Orietta Callegari, Polpetton - Capitolo II, La Lettera


A capo scoperto sotto una pioggerellina leggera, dal primo binario Mauro Suttora si diresse verso l'uscita alla ricerca dall'autista di taxi Zoppas, che non conosceva ma sapeva sostare davanti alla stazione e assomigliare molto al leader repubblicano nord-irlandese Gerry Adams.


Si fece accompagnare all’hotel, e lungo il tragitto non smise un momento di toccare la lettera che aveva in tasca. La sfiorava e sentiva i polpastrelli bruciare e un immaginario nodo alla gola gli impediva di deglutire, non aveva capito cosa stava succedendo e aveva fretta di arrivare nella sua camera per poter rileggere per l’ennesima volta quella dannata lettera. La pioggia continuava a scendere come una sciocca litania diabolica sul parabrezza e la danza feroce del tergicristallo dominava il suo respiro.


Finalmente nella camera dell’hotel, si rilassò e spiegò sulla piccola scrivania la lettera.


NELLA NOTTE DEI FOGLI SI PERDONO LE RIME DI UN POETA DISTRATTO CHE SCRIVE PERCHE’ AMA LE PAROLE.

NELLA NOTTE DEI FOGLI SI PERDONO LE RIME CHE NESSUNO HA MAI SCRITTO MA CHE LE PAROLE LEGGONO.


Ebbene signori, per cercare di concludere questo discorso che ormai va avanti da ben 7 righe, proporrei di sintetizzare in pochi punti i pensieri esposti dai vari teologi. In primo luogo mi sembra che tutti siamo d’accordo sul fatto che non siamo altro che un racconto. Questo è dimostrato dal fatto che siamo solo delle umili parole, formate da piccole lettere che, se messe insieme, formano frasi proprio come quella che sto pronunciando. Orbene, in un primo momento tutto sembrava chiaro ed evidente: infatti si leggeva che le rime (le parole) sono opera di un poeta (un autore) che scrive perché ama le parole (cioè noi). E per valorizzare questa prima ipotesi si disse che un autore deve esistere in quanto, altrimenti, la nostra esistenza non avrebbe alcun senso. Ma dalla terza riga cominciarono le polemiche. Non sto ad elencare tutte le varie correnti che sorsero dalla terza riga in quanto sarebbe troppo lungo, mi cimenterò piuttosto ad esporre la mia ipotesi che mi sembra del resto conclusiva. Io penso che un autore esista. Sono convinto inoltre che tutto ciò che noi parole esprimiamo non sia altro che il frutto della sua fantasia ..


Mi scusi se la interrompo! Ma quello che sta dicendo mi sembra alquanto assurdo ed improbabile, oltre che povero di contenuto e stupido, infatti da quanto lei dice si può dedurre che l’autore, se volesse, potrebbe, così senza motivo cominciare a cancell….”


Mauro Suttora fece un balzo all’indietro: “CHI, CHI, CHI sta cancellando quella dannata lettera” stava sudando paurosamente e un reflusso esofageo gli riportò in bocca il sapore del pesto “Che idea balorda” pensò “mangiare gnocchi al pesto a Conegliano veneto!” “Sto male, non mi sento bene, e non ho con me nemmeno una matita con la gomma” “CAZZO! CAZZO!” la lettera inesorabilmente continuava a cancellarsi sotto ai suoi occhi, non poteva pensare che a lui, Lui LUI!!! al vecchio potentissimo tiranno radicale … “forse è morto! Vuoi vedere che riesce a ..” “CAZZO! Il mio libro! Devo controllare il mio libro … tutte le copie del mio libro ..”


Una mostruosa flatulenza gli sconvolse i visceri, si precipitò in bagno e appena poggiò il suo flaccido deretano sulla liberatoria tavoletta il telefono prese a squillare.


Era quella militante del PRT, tal Rita Filippi, che aveva oltrepassato il ponte per abbandonare l’isola felice dove, incontrastato, dominava lui, Lui, LUI, il vecchio potentissimo tiranno radicale. Con un rantolo di voce gli disse che doveva trovarsi al caffè della Posta nella vecchia piazza del paese, l’indomani mattina.


Quando uno sbiadito sole, sbadigliando, lasciò filtrare i suoi raggi addormentati attraverso un leggera nebbia mattutina, Mauro Suttora si sedette al bar della Posta e ordinò una ricca colazione. Aveva già mangiato due cornetti e un cappuccino, quando un cannolo siciliano alla ricotta, guarnito di allegri canditi, attirò la sua attenzione e non sapendogli resistere ordinò una nuova colazione, intanto aspettava. Al tavolo vicino a lui, due giovani flirtavano in attesa dei loro caffè e leggevano complici un Millelire : “La felicità” di Seneca.


Mentre ingoiava voluttuosamente il cannolo pensando “anche questo è felicità” arrivò Rita che gli si sedette accanto e subito cominciò a parlare per metterlo al corrente di quanto di lì a poco sarebbe successo. Era ancora una bella donna, solare, piena di entusiasmo e voglia di fare; pensò alla sua nascosta orchidea e ne indovinò la fragranza che lo avvolse tutto e gli turò le orecchie, e poi ebbe una strana sensazione, come di mal di mare; guardava le labbra di Rita che rollavano ballando una musica silente, e davano il ritmo alla ricotta che ondeggiava dentro al suo stomaco. Stava fermo, immobile e respirava piano piano. Rita, che non aveva smesso un attimo di parlare, e che lui non riusciva a sentire, sembrava non si fosse accorta del suo momentaneo pallore e di quanto lui stesse male; i ragazzi invece lo stavano guardando e facendo finta di niente si nascosero dietro al libro.


E ancora una volta le parole si presero gioco di lui, “La felicità” si trasformò sotto ai suoi occhi, danzando al tempo delle labbra di Rita che non smetteva di parlare, in un lunghissimo ponte che si perdeva lontano.


La piazza andava riempiendosi di gente rumorosa e i Bla Bla arrivavano a Mauro Suttora ammortizzati, non riusciva a capire, ma sapeva che erano tutti imprenditori di zona, piccoli industriali con la fabbrichetta, tutti liberali di destra che aspettavano Qualcuno.


Non riusciva a distogliere lo sguardo dal ponte scaturito dalle parole e pensava che forse portava all’isola felice, dove il vecchio potentissimo tiranno radicale regnava incontrastabile, con una piccola minoranza di fedelissimi, a destra e a sinistra, che non lo avrebbero lasciato mai, e da dove, da sempre e per sempre, avrebbe lanciato i suoi ponti verso l’abominevole deserto di sinistra e la galattica discarica di destra.


Ed è pur vero, pensò, che ogni tanto, tra gli innumerevoli che attendevano al di là dei ponti, con una pazienza da far invidia anche al più fondamentalista dei buddisti, di vedere passare il suo cadavere, qualcuno, preso forse da un desiderio mai totalmente spento, percorreva palpitante e pieno d’ardore quei ponti per scoprire e godere il sapore della libertà. Ma durava sempre poco, immancabilmente gli squadroni della destra e della sinistra, inalberando i vessilli degli interessi e dei valori, se li venivano a riprendere al grido platonico di “Troppa libertà fa male!” facendogli ripercorrere a calci in culo, in disordine e senza speranza quel ponte che avevano, con tanto orgoglioso desiderio e tracotante coraggio, oltrepassato, e subito li facevano convinti che “mezza libertà è meglio” decidendo che ogni gruppo si sarebbe tenuto le sue peculiari libertà, e all’unanimità, che l’isola andava maggiormente allontanata per rendere sempre più difficile, a quel vecchio testardo, allungare i suoi ponti.


Ebbe un attimo di smarrimento “Che ci faccio qui?” si domandò, e poi si ricordò, “il libro!”, doveva pubblicizzare la vendita del suo libro, “si vive anche di pane!” pensò.


3 commenti:

Riformistalchemico ha detto...

Poesia allo stato puro. Un'apoteosi di metafore allusive e di metaforiche allusioni.

Unknown ha detto...

WOWOWOWOWOW!
finalmente quello che avrei voluto sentirmi dire da tanto tempo!
Il commento più lungo che ho ricevuto, ben 13 parole!
grazie Riformistalchemico!

Riformistalchemico ha detto...

Ah, prego Orietta... trattasi solo del mio semplice point of view... ;-)
Vieni pure a oriettare quando vuoi anche da me ... anche pannellando, se ti va