Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 4

1979: UNA VITTORIA CHE NON PIACQUE A PANNELLA

Le elezioni del 1979 premiarono la buona prova data dai radicali, attribuendo ad essi un 3,5% con 18 deputati e due senatori. Alla Camera i Radicali superavano i Repubblicani, oltre che i Liberali. Nessun partito aveva mai ottenuto con un sol colpo un aumento così rilevante della rappresentaza parlamentare e del suffragio popolare.
Secondo Pannella quel risultato fu una mezza sconfitta. Chi ne conosceva meglio i calcoli e le previsioni dice che si aspettava un 7%, che avrebbe messo il Partito Radicale alle calcagna del PSI. Il suo comportamento successivo lascerebbe intendere, che considerò quello del 1979 addirittura un fallimento, visto che da allora tutto quanto fece e fece fare al partito ebbe il sapore ed il significato di un diversivo, di un alibi ed infine di una fuga.
Le liste radicali erano state messe a punto sul presupposto di un successo di più ampia portata. La generosità con la quale erano stati attribuiti posti di rilievo in lista ad esponenti noti e meno noti di certi ambienti della sinistra (ed ovviamente qui non si fa riferimento a Sciascia, la cui presenza aveva significato di ben altra portata) non aveva alcun senso se non nella prospettiva di un risultato che avrebbe comunque portato in Parlamento anche molti radicali espressione del Partito e delle sue battaglie e, tra di essi, un buon numero di persone capaci di svolgere un'attività parlamentare qualificante.
Nei tre anni dopo l'ingresso in Parlamento della prima pattuglia radicale, il partito come organizzazione non aveva avuto uno sviluppo lontanamente paragonabile alla crescita di prestigio e di notorietà. Pannella ne aveva voluto la rigida separazione dal gruppo parlamentare. Anzi, con una strana interpretazione della norma statutaria secondo cui gli eletti radicali dovevano considerarsi rappresentanti degli elettori e non del partito, aveva imposto una sorta di sospensione dei deputati dalle attività di partito, al punto che non dovessero neppure partecipare ai congressi annuali, aperti ad iscritti e non iscritti. Tuttavia ai congressi del Partito veniva fatta una relazione del Gruppo Parlamentare, ed a tale titolo Pannella ebbe sempre modo di partecipare come e quando volle. La regola, comunque, fu del tutto capovolta negli anni successivi e così pure quella del divieto del cumulo tra cariche di partito e mandato parlamentare.
Tutto ciò aveva pure determinato un certo malcontento tra i militanti. Questa separatezza, che per alcuni parlamentari significava isolamento da ogni tramite di contatto con la gente e con i militanti, comportava per la massa degli iscritti l'allontanamento non solo da ogni partecipazione alla vita istituzionale, mancando ogni rappresentanza radicale nelle istituzioni locali, ma anche ogni contatto ed ogni possibilità di effettiva comprensione rispetto al lavoro parlamentare.
Di fronte ai mugugni ed all'opposizione di quanti reclamavano che il partito fosse un po' più un partito, Pannella reagì con durezza, definendo gli oppositori "lanciatori di merda" e ricorrendo a tipici colpi di scena, come quando, di fronte al riottoso congresso di Genova del novembre 1979, fece proporre che il congresso si trasferisse in Francia per manifestare contro l'arresto di Jean Fabre, segretario transnazionale avant la lettre, obiettore di coscienza, rientrato in Patria proprio per farsi arrestare alla vigilia del congresso.
Alla debolezza del partito come organizzazione, ma, soprattutto, come sede di elaborazione di idee e di iniziativa politica, si aggiungeva pure una scarsa omogeneità del gruppo parlamentare uscito dalle elezioni del '79, per una buona parte composto di elementi approdati alla sponda radicale solo al momento della formazione delle liste, alcuni dei quali rimasti fuori del partito. Pannella, del resto, aveva parlato di "lista autobus", per portare in Parlamento persone libere di "scendere" una volta giunte a destinazione. Il che non avvenne, così come non si era realizzato quel grandissimo successo che avrebbe giustificato tanta generosità.
Tuttavia il successo radicale c'era stato, e quanto era stato ottenuto, consentiva di disporre di una base, fatta soprattutto di attenzione e di simpatie, oltre che di un indubbio riconoscimento della diversità dagli altri partiti, che consentiva passi ulteriori.
Occorreva non offuscare l’immagine radicale che il Paese aveva recepito, capire i significati del consenso ottenuto, visto che, per quante ragioni possano concorrere e per quante occasioni possano averle favorite, una causa prima, un filo conduttore del successo doveva pur esserci,. Questo era certamente, per il partito radicale, la sua diversità dai partiti del potere, la sua estraneità ai patteggiamenti ed ai meccanismi clientelari, di ladrocinio, di prevaricazione, la sua coerenza nella fede nello stato di diritto, nelle leggi, nella giustizia, nei diritti civili. Era, in sostanza, l'immagine dell'antipartito, dell'antiregime.
Conservare questo ruolo e svolgerlo nel paese frastornato dal terrorismo, distratto dai molti velleitarismi ereditati dal '68, confuso dagli alibi e dagli intrighi dei golpe e dei controgolpe, della P2, con una stampa ed una televisione asservita non era certamente facile. Ma i fatti e soprattutto gli errori madornali, le fughe, le stravaganze ed i contorcimenti che non hanno avuto tuttavia la capacità di spegnere del tutto e subito l'immagine conquistata dal Partito Radicale, hanno dimostrato che il compito non sarebbe stato impossibile e nemmeno difficilissimo, a meno che un deliberato proposito di autodistruzione avesse imposto che questo partito dovesse essere e rimanere un "partito che non c'è".
E' certo che Pannella non attese che sopravvenissero le difficoltà prodotte da talune contraddizioni nella realtà radicale per assumere un atteggiamento che aveva tutto il sapore di una fuga e della ricerca di un alibi e di una rivalsa.
Subito dopo le elezioni per la Camera ed il Senato, si erano svolte quelle per il Parlamento Europeo ed anche in esse Pannella fu eletto assieme ad altri due candidati radicali. Si può dire che per tutta la legislatura Pannella fu presente più a Strasburgo che a Montecitorio, fatto che di per sé sottolineava una caduta di interesse ed una visione meno allettante per le cose e delle cose della politica italiana. A Strasburgo Pannella era oggetto di maggiore curiosità ed attenzione che non nell'ambiente politico romano, dove la rabbiosa reazione dei partiti tradizionali, e non solo di essi, al successo radicale (il PCI aveva scatenato una vera e propria "crociata" antiradicale già nell'ultima fase della campagna elettorale) si esprimeva anche in una puntigliosa consegna di snobbare il partito ed il suo leader.
Da Strasburgo Pannella non mancava certamente di tenere sotto controllo il partito ed il gruppo parlamentare e di dettare minuziose direttive, ma ciò aumentava la divaricazione , tra quanti erano disposti ad accettare certi metodi e quanti non tolleravano che una indiscussa leadership potesse spiegarsi per via telefonica e per interposte persone. Cresceva il nervosismo dei primi ed il malessere dei secondi.
Ma la più grave forma di fuoriuscita del partito radicale dalla realtà dello scontro politico in atto nel paese e di allontanamento dalla strada che lo portava naturalmente a soddisfare attese vaste e rilevanti che andavano maturando nel paese, fu senza dubbio rappresentata dalla questione della lotta alla fame nel mondo, intesa come impegno prioritario e totalizzante per il partito e per la sua rappresentanza parlamentare.
L'idea di una grande mobilitazione contro il flagello della farne, che fa milioni di vittime nei paesi sottosviluppati, venne a Pannella, come egli disse al Congresso all'Aula Magna della Città Universitaria a Roma nella primavera del 1979, quale risposta alla crociata lanciata dalla chiesa cattolica contro l'aborto, "strage dei nascituri". La "marcia di Pasqua" da Porta Pia al Vaticano doveva dunque avere sapore polemico, contro l'indifferenza per la strage dei vivi. Alla vigilia delle elezioni, nella sua ambiguità, una iniziativa del genere poteva avere l'effetto di meglio rappresentare anche al mondo cattolico la capacità radicale di esprimere valori genuini di alta moralità politica.
Che la questione della fame nel terzo mondo e della necessità per i paesi industrializzati di farvi fronte rappresentasse una intuizione politica esatta e non soltanto una testimonianza di grandi valori morali, oggi può essere valutato più facilmente di ieri.
Che l'iniziativa per realizzare l'impegno di salvataggio così concepita, esposta e portata avanti da Pannella e dal Partito radicale avesse un- minimo di razionalità e di probabilità di giungere ad effetti positivi è cosa del tutto diversa.
Ben presto, poi, nei mesi successivi alle elezioni, la questione della farne nel mondo fu proclamata l'obiettivo prioritario, il programma monotematico del partito radicale, con la proposta di un finanziamento di 5.000 miliardi la parte dello Stato italiano alle iniziative relative all'aiuto alimentare. Pannella iniziò e portò avanti dei digiuni fino al rischio delle più gravi conseguenze (la storia che "facesse finta" di digiunare è una grossolana battuta) per sostenere tale programma, che si snodò con l'appello dei Premi Nobel, la mozione del Parlamento Europeo, la proposta di legge di iniziativa popolare sottoscritta, tra l'altro, da un gran numero di sindaci (la cosiddetta legge dei sindaci).
In Parlamento l’ostruzionismo radicale, posto in atto inizialmente contro le leggi incostituzionali e violatrici dei diritti civili, quali le leggi antiterrorismo con il fermo di polizia (Legge Cossiga), fu elevato a sistema per ottenere l'approvazione di stanziarnenti per l'aiuto straordinario contro la fame. Il Partito nel suo congresso del 1980 alla Sala della Tecnica all'EUR a Roma deliberò di porre sul suo simbolo elettorale una striscia nera di lutto, dal tono, in verità piuttosto iettatorio, per i morti di fame. Veniva anche votata l'introduzione nello statuto del Partito, per definizione antiideologico, di un preambolo di professione di non violenza, fino al rifiuto di difendere la propria vita con la violenza.
Tutto ciò avveniva senza alcun possibile dibattito effettivo nell'atmosfera drammatica creata dai digiuni ad oltranza di Pannella, che, se non costringevano altri a partecipare alla crociata, rappresentavano un mezzo potentissimo per indurre i suoi compagni a trovargli una via d'uscita. Si trattava di salvare la sua vita ed anche la sua credibilità, visto che aveva proclamato di legare la sua esistenza a quella dei milioni di uomini in pericolo per la mancanza dell'aiuto alimentare.
La conclusione della campagna contro la fame, con l'approvazione di una legge "unitaria", la legge Piccoli, la fine dei digiuni, il latrocinio cui non si sottrasse neppure questo intervento dello Stato italiano, l'abbandono del tema nelle successive evoluzioni del partito radicale e di Pannella, non valsero certo a rafforzare nella pubblica opinione l'immagine di un partito di alternativa. Un partito diverso si, ma diverso perché non "politico", perduto nell'astrazione ed in una sorta di ascesi. Immagine anche questa rovinata dalla scelta del "non voto" nella nona legislatura, che, da forma di protesta antipartitocratica divenne scopertamente, proprio mentre andava in porto la legge Piccoli e poi nell’ultima parte della legislatura, una forma di astensione a favore dei governi Craxi.
La campagna per la fame nel Mondo non aveva portato neppure un incremento del partito come organizzazione e come numero di iscritti. I consensi all'impegno per la fame erano stati vasti, ma estremamente generici e, come tali, scontati. Che i sindaci affannati di tangenti rilasciassero una fuma per la legge sulla fame nel Mondo ed inviassero lo stendardo del comune alla marcia di Pasqua, non poteva certo rappresentare una svolta nelle condizioni politiche del paese, né il partito dedito ad ottenere tutto ciò poteva proporsi, in quanto tale, come il partito della protesta contro la partitocrazia, le lottizzazioni, il degrado del sistema politico e neppure sperare che i generici apprezzamenti si traducessero in voti.
Questo non lo pensò mai, alla resa dei conti, neppure Pannella né alcuno dei suoi più convinti sostenitori. Alle elezioni del 1983 il Partito Radicale cercò di recuperare l'immagine di partito della giustizia e dei diritti civili, che avevano subito la prima grave compressione nella lotta al terrorismo (poca cosa rispetto a quello che è poi avvenuto più di recente) presentando il filosofo marxista Toni Negri, detenuto per il processo detto del "sette aprile", che sembrava allora scandaloso per le lungaggini dell'istruttoria e per il protrarsi della carcerazione preventiva degli imputati in attesa del giudizio.
Allo stesso tempo, però, il partito radicale invitava i cittadini ad astenersi dal voto, lasciando le proprie liste a disposizione degli elettori che non avessero voluto seguire tale invito. Tipico paradosso pannelliano, che tutto somrnato ebbe più successo di quanto meritasse e meno di quanto egli prevedesse.
Così si voleva recuperare in qualche modo l'immagine dell’antipartito, espressione della protesta e dell'astensionismo elettorale, già altre volte propagandato dal P.R. prima del 1976, e, dopo di allora, in occasione di elezioni regionali e locali. Ma allo stesso tempo il partito non solo dimostrava la sua debolezza, ma anche l'intermittenza, l'aleatorietà della sua politica e della sua esistenza, dati destinati a pesare assai negativamente nella prospettiva di un rafforzamento del dissenso e del passaggio dalla protesta al tentativo di rimozione della classe dirigente e dei partiti del regime.
Si è già detto che il "non voto" dei deputati radicali in parlamento nella nona legislatura, che avrebbe dovuto rappresentare il complemento dell'invito al non voto rivolto agli elettori, si ridusse alla fine in una non troppo dissimulata forma di astensione nei confronti dei governi Craxi. Intanto, però, un'altra fortunata occasione poteva essere colta dal Partito Radicale per rinvigorire il suo ruolo di partito dei diritti civili e della giustizia giusta.
Operazione tanto più necessaria per l'esito della vicenda di Toni Negri, che si era sottratto alla parte del protagonista preferendo espatriare.

Questa occasione fu data dalla candidatura di Enzo Tortora alle elezioni europee del 1984. Non si trattò, come qualcuno volle ritenere, dello sfruttamento della popolarità di un presentatore televisivo, di un personaggio dello spettacolo di grande successo. Fu una battaglia attorno ad uno dei più gravi e tipici casi di giustizia ingiusta, di giustizia spettacolo, fondato su accuse di una inconsistenza allarmante, con l'uso del più vieto armamentario dell'emergenza. E, diversamente da Toni Negri, Enzo Tortora ne fu protagonista con grandissima dignità, all'altezza del ruolo che gli veniva attribuito. Una cosa, forse, Enzo Tortora non riuscì a capire: le ragioni dell'accanimento insensato contro la sua persona, della sceneggiata tragica di quel processo, della campagna colpevolista ai suoi danni, protratta persino oltre la sua completa assoluzione. Processo che rappresentava un prezioso diversivo ed un prezioso alibi per l'inerzia nei confronti della camorra, degli affari del dopo terremoto, della corruzione dilagante della classe politica elevata a sistema di potere. Ma non lo capì appieno, e comunque non ne trasse le conseguenze, nemmeno il Partito Radicale, che del resto volle ben presto ridurre ad un dato episodico anche la battaglia sul caso Tortora, così come volle marginalizzare il protagonista. Ma di questo si dirà più oltre.

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