Mi si è letto spesso scrivere qui di telemarketing, uno dei lavori che fingo meglio di far bene, tanto che l'ho svolto a lungo per grandi aziende come Cbs, Enel, Ibm, Vodafone... Una di queste mi ha recentemente dotato di uno smartphone che altrimenti non avrei potuto permettermi (visto quello che queste multinazionali mi pagano) e perciò ho cambiato modo di lavorare: anziché rinchiuso in un edificio con colleghe brutte e antipatiche, per fare le mie chiamate ai potenziali clienti posso installarmi su una panchina in un campo di Venezia sconosciuto ai turisti, o addirittura prendere il treno, quando non è affollato, per fare su e giù tra Venezia e Trieste. Il biglietto vale sei ore, circa come la batteria del mio apparecchio.

Attualmente sto portando avanti una campagna diretta ai geometri, che sono soggetti ideali, Dio li benedica. Dovessi chiamare dei macellai, mi troverei in difficoltà: io non sono leghista e loro non sono vegetariani. Dovessi chiamare dei premi Nobel, ancora peggio: hanno già sottoscritto tutto quello che voleva Pannella e adesso li chiamano di continuo da migliaia di altri partiti politici del mondo. Invece, esattamente a metà strada tra il macellaio e il premio Nobel si colloca il geometra, figlio del quadrato e dell'ipotenusa (da non credersi ma esistono veramente in Italia due geometri Tondo e uno Quadrato), col quale geometra posso sintonizzarmi sul nostro stesso quoziente di intelligenza medio, circa equivalente al pi greco.

Il geometra ha il vantaggio che è quasi sempre proprio come te lo aspetti: viso rettangolare, quattro arti e una moglie abbastanza soddisfatta, ma senza eccedere, dal punto di vista sessuale. Se dovessimo individuare un geometra nel mondo politico, scommetteri su Pierluigi Bersani, con le sue famose metafore geometriche del tipo "Non siamo mica qui a intersecarci in uno spazio algebrico vettoriale", anche se alcuni attribuiscono il concetto a Niki Vendola e pure a destra hanno spopolato ministri geometrici che si sono spinti a ipotizzare ponti da Cagliari a Palermo e trafori dall'Abruzzo alla Svizzera. Non oso pensare come siano fatti i geometri svizzeri, e verificarlo è davvero l'ultimo dei miei pensieri.

Oggi un geometra, aveva solo 52 anni, mi è schiattato al telefono mentre mi copriva di insulti. Si era accalorato a causa delle continue chiamate di telemarketing: in poche ore lo avevano disturbato 9 compagnie telefoniche, 23 società elettriche, l'olio Carli e tre ditte di surgelati, più una ciascuno di macchinette per il caffè, filtri per l'acqua e aspiramaterassi antibatterici, nonché Pannella che lo credeva un premio Nobel e Bersani che come al solito aveva semplicemente sbagliato numero. Mentre lo lasciavo sfogare, il geometra si è infervorato a tal punto in un crescendo di vaffanculi che d'improvviso è scoppiato e rimasto stecchito, silente. D'altronde molti geometri sono tradizionalmente periti.

Pazzesco che la chiamata successiva che avevo già in programma fosse proprio per un geometra titolare di un'agenzia di onoranze funebri, tale signor Euclide, che provvederà alle esequie del collega, del quale mi ha chiesto le misure per la bara. E che cazzo ne so?!? Non l'ho mai visto. L'ho ammazzato per telefono, mica di persona. Faccia un metro cubo abbondante e speriamo che basti. Adesso mi restano da chiamare ancora un migliaio di geometri (ai quali auguro lunga vita) e poi potrò scegliere io la prossima categoria commerciale bersaglio del mio evil-marketing. Pensavo ai lettori del blog (se volete lasciate il numero nei commenti), ma sono già in via di estinzione e non vorrei uccidere i pochi rimasti.


Dupuis e la lettera rubata
(liberamente ispirato ad Edgar Allan Poe)

A Parigi, poco dopo l’imbrunire di una sera nera e tempestosa dell’autunno 1811, Monsieur Marc’Appat si concedeva la duplice voluttà della meditazione e di una pipa di schiuma, in compagnia del suo amico Olivier Auguste Dupuis, nella sua piccola biblioteca o studiolo au troisème, rue Dunot, Faubourg St. Germain. Per oltre un’ora erano rimasti in silenzio; a un osservatore esterno ognuno dei due poteva sembrare , profondamente ed esclusivamente, preso dalle lente spirali di fumo che appesantivano l’atmosfera della stanza. Marc’Appat, per conto suo, discuteva tra sé e sé alcuni degli argomenti che erano stati al centro della loro conversazione nella prima parte della serata, cioè i fatti della Rue Morgue e il mistero sull’assassinio di Marie Roger. Perciò gli sembrò una sorta di coincidenza, quando la porta del loro appartamento si aprì per far entrare una loro vecchia conoscenza: Monsieur PPPP, ovvero Pannella, il Prefetto di Polizia di Parigi.

Fu accolto con grande cordialità, perché l’uomo era insieme tanto amabile quanto spregevole e loro non lo vedevano da alcuni anni. Visto che erano rimasti seduti al buio, Dupuis si alzò per accendere una lampada; ma si rimise a sedere, senza farlo, sentendo Pannella dire che era venuto per consultarli, o meglio per chiedere il parere del mio amico su una questione di lavoro che gli stava creando una quantità di guai.

“Se è un fatto che chiede riflessione”, osservò Dupuis, trattenendosi dall’accendere la lampada, “l’esamineremo meglio stando al buio”.

“Ancora un’altra delle sue bizzarrie”, disse il Prefetto per il quale era bizzarro tutto ciò che superava la sua capacità di comprensione e che perciò viveva in mezzo a un mondo di bizzarrie.

“Verissimo!”, disse Dupuis offrendo una pipa all’ospite e spingendo verso di lui una comoda poltrona.

“E qual è ora la difficoltà?”, intervenne Marc’Appat, “non un altro cappaticidio, spero!”

“Oh, no! Niente di simile. Di fatto il lavoro è in verità semplicissimo e non ho dubbi che potremmo gestirlo abbastanza bene da soli; ma ho pensato che a Dupuis non sarebbe dispiaciuto conoscerne i particolari, visto che si tratta di una cosa straordinariamente bizzarra”.

“Semplice e bizzarra”, disse Dupuis.

“Proprio, sì! Eppure non esattamente. Il fatto è che siamo in grave imbarazzo in quanto è veramente semplice, eppure non ne veniamo a capo”.

“Forse è la sua stessa semplicità che vi induce in errore”, disse il vecchio amico di Marc’Appat.

“Che sciocchezze dice”, replicò il Prefetto ridendo di cuore.

“Forse il mistero è un po’ troppo semplice”, disse Dupuis.

“Per amor del cielo! Chi ha mai sentito un’idea simile!”

“Un po’ troppo evidente”.

“Ah! Ah! Oh! Oh! Ah! Ah!”, tuonò il loro ospite, che sembrava divertirsi molto,

“Oh! Dupuis, lei mi farà morire malgrado tutto!”

“Allora”, domandò Marc’Appat, “di che si tratta?”

“Vi dirò”, replicò il prefetto, aspirando una lunga, intensa e meditabonda boccata e accomodandosi nella poltrona. “Vi dirò in poche parole. Ma prima di cominciare, devo avvertire tutti e due che si tratta di una faccenda molto riservata, e che io perderei la posizione che occupo se si sapesse che ne ho parlato con qualcuno”.

“Vada avanti”, disse Marc’Appat.

“Oppure non cominci affatto”, disse Dupuis.

“Insomma, via. Sono stato informato personalmente da qualcuno molto in alto, che un certo documento della massima importanza era stato trafugato dagli appartamenti reali. Si sa chi è stato senza alcun dubbio. È stato visto mentre lo prendeva. Si sa anche che il documento è ancora nelle sue mani”.

“E come si sa?”, chiese Dupuis.

[1 di 11. continua]



“Lo si deduce chiaramente”, replicò il Prefetto, “dalla natura del documento e dalla mancata comparsa di alcuni risultati che ci sarebbero immediatamente se sortisse dalle mani del ladro; in altre parole, se fosse impiegato per lo scopo per cui costui deve proporsi, alla fine, di farne uso”.

“Cerchi di essere più chiaro”, intervenne Marc’Appat.

“Arriverò fino a dire che questo documento dà al suo detentore un certo potere in un certo ambiente in cui questo potere ha un valore immenso”. Il Prefetto aveva un debole per il  linguaggio diplomatico.

“Continuo a non capire niente”, disse Dupuis.

“Niente? Dunque questo documento, mostrato a una terza persona di cui non faccio il nome, metterebbe in questione l’onore di una personalità del più alto rango. Questo fatto dà al possessore del documento un potere sull’illustre personaggio di cui sono messi a repentaglio l’onore e la pace”.

“Questo presunto ascendente”, s’intromise Marc’Appat, “dipende dal fatto che il derubato sa chi è il ladro. Chi oserebbe…”

“Il ladro”, disse PPPP, “è il ministro De Perlinghi, che è capace di osare tutto, conveniente o sconveniente che sia per un uomo. La meccanica del furto è stata ingegnosa non meno che ardita. Il documento in oggetto, una lettera, per essere franco, è stata ricevuta dalla persona derubata mentre si trovava da sola nel boudoir reale. La stava leggendo quando improvvisamente fu interrotta dall’ingresso dell’altro illustre personaggio, proprio colui al quale voleva particolarmente nasconderla. Dopo essersi affrettata invano a tentare di gettarla in un cassetto, dovette lasciarla, aperta come era, su un tavolo. L’indirizzo era visibile, il contenuto era perciò nascosto, e quindi la lettera non attrasse l’attenzione. È in quel momento che arriva il ministro De Perlinghi. Il suo occhio di lince coglie immediatamente il valore del documento, riconosce la calligrafia dell’indirizzo, nota l’imbarazzo della persona cui era indirizzata e ne capisce il suo segreto. Dopo aver trattato qualcuno dei suoi affari, sbrigativamente come suo costume,, estrae dalla tasca una lettera quasi uguale a quella incriminata, la apre e finge di leggerla mettendola proprio accanto all’altra. Si rimette a discutere per circa un quarto d’ora di affari pubblici. Tirata alla lunga la cosa, mentre si congeda prende dal tavolo la lettera che non gli appartiene. Il legittimo proprietario vede, ma naturalmente non può rischiare di attrarre l’attenzione sul fatto in presenza del terzo personaggio che gli è accanto, il ministro se ne va, lasciando sul tavolo la sua lettera senza importanza”.

“Ecco qui”, disse Dupuis rivolgendosi a Marc’Appat, “questo è esattamente quel che lei cercava per ottenere un potere perfetto; il ladro sa che il derubato sa chi è il ladro”.

“Sì”, replicò il Prefetto, “e da qualche mese a questa parte, ha usato ampiamente, a fini politici, il potere che ha così conquistato e fino a un limite molto pericoloso. La persona derubata è di giorno in giorno sempre più convinta che è necessario recuperare la lettera. Ma chiaramente questo non si può fare alla luce del sole. In breve, spinta dalla disperazione, mi ha affidato questo incarico”.

“Non si poteva, suppongo”, disse Dupuis, “desiderare o immaginare un agente più sagace”.

“Lei mi adula”, replicò il prefetto, “ma è possibile che questa fosse proprio la sua opinione”.

[2 di 11. continua]



“È evidente come ha detto lei”, intervenne Marc’Appat, “che la lettera è ancora nelle mani del ministro; è il fatto di possederla e non l’uso che se ne può fare a dargli potere. Usandola, il potere verrebbe meno”.

“È vero”, disse PPPP, “e mi sono mosso con questa convinzione. La mia prima cura è stata quella di procedere a una minuziosa perquisizione della dimora del ministro; il mio principale ostacolo è dover cercare a sua insaputa. Soprattutto sono stato avvertito del pericolo che deriverebbe dal fatto che sospettasse del nostro piano”.

“Mi pare”, disse Marc’Appat, “che lei si trovi au fait in un’indagine del genere. La polizia parigina ha fatto più d’una volta ricorso a questa pratica”.

“Certo! Per queste ragioni non dispero. Le abitudini del ministro, poi, mi danno un grande vantaggio. È spesso assente da casa sua per tutta la notte. I domestici non sono tanti, dormono a una certa distanza dall’appartamento del loro padrone e poiché sono in gran parte napoletani si lasciano facilmente ubriacare. Come sapete, dispongo di chiavi capaci di aprire tutte le camere e gli uffici di Parigi. Per tre mesi, non è passata notte in cui, per gran parte, io non abbia a lungo frugato, personalmente, il Palazzo De Perlinghi. Ne va del mio onore e, in confidenza, la ricompensa è enorme. Così non ho abbandonato le ricerche finché mi sono convinto che il ladro era più astuto di me. Ritengo di aver esaminato ogni angolo, ogni più piccolo ripostiglio in cui fosse possibile nascondere una lettera”.

“Ma non si può pensare”, insinuò Marc’Appat, “visto, come è sicuro che il ministro ha la lettera, che egli l’abbia nascosta fuori di casa sua?”

“No! È impossibile”, disse Dupuis, “lo stato attuale, particolare, degli affari di Corte e la natura degli intrighi di cui De Perlinghi, come si sa, è coinvolto, fanno dell’immediata possibilità di uso del documento, della possibilità di produrlo istantaneamente, un punto importante quanto il possederlo”.

“La possibilità di produrlo?”, disse Marc’Appat.

“Vale a dire di distruggerlo”, disse Dupuis.

“È vero”, sottolineò Marc’Appat, “la lettera è perciò evidentemente nella sua abitazione. Quanto all’eventualità che si trovi addosso al ministro, possiamo considerarla fuori causa”.

“Proprio così”, disse il Prefetto, “per due volte è stato aggredito da falsi rapinatori che l’hanno scrupolosamente perquisito sotto i miei occhi”.

“Si sarebbe potuto risparmiare la fatica”, disse Dupuis, “De Perlinghi non è del tutto uno sciocco, presumo, e se non lo è, deve aver previsto questi agguati come cosa normale”.

“Non è del tutto uno sciocco”, disse PPPP, “ma è un poeta, e questo, a mio parere, lo porta a un passo dall’esserlo”.

“È vero”, disse Dupuis dopo una lunga tirata meditabonda della sua pipa di schiuma, “anche se io stesso mi sono reso colpevole di qualche verso”.

“E se cominciasse col raccontarci i particolari della sua perquisizione?”, disse Marc’Appat.

“In concreto, abbiamo proceduto con grande calma e abbiamo cercato dappertutto. Ho una lunga esperienza di queste faccende. Abbiamo perquisito l’intero palazzo, camera per camera, dedicando ad ognuna le notti di un’intera settimana. Abbiamo poi esaminato i mobili di ogni sala. Aperto tutti i cassetti immaginabili, e penso che voi sappiate che per un agente ben addestrato non esistono cassetti segreti. Chi si lasciasse scappare un cassetto segreto in una perquisizione del genere sarebbe un incapace. Il compito è talmente semplice. Ogni pezzo di una stanza ha un volume e una superficie di cui bisogna render conto; a questo fine osserviamo regole esatte, non può sfuggirci neanche la venticinquesima parte di un millimetro. Dopo le camere abbiamo preso in esame le seggiole. I cuscini sono stati sondati con quei lunghi aghi che mi avete visto adoperare. Abbiamo sollevato tutti i ripiani dei tavoli”.

[3 di 11. continua]



“E perché?”, domandò Marc’Appat.

“Talvolta capita che i piani, sia dei tavoli che di ogni altro mobile simile, siano rimovibili proprio per creare nascondigli. Si scavano perfino le gambe dei tavoli per nascondere qualcosa nelle cavità e poi richiuderle. Lo stesso vale per i montanti dei baldacchini dei letti”.

“Non si potrebbe scoprire le cavità col suono”, domandò ancora Marc’Appat.

“Nient’affatto. Basta avvolgere l’oggetto dentro una coltre d’ovatta. Noi eravamo inoltre obbligati ad agire nel massimo silenzio”.

“Mi sembra impossibile che abbiate potuto smontare, che abbiate potuto fare a pezzi, tutti i mobili che potessero diventare un deposito di quel tipo. Una lettera può essere arrotolata in un cilindro non dissimile per forma e volume da un grosso ferro da calza, e in questa forma essere inserita in una gamba di seggiola, per esempio. Ha smontato tutte le seggiole?”

“Certamente no, abbiamo fatto di meglio, abbiamo esaminato le gambe di tutte le seggiole del palazzo e le giunture di tutti i pezzi del mobilio con un potente microscopio. Se ci fosse stata la benché minima traccia di una recente manomissione, non ci sarebbe sfuggita. Un solo granello di polvere prodotto dal trapano, ad esempio, sarebbe stato visibile come una mela, ogni alterazione nella colla, ogni fessura nelle giunture sarebbe bastata a rivelare il nascondiglio”.

“Presumo che lei abbia controllato gli specchi, telai e lastre, e che abbia frugato letti e coperte, tende e tappeti”.

“Naturalmente; e quando fu così conclusa l’ispezione di ogni singolo mobile, abbiamo esaminato la casa. Abbiamo suddiviso la totalità della superficie in scomparti numerati, per non ometterne nessuno. Ogni metro quadrato è stato oggetto di esame microscopico, come prima, comprese le due case adiacenti”.

“Le due case adiacenti?”, esclamò Marc’Appat, “deve essere stata una sfacchinata”.

“È vero; ma la ricompensa offerta è enorme”.

“Nelle case avete incluso anche il suolo circostante?”

“Il suolo è interamente pavimentato a mattoni. È stata una fatica relativamente piccola, abbiamo esaminato il muschio tra i mattoni, era intatto”.

“Avrà certamente controllato le carte di De Perlinghi, e i libri della biblioteca?”

“Sicuro! Abbiamo aperto ogni pacco e involucro. Non abbiamo soltanto aperto i libri, li abbiamo sfogliati pagina per pagina, senza contentarci di scrollarli, come fa qualcuno dei nostri funzionari. Abbiamo persino misurato lo spessore di ogni rilegatura con grande minuzia, attraverso l’indiscreto esame del microscopio. Se qualcosa fosse stata inserita di recente nelle rilegature, non avrebbe potuto sfuggire all’osservazione. Cinque o sei volumi, appena usciti dalle mani del rilegatore, sono stati accuratamente sondati con aghi per tutta la lunghezza”.

“Avete esplorato i pavimenti sotto i tappeti?”

“Naturalmente. Abbiamo sollevato ogni tappeto e esaminato le assi del pavimento al microscopio”.

“E le tappezzerie alle pareti?”

“Anche”

“Avete cercato nelle cantine?”

“Anche nelle cantine”.

“Così”, disse Marc’Appat, “avete sbagliato strada e la lettera non si trova nel palazzo. Come lei pensava”.

“Temo che lei abbia ragione”, disse il Prefetto. “Ora, Dupuis, che cosa mi consiglia di fare? ”

“Una nuova perquisizione completa”.

“È inutile!”, replicò PPPP. “Sicuro come il fatto che sono vivo, la lettera non è nel palazzo!”

“Non ho niente di meglio da consigliare”, disse Dupuis. “Immagino che lei possa descrivere dettagliatamente la lettera”.

“Oh, sì”.

[4 di 11. continua]


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"La fantasía como necesidad", Marco Pannella

TOSONI SILVIA GELATERIA
81, Viale Brescia - 25080 Mazzano (BS) | 030 2120285

A questo punto il Prefetto Pannella, estratta un’agenda, prese a leggere a voce alta una minuziosa descrizione del documento perduto, del suo interno e soprattutto del suo aspetto esterno. Poco dopo, conclusa la lettura, il brav’uomo si congedò da noi più abbattuto e scoraggiato di quanto Marc’Appat l’avesse mai visto prima di allora.

Un mese dopo circa, ci fece una seconda visita e li trovò pressappoco occupati come la volta precedente; prese una pipa e una seggiola e cominciò a parlare di questo e di quello, finché non intervenne Marc’Appat dicendo:

“Allora PPPP, che ne è della lettera trafugata? Immagino che ora si sia convinto che mettere nel sacco il ministro non è poi tanto semplice!”

“Che vada al diavolo…! Sì, ho rifatto una perquisizione, come mi aveva consigliato Dupuis e, come immaginavo, è stata una fatica sprecata”.

“Quale ha detto che è la cifra della ricompensa?” domandò Dupuis.

“Beh, veramente notevole, una ricompensa proprio grandiosa, ma non mi va di dire proprio la cifra, dirò che non esiterei a pagare di tasca mia cinquantamila franchi a chi riuscisse a portarmi questa lettera. In effetti diventa ogni giorno più urgente, e recentemente la ricompensa è stata raddoppiata. Ma anche se la triplicassero, io non riuscirei a compiere il mio dovere meglio di così”.

“Ma… certo…”, disse Dupuis, tirando fuori le parole lentamente dalla bocca insieme a larghe boccate di fumo. “Io credo… veramente… che lei caro PPPP, non abbia fatto in questo caso tutto il possibile. Lei potrebbe fare… un po’ di più, penso. No?”

“Come! In che modo?”

“Ma… (puff, puff) potrebbe… (puff, puff) chiedere consiglio in materia, no? (puff, puff, puff) Si ricorda cosa si racconta di Abernethy?”

“Al diavolo! Certo e tanti saluti! Allora, c’era una volta un ricco, molto avaro, che trovò un espediente per evitare di pagare a questo Abernethy un consulto medico. A questo scopo, durante una festa da amici intraprese una normale conversazione con il medico nella quale tentò di insinuare il proprio caso fingendo che si trattasse di un caso immaginario ‘Potremmo supporre’, disse dunque questo avaro, ‘che i sintomi siano questo e quest’altro; allora, dottore, cosa gli avrebbe detto di prendere?’ ‘Prendere?’ disse Abernethy ‘certamente prendere consiglio’. Ma – disse il Prefetto sorpreso, sono seriamente disposto a prendere consiglio e a pagare per questo. Darei sul serio cinquantamila franchi a chiunque mi desse un aiuto in materia”.

“Se le cose stanno così”, disse Dupuis, aprendo un cassetto ed estraendone un libretto di assegni, “riempia un assegno a mio nome per la somma suddetta. Quando l’avrà firmato, le consegnerò la lettera”.

Marc’Appat era senza parole. Il Prefetto però era come annientato. Per alcuni minuti restò muto e immobile, guardando incredulo il suo amico, a bocca aperta e con gli occhi fissi fuori dalla testa. Poi sembrò ritornare in sé, prese una penna e dopo un filo di esitazione e di occhi fissi nel vuoto finalmente riempì e firmò un assegno di cinquantamila franchi e lo consegnò a Dupuis attraverso il tavolo. Questi lo controllò accuratamente e lo ripose nel suo portafoglio; poi, aperto un secrétaire chiuso a chiave, ne estrasse una lettera e la consegnò al Prefetto.

[5 di 11. continua]



Il funzionario la agguantò quasi morto di gioia, la aprì con le mani tremanti, dette uno sguardo veloce al contenuto, poi inciampando e precipitandosi alla porta, uscì senza tante cerimonie dalla stanza e dalla casa, senza aver detto una sola parola da quando Dupuis gli aveva chiesto di firmare l’assegno. Quando se ne fu andato, l’amico di Marc’Appat gli dette qualche spiegazione.

“La polizia di Parigi”, disse, “è troppo abile nel fare il suo mestiere. È perseverante, ingegnosa, furba e possiede tutte le qualità richieste dal dovere. Per questo quando PPPP stava illustrandoci nei dettagli il suo modo di perquisire il palazzo De Perlinghi, ero totalmente certo che avesse condotto un’indagine adeguata, fin dove possano le sue competenze”.

“Dove possano le sue competenze?”, domandò Marc’Appat.

“Sì”, disse Dupuis, “le misure adottate erano le migliori del loro genere e perfettamente eseguite. Se la lettera fosse stata nascosta con la logica che ispirava quella perquisizione, quei poliziotti l’avrebbero trovata, non ho dubbi”.

Marc’Appat rise, semplicemente, ma Dupuis aveva l’aria di avere parlato con grande serietà.

“Allora”, continuò, “i provvedimenti erano buoni nel loro genere e perfettamente eseguiti. Avevano un solo difetto: non erano applicabili al caso e all’uomo in questione. Il Prefetto ha la tendenza ad impiegare tutto un genere di mezzi ingegnosi che diventano il suo letto di Procuste, sul quale adatta forzatamente tutti i suoi piani. Ma sbaglia continuamente o per troppa profondità o per troppa superficialità rispetto alla materia che tratta; uno scolaro avrebbe ragionato meglio di lui. Ho conosciuto un bambino di otto anni i cui successi nel gioco del pari e dispari suscitavano generale ammirazione. Un gioco semplice, che si fa con delle palline. Uno dei giocatori tiene nel pugno chiuso un certo numero di palline e chiede all’altro se il numero è pari o dispari. Se l’altro indovina, vince una pallina; se sbaglia ne perde una. Il bambino di cui sto parlando vinceva tutte le palline della scuola. Naturalmente seguiva un criterio per indovinare; quello di osservare attentamente l’avversario, valutandone il grado di astuzia. Mettiamo il caso che l’avversario sia un sempliciotto e che sollevando la mano chiusa chieda ‘pari o dispari?’, il ragazzo risponde ‘dispari’ e sbaglia. La volta seguente indovina perché dice a sé stesso ‘questo sciocco alla prima prova aveva un numero pari, con la sua scarsa intelligenza non potrà che mettere un numero dispari la seconda; risponderò perciò: dispari; risponde dispari e vince. Con un avversario un po’ meno sempliciotto pensa: ‘poiché ho detto dispari la prima volta, la seconda questo pensa che non basta una semplice variazione da pari a dispari come ha fatto il primo sciocco giocatore; visto che un cambiamento così è troppo semplice e ripeterà il pari, dirò: pari!’ Lo dice e vince. Questo genere di ragionamento, quello che i compagni chiamano fortuna, che cosa è in ultima analisi?”.

“È semplicemente”, rispose Marc’Appat, “una identificazione dell’intelletto del giocatore con quello del suo avversario”.

“Proprio così”, disse Dupuis, “e quando chiesi al bambino in che modo raggiungeva questa perfetta identificazione che lo portava al successo, mi diede questa risposta: ‘quando voglio sapere fino a che punto qualcuno è attento o è stupido, fino a che punto è buono o cattivo, o quali sono i suoi pensieri in quel momento, atteggio l’espressione del mio viso sull’espressione del suo, il più esattamente possibile, e aspetto di sapere quali pensieri o quali sentimenti nasceranno in me, nella mente o nel cuore, per corrispondere alla espressione’. Questa risposta dello scolaro sta alla base di tutta la profondità spuria attribuita a La Rochefoucauld, a La Bougive, a Machiavelli e a Campanella”.

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“L’identificazione”, disse Marc’Appat, “dell’intelletto del ragionatore con quello dell’avversario dipende, se capisco bene, dall’esattezza con cui viene valutato l’intelletto dell’avversario”.

“Da un punto di vista pratico dipende da questo”, rispose Dupuis, “e, se il Prefetto e il suo seguito sbagliano tanto spesso, è prima di tutto per difetto di questa identificazione, è prima di tutto per difetto di questa identificazione e, in secondo luogo, per impreciso o mancato apprezzamento dell’intelligenza con la quale si stanno misurando. Considerando esclusivamente la propria idea di ingegnosità e cercando di svelare cose nascoste, pensano soltanto a come loro avrebbero voluto nasconderle. Hanno ragione solo nel ritenere che la loro ingegnosità è una fedele rappresentazione di quella della massa; ma di fronte a un preciso malfattore la cui finezza differisce dalla loro, il malfattore chiaramente li travolge. Questo capita sempre quando la capacità è superiore alla loro, ma è cosa peraltro frequente anche quando è inferiore. Non cambiano mai il loro sistema di indagine; al massimo, quando sono sollecitati da emergenze insolite, per esempio una ricompensa straordinaria, esagerano esasperando i loro abituali metodi, ma i principi restano invariati. Nel caso di PPPP, per esempio, cosa è stato fatto per cambiare il sistema operativo? Che vogliono dire tutte quelle perforazioni, quelle manomissioni, quei sondaggi, quegli esami microscopici, quel dividere tutte le superfici in metri quadrati numerati? Non è niente altro che l’esasperazione nell’applicazione di uno o più principi di indagine, basati su un’unica categoria di classificazione dell’umana ingegnosità alla quale il Prefetto è stato abituato nella lunga routine del suo mestiere. Non ha visto che no riesce a considerare altra eventualità che chi voglia nascondere una lettera debba servirsi, se non proprio da un buco fatto da un trapano nella gamba di una sedia, comunque sempre di un buco, di un angolo nascosto come lo suggerirebbe il tipo di intelligenza che spingerebbe a nascondere una lettera nel buco fatto da un trapano nella gamba di una sedia? Non le sembra anche che nascondigli tanto ricercati possano essere utilizzati soltanto in casi comuni e adottati da intelligenze comuni perché in un nascondiglio di qualsiasi genere la sistemazione dell’oggetto occultato – che sia fatta in questo modo ricercato – è fin dall’inizio presupponibile e presupposta; la scoperta, quindi, non dipende dall’acumen ma soltanto dalla semplice cura, dalla pazienza e dalla tenacia dei cercatori. Quando il caso è importante, e per la polizia il caso è importante quando ne viene una ricompensa grande, non si dà mai il caso che vengano meno queste belle qualità. Ora capirà cosa voglio dire affermando che, se la lettera rubata fosse stata nascosta entro i limiti della perquisizione del nostro Prefetto o, in altri termini, se i criteri che avevano guidato questo occultamento fossero rientrati tra i criteri del prefetto, egli l’avrebbe inevitabilmente scoperta. Invece, questo funzionario è stato tratto completamente in inganno; la causa dell’origine del suo fallimento consiste nella supposizione che il ministro fosse uno sciocco, perché gode della reputazione di essere poeta. Tutti gli sciocchi sono poeti, così crede il Prefetto, ed è semplicemente colpevole di una non distributio medii nel dedurre di qui che tutti i poeti sono sciocchi”.

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“Ma è veramente lui il poeta?”, chiese Marc’Appat, “ci sono due fratelli, questo so. Entrambi con una reputazione di letterati. Il ministro credo che abbia scritto cose notevoli sul calcolo differenziale. Lui è il matematico e non il poeta”.

“Si sbaglia; lo conosco bene, è entrambe le cose. Come poeta e matematico, deve ragionare bene; se fosse stato un semplice matematico non avrebbe ragionato affatto e si sarebbe messo alla mercé del Prefetto”.

“Lei mi stupisce”, disse Marc’Appat, “con queste sue idee, in contrasto con quel che si pensa normalmente. Non vuole ammettere un’idea maturata nel corso dei secoli. La ragione matematica è da molto tempo considerata come la ragione par excellence”.

‘Il y a à parier’”, rispose Dupuis citando Chamfort, “‘que toute idèe publique, toute convention reçue, est une sottise, car a convenue au plus grand nombre’. Ammetto che i matematici hanno fatto del loro meglio per propagare l’errore popolare cui lei allude, e che non è meno erroneo soltanto per il fatto che è propagato come una verità. Per esempio, siamo stati abituati, con artificio degno di miglior causa, a definire ‘analisi’ le operazioni algebriche. I francesi sono i primi colpevoli di questo inganno scientifico; ma se si riconosce che le parole di una lingua hanno un’importanza reale, se le parole traggono senso dal loro uso, allora posso concedere che analisi equivalga ad algebra, più o meno come accade in latino dove ambitus vuol dire ambizione, religio, religione, o homines honesti, gente di onore”.

“Vedo già”, disse Marc’Appat, “che è in polemica con qualche algebrista parigino; ma la prego di continuare”.

“Io contesto l’utilità, e di conseguenza la validità di una ragione coltivata attraverso ogni procedimento speciale che non sia la logica astratta. Contesto in particolare la ragione prodotta dallo studio della matematica. La matematica è la scienza delle forme e delle quantità: il ragionamento matematico non è altro che la conseguenza della logica applicata all’osservazione di forma e quantità. Il grande errore che persino la verità di quella che viene chiamata algebra pura siano verità astratte o generali. Si tratta di un errore tanto grossolano che sono sorpreso dall’unanimità con cui è accolto. Gli assiomi matematici non sono assiomi di verità generali. Quanto è vero dalla relazione – di forma o di quantità – è spesso grossolanamente falso relativamente alla morale, per esempio. In questa ultima scienza, non è vero che la somma delle frazioni sia uguale al tutto. Anche in chimica l’assioma non vale. Non vale, se si tratta di valutare uno stimolo: due stimoli, infatti, ciascuno con un valore dato, non hanno necessariamente, se sommati, un valore pari alla somma dei loro valori, presi separatamente. C’è un cumulo di altre verità matematiche che non sono verità se non nei limiti della relazione. Ma il matematico argomenta sempre per abitudine, a partire dalle sue verità finite, come se fossero applicabili in generale e in assoluto, come d’altra parte il mondo ritiene che sia. Bryant, nella dua notevole Mythology cita una analoga fonte di errore quando si dice che, ‘benché nessuno creda più nelle favole pagane, ce ne dimentichiamo spesso e ne tiriamo deduzioni come se fossero realtà esistenti’. Gli algebristi, però, pagani essi stessi, a certe ‘favole pagane’ danno credito, e ne traggono conseguenze, non tanto per un difetto di memoria, quanto per un’incomprensibile confusione dei loro cervelli. Insomma, non ho mai incontrato un matematico puro del quale fidarmi al di là delle sue radici ed equazioni; o uno che non fosse segretamente sicuro fideisticamente che x2+px sia assolutamente e incondizionatamente uquale a q. Provi a dire a qualcuno di questi signori, per prova o per divertimento, che crede alla possibilità che x2+px non sia completamente uguale a q; quando gli avrà fatto capire che cosa intende, si metta al riparo il più rapidamente possibile, perché indubbiamente tenterà di prenderla a pugni”.

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“Quello che intendo”, continuò Dupuis, mentre Marc’Appat si limitava a ridere delle sue ultime osservazioni, “è che se il ministro fosse stato soltanto un matematico, il Prefetto non avrebbe avuto necessità di firmarmi quell’assegno. Lo conosce però come matematico e poeta, e le misure che presi erano commisurate alle sue capacità e tenevano conto delle circostanze nelle quali agiva. Sapevo bene che era un cortigiano e un audace intriguant. Pensai che un uomo simili era perfettamente al corrente dei metodi ordinari della polizia. Evidentemente, doveva aver previsto, e i fatti porvano che aveva previsto, tutti gli agguati che gli sono stati tesi. Tutte quelle assenze notturne che il Prefetto aveva valutato come circostanze favorevoli al buon esito finale, mi parvero subito come delle ruses per facilitare minuziose perquisizioni da parte della polizia che facevano credere, come effettivamente alla fine credeva PPPP, che la lettera non si trovava in casa. Qualcosa mi convinceva che tutte le idee che ho fatto fatica a esporle nel dettaglio, poco fa, sulla ripetitività dei metodi polizieschi di perquisizione in cerca di oggetti nascosti, sentivo, ripeto, che tutta questa serie di idee si era necessariamente presentata alla mente del ministro. Questo lo aveva portato obbligatoriamente a sdegnare ogni volgare angolino come nascondiglio. Non poteva, pensai, consentirsi la debolezza di pensare che il nascondiglio più complicato, il più riposto nel suo palazzo sarebbe risultato aperto come un banale armadio agli occhi, alle sonde, ai trapani del Prefetto. Capii infine che sarebbe stato indotto alla semplicità inevitabilmente anche se non come conseguenza di una sua scelta deliberata. Ricorderà quanto ridesse il Prefetto quando, suggerii che era probabile che il mistero lo turbasse tanto proprio perché era di assoluta semplicità”.

“Certo, ricordo perfettamente la sua ilarità. Credevo che stesse per avere un attacco di nervi”.

“Il mondo materiale”, continuò Dupuis, “è pieno di analogie strettissime con l’immateriale, è quanto dà colore di verità al dogma retorico per cui una metafora, una similitudine possono rafforzare un’argomentazione e insieme abbellire una descrizione. Il principio della vis inertiae, per esempio, sembra identico in fisica e in metafisica; in fisica il fatto che un corpo grande è messo in moto con maggiore difficoltà di un corpo piccolo, e che il momento della quantità di moto conseguente è proporzionale a tale difficoltà, non è più vero di quanto lo sia in metafisica il fatto che gli intelletti di più vasta capacità e insieme più impetuosi, più costanti e con più varietà di movimenti di quelli di livello inferiore, sono quelli che si muovono meno agevolmente, i più imbarazzati e pieni di esitazioni nei primi passi. Altro esempio: ha mai fatto caso a quali insegne stradali, sulle porte dei negozi, attirino di più l’attenzione?”

“Non ci avevo mai pensato”, disse Marc’Appat.

“Esiste”, riprese Dupuis, “un rompicapo che si gioca con una carta geografica”. Uno dei giocatori prega l’altro di indovinare una parola data, un nome di città, di fiume, di stato o di impero, insomma una parola qualunque, tra le tante esistenti sulla confusa e complicata superficie della carta. Un inesperto del gioco cerca subito di mettere in imbarazzo gli avversari scegliendo tra i nomi scritti nel modo più impercettibile; i più esperti scelgono invece parole che si estendono a grandi caratteri, da un capo all’altro del foglio. Queste parole, come i manifesti e i cartelli stradali a caratteri cubitali, sfuggono all’osservatore proprio perché sono troppo evidenti. È il caso in cui la svista materiale è esattamente analoga alla disattenzione morale con cui l’intelletto si lascia sfuggire le considerazioni che sono troppo evidenti in sé”.

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