata, riflettendo su quanto poco ci volesse per far crollare le barriere di un uomo. Che bel mestiere stavo facendo e quante cose stavo imparando. Molto probabilmente, se fossi rimasto fino a quell’ora senza vendere nulla, di certo non sarei stato così romantico e positivo!



5 – Tappeti volanti

Se un vantaggio dell’essere nato nella terza decade del Sagittario, proprio come la mia amata Virginia, è di possedere una personalità dinamica e avventurosa quanto sensibile e immaginifica, d’altra parte l’unica fregatura è l’essere talmente vicini alle festività natalizie che molti amici e parenti vi trovano la scusa per farti un unico regalo per entrambe le occasioni. Però il 20 dicembre di quest’anno ho ricevuto un regalo speciale: gli auguri di Virginia, della quale non avevo notizie da vent’anni. In verità, da quando esistono i social network ne avevo rintracciato il profilo e seguito le di lei vicissitudini sul suo blog. A dimostrazione che, pur avendo nel frattempo felicemente messo su una bella famigliola, in tutto questo tempo non ho mai smesso di pensarla.

A giudicare dalla foto, la mia splendida coetanea è ancora molto affascinante, nonostante continui dichiaratamente ad abusare di sostanze legali e illegali, in un circolo vizioso al tempo stesso causa e momentaneo sollievo della depressione di questa donna ciclotimica tendente al bipolare, che ai periodi bui ha alternato i soliti lavoretti precari nei call centre di mezzo mondo. Il suo diario è aperto a tutti e così da qualche anno a questa parte ho potuto “spiarla” senza osare contattarla, o come si dice chiederle l’amicizia sul più noto di questi social network. Immaginate dunque la sorpresa quando stamattina ho acceso il computer e mi sono trovato davanti il suo messaggino di auguri. Ne sono rimasto sconvolto in un turbinio di emozioni contrastanti, emozioni come se fossero gomma che lei stava mescolando (un lavoro sporco e faticoso).

Mi sono rammaricato di non averglieli fatti io, gli auguri di compleanno, pochi giorni prima, ma sono stato felice sia stata lei a intraprendere il primo passo per riallacciare i rapporti. Ora, con la scusa che il nostro tema qui è il lavoro, vi riporto di seguito quanto mi ha scritto in proposito, depurato dalle parti sul nostro rapporto personale, anche perché sono preoccupato che mia moglie potrebbe leggere questo libro e di conseguenza io doverne subire la gelosia retroattiva.

Carissimo John, [censura] penso che dopo tanto tempo meriti una spiegazione. Era successo che avevo conosciuto una tale Sarah in una bella giornata di primavera. Una ragazza di vent'anni con i capelli corti e biondi che passeggiava lungo corso Garibaldi soffermandosi quasi ad ogni vetrina, gli occhi accesi saettanti curiosi a caccia di particolari colorati. Poi, sfinita, si era seduta su una panchina davanti a quella dove stavo io fumando una canna nel parco Sempione. Quando mi si avvicinò per chiedermi un tiro, io avevo una gran voglia di parlare, e cominciando a chiacchierare facemmo amicizia.

Non avendo però alcuna intenzione di confidarmi sul mio rapporto in crisi con te, ho cominciato con l’inventarmi una nuova identità, il che non è stato difficile, considerato che ero fumata dura. Pescando dal mio breve passato di studentessa all'accademia di Brera, mi sono dichiarata pittrice vagabonda di passaggio e ho insistito così a lungo e così bene in quella parte che Sarah si è fermata ad ascoltarmi rapita e affascinata. Il tempo è volato via veloce tra sogni, quadri, luci e colori tanto che, alla fine, entrambe siamo rimaste stupite nel constatare di aver trascorso insieme quasi tre ore.

Avevamo riso parecchio, ci eravamo raccontate quasi tutto, tanto per cominciare dal nostro pressante desiderio di scappare non si sa bene dove né da chi (beh, io lo sapevo: da te e da me stessa). Avevamo constatato che, per entrambe, questo desiderio nasceva dalla pancia e si sviluppava, più spesso durante le giornate di sole, espandendosi in tutto il corpo. Se lo si ignorava, si trasformava in malinconia. Fingendo fino a seppellirlo negli angolini più oscuri, diventava tristezza, depressione, nervosismo. Io, badando a non lasciarmi sfuggire particolari che era meglio non rivelare, avevo seminato qualche piccolo indizio circa i miei problemi con te, asserendo che proprio in quel momento stavo considerando il fattore fuga, anche se non sapevo esattamente come cominciare a muovermi. Mi sembrava di assistere ad una partita a scacchi dove ogni mossa era una sorpresa che accadeva all'improvviso e ribaltava la situazione. I pezzi si muovevano autonomamente e lei era una spettatrice tranquilla.

Il suo telefonino cominciò a pigolare intonando la Marsigliese. La chiamava il call centre di un partito politico, per una casualità lo stesso partito politico per il quale avevo a lungo militato, naturalmente per chiederle soldi. Io colsi la palla al balzo e mi feci passare l’operatrice per chiederle se avevano bisogno di nuove colleghe in quella campagna di autofinanziamento straordinario. Il giorno seguente, dopo essere uscita presto senza svegliarti e lasciandoti solo un bigliettino di addio, ero già nella capitale, prima tappa di un lungo viaggio che mi avrebbe portato a vendere tappeti volanti vagando per l’Europa, un girovagare del quale ti scriverò la prossima volta. Ciao, tua Virginia.



6 – Gli sposini

La tipica casa degli sposini di provincia solitamente consiste in un appartamento in una palazzina costruita da una cooperativa edilizia, finita in tutto, tranne che per le opere di urbanizzazione. Si sa che le municipalità chiedono degli oneri esosi, ma per i lavori poi se la prendono con calma, quindi la strada per raggiungerli spesso è ancora in terra battuta, a volte piena di buche e di conseguenti pozzanghere. Gli atri e i pianerottoli completamente spogli e rimbombanti del nulla, nei casi più felici ci puoi trovare un Benjamin o un lauro che sta perdendo le foglie e un foglio in bacheca con i turni delle pulizie scale. Gli appartamenti sono tutti uguali, perché uscire dai capitolati è quasi sempre un taglieggiamento. Le finiture sono solitamente economiche e l’isolamento acustico è penoso. Copiosi sono i racconti di cosa sentano reciprocamente i condomini: mi è capitato di parlare in casa di una persona, una volta poi suonato alla vicina, questa mi risponde di aver già sentito tutto quanto, quindi tante grazie e arrivederci!

Entrare in casa dei giovani sposi o conviventi non è difficile: sovente si sono indebitati fino al collo per rendere piacevole il loro nido, di conseguenza non disdegnano nel farlo visitare, e poi le giovani coppie non hanno la corazza delle casalinghe di mezz’età abituate a combattere tutti i giorni con venditori di ogni specie. L’arredo è ovviamente nuovo e luccicante e qui aprirei una parentesi sui mobili laccati lucido: a prima vista danno un’immagine brillante dell’oggetto, ma poco dopo ti sorge un desiderio interno di spegnerli, sono assolutamente respingenti. In alcune case, tra ceramica del bagno, mobili laccati, cristalli vari e magari granito lucido come pavimento, viene voglia di mettersi gli occhiali da sole.

Ad ogni modo complimentarsi dell’abitazione è la prima cosa che deve fare un venditore appena entra in casa, i complimenti piacciono a tutti in generale, ma quelli sulla casa vanno sempre a segno. Io facevo di più, non solo mi complimentavo e mi fingevo sbalordito da tanta meraviglia e incredulo del fatto che il risultato fosse esclusivamente opera del loro buongusto, ma addirittura mi inventavo che stessi sistemando casa e chiedevo notizie e riferimenti del mobiliere, segnandomi telefono e recapito, fingendomi disinteressato al fatto che fossi lì per vendere l’aspirapolvere. In fase poi di contrattazione, viene più difficile dire no ad una persona a te così congeniale, una che ti ha dimostrato grande stima, una che probabilmente comprerà il tuo stesso arredamento dal tuo stesso mobiliere, vuoi che non sappia che sistema di pulizia sia più opportuno adottare e darti spassionatamente il giusto consiglio?

Questi tipi di appartamenti comunque sono completamente asettici, non sono influenzati dal vissuto dei loro abitanti, bensì il contrario. Ragazzi che fino a ieri non si erano mai tolti le scarpe entrando in casa, ora li trovi con la ciabattona imbottita per non frisare il parquet, oppure usavano a casa loro una asciugamano in cinque, ora hanno le loro belle salviette con scritto Lui e Lei e le ripongono e ripiegano con delicatezza. Così pure con le tazze della colazione e quant’altro in casa!

Sarà un mio pregiudizio, ma ho sempre letto un filo di tristezza negli occhi di questi giovani sposi, a volte pare quasi si sentano in una prigione. Sì, certo, costosamente arredata ma pur sempre una prigione. Io quando uscivo a mi fermavo a guardare queste palazzine residenziali costruite nel nulla, in mezzo ai campi, con un po’ di malinconia me ne andavo come ci si allontana da un ospedale dopo che si è andati a far visita a qualcuno. Anche per questa ragione, all’inizio della mia carriera non riuscivo a vendere bene a queste famigliole, mi sentivo in colpa come qualche mio coetaneo che veniva spedito a vendere pentole o enciclopedie alle persone meno colte e più suggestionabili nei casermoni di Cologno monzese.

Avrei in seguito imparato a incattivirmi, o meglio estraniarmi dalla mia coscienza, seguendo gli insegnamenti del mio capo distretto, il “talebano” Frosi, ., ricordate?, Frosi invece si dimise polemicamente dall’azienda per essere stata preferita alla sua esperienza la figa di una collega nella promozione a dirigente, e amareggiato sfogò la sua frustrazione in un livido pamphlet che riapro a caso su un paragrafo:

Non importa se un prodotto fa del bene o del male, quello che conta è che venga consumato in quantità sempre più crescenti. Poiché tutto quello che fa la corporazione ha come fine ultimo la creazione del profitto, non offre ai suoi lavoratori alcuna soddisfazione personale, alcuna sensazione di contribuire qualcosa di utile alla società: vai a lavorare per una corporazione e, tramite un buon salario e vari incentivi, sei installato come un collegamento senza volto in una catena che si allunga, completando il circolo facendo di te un consumatore in più di tutta quella spazzatura. In una società dove il lavoro era diventato il metro di valutazione di ogni altro valore e l'uomo giudicato in base al suo rapporto con il lavoro, questo veniva considerato come la sua stessa essenza, l'unico modo in cui l'uomo trasforma la realtà, la possiede e la fa sua.

Penso che questo paragrafo il Frosi l’avesse preso pari pari da Jonathan Pilger. Comunque avevo appena spedito a Virginia quanto sopra che lei mi aveva già riscritto quanto sotto.