Cosa non fare in un obitorio
Soltanto una settimana fa avevo riassunto QUI le cento migliori notizie dagli obitori di tutto il mondo, perché non avevo ancora letto questa storia di Simon Winchester sul Lapham's Quarterly, che merita una veloce traduzione

ALLORA DICIOTTENNE, il mio primo lavoro richiese di gestire cadaveri, e comportò un mio grosso errore. La vittima fu un signore al quale non ero mai stato propriamente presentato, ma che era in possesso di tre qualità singolari: era da solo in quella stanza con me; era senza pantaloni; ed era molto, molto morto.

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Era l'inverno del 1962. Avevo preso un anno di pausa prima di andare all'università di Oxford. Avevo anche una fidanzata lontana a Montreal, e nell'entusiasmo surriscaldato le avevo promesso di farle visita. Il fatto che poi vivessi a Londra e lei a 3.000 miglia di distanza fece sì che dovessi trovare un lavoro, e uno che pagasse abbastanza bene per permettermi di scappare in Canada il più rapidamente possibile.

Londra aveva due giornali della sera allora. Lo Standard pubblicava un annuncio: "Cercasi assistente mortuario. 1.100 paundi alla settimana. Alcune conoscenze di base di anatomia umana un vantaggio, anche se non indispensabile. Telefonare al signor Utton, Whittington Hospital, Highgate".

La camera mortuaria, se non forse particolarmente congeniale, di certo era ben attrezzata ai miei interessi. Avevo appena passato piuttosto bene i miei esami in chimica, fisica e zoologia. Per questi ultimi avevo sezionato su lastra quasi ogni tipo immaginabile di creatura, dall'anfiosso alla zebra. Beh, forse non la zebra, ma certamente molti mammiferi, tra cui conigli in abbondanza. E credere che un essere umano è fondamentalmente un grande coniglio, meno le orecchie e la coda, mi ha spinto a prendere il telefono di bachelite e chiamare il signor Utton.

Sembrava sorpreso. Soddisfatto anche perché nessun altro aveva fatto richiesta per la sua offerta di lavoro. "Necrofobia"  - sussurrò cupamente - "Un fallimento sconcertante". Gli spiegai la mia idea ottimistica di comparabilità dell'uomo ad un grande coniglio, lui rideva, e mi chiedevo a voce alta perché sempre più persone non la pensassero in quel modo. Lui mi assunse quasi seduta stante, più o meno sul posto. La patologa assegnata a lavorare sui corpi era una tedesca di nome Fleishhacker , che suonava al signor Utton come macellaia, ma in realtà non lo era.

OGNI MATTINA una nuova offerta di cadaveri giaceva in ranghi serrati nella cella frigorifera, ogni corpo fresco da un letto d'ospedale al piano di sopra. Il mio compito assegnato era quello di tirarli fuori uno alla volta, ruotarli sulle lastre autoptiche, e "prepararli", come il signor Utton aveva suggerito ellitticamente.

Forse non si vuole sapere troppo di ciò che la "preparazione" implica. Dico solo questo: se si può accettare la premessa di base che il compito di Frau Fleishhacker era quello di curiosare all'interno dei suoi clienti per stabilire ciò che ha causato il loro congedo da noi, allora io ero il tizio che apriva le varie porte per consentirle di farlo. Ho fatto un sacco di lunghe incisioni e tagliato un sacco di cose.

Ai fini di una completa informativa, vorrei aggiungere che commisi una serie di piccoli crimini durante la mia permanenza in ospedale. Raccolsi molte ipofisi. Circa un centinaio di loro nel corso dei mesi. Un ospedale di ricerca aveva bisogno di loro: le ipofisi producono un gran numero di ormoni interessanti per lo studio scientifico. Ogni volta che ne riempivo un vaso, un uomo furtivo in camice bianco sarebbe venuto a raccoglierlo, lasciando in cambio una banconota da cinque paundi.

Tutto questo può essere stato un errore di giudizio. Non fu, tuttavia, l'Errore fondamentale, che avvenne dopo circa un mese. Un paio di assistenti portarono in obitorio il cadavere di un anziano dai capelli bianchi ben vestito, tranne che i piedi nudi. Fino a quel momento una tale consegna sarebbe stata ordinaria: avevo già avuto molti incontri simili con i recentemente trapassati. Ma questo tizio era diverso, soprattutto perché aveva una grande etichetta legata intorno a un alluce. Su di essa era scritto un punto interrogativo e in grandi lettere la parola leucemia.

Ero solo nell'edificio al momento della consegna, e non ero subito sicuro di cosa fare. Ma scartabellai nella scrivania del signor Utton e alla fine trovai un vecchio manuale stracciato che descrive cosa fare in caso di scoperta di ferite da arma da fuoco, per esempio, o trovando una eruzione di macchie. Mi offrì una sola riga di consigli sulla leucemia: "Rimuovere il femore ed inviarlo all'esame del laboratorio".

IL FEMORE, l'osso più lungo del corpo umano, era molto difficile da rimuovere - pensate a disossare un pollo, solo molto più grande e irrigidito - ma dopo 10 minuti di taglio e torsione e strattoni, l'osso si liberò e lo misi in un sacchetto diretto al laboratorio al piano di sopra. Avrebbero esaminato il midollo, immaginai, e determinato con precisione la causa della morte del vecchio.

Si stava avvicinando l'ora di pranzo quando avevo ricucito l'anziano gentiluomo alla normalità e lo rivestii. Sembrava abbastanza in forma, tranne che la sua gamba che, non sostenuta da alcuna impalcatura scheletrica interna, continuava a cadere dal tavolo. Non importa quante volte l'abbia rispinta in su, sempre trovava il modo di liberarsi e flop, giù verso il pavimento.

Fu in questo momento che arrivò il becchino. Si chiamava Sid, e quando vide l'oscillazione del pendolo della gamba disossata, dichiarò con veemenza che non avrebbe fottutamente preso quel corpo con quella fottuta gamba, o parole in tal senso. Cosa fare, gli chiesi. "Non è un mio fottuto problema". Ma poi, preso da pietà: "Sto andando a mangiare. Torno in un'ora. Basta trovare qualcosa per irrigidire la gamba, inserirlo nel vecchio bastardo, e poi sarò indietro alle 2".

Nulla all'interno della camera mortuaria sembrava adatto per irrigidire la gamba di un uomo morto. Forse al di fuori . Era novembre, freddo e piovoso. Per terra c'era una grondaia in zinco galvanizzato, lunga circa un metro, 5 centimetri di diametro, che non stava facendo nulla di utile. Questa potrebbe funzionare, pensai.

Mi ricordai che da qualche parte nel retro della camera mortuaria c'erano una morsa e una sega elettrica che avevo utilizzato talvolta. Serrai il tubo, applicai la sega ad un segno che avevo fatto all'altezza dei 35 centimetri, e dopo un suono assordante e una cascata di scintille, ecco una canna della lunghezza del femore del gentiluomo.

Gli tolsi i pantaloni, sciolsi la mia cuciture più velocemente che potevo, infilai il tubo di scarico tra il bacino e la rotula, ed ho notai con piacere e sollievo che la gamba afflitta sparava dritta come un fuso. Ricucii frettolosamente la ferita del gentiluomo, allacciai la cintura e tirai su la cerniera della patta.

Appena in tempo. Sid, ormai ben pranzato e profumante di birra, era tornato puntuale. Lanciò uno sguardo professionale sul cliente, ammise che avevo fatto un ottimo lavoro, firmò il mio pezzo di carta, e girò il mio uomo verso la sua Daimler, dove lo fece cadere nella bara e chiuse il coperchio.

IL GIORNO DOPO, intorno a mezzogiorno ci fu una telefonata. Il signor Utton rispose, e le sue risposte esprimevano toni di stupore. Come sbattè giù la cornetta si rivolse a me. "Era il becchino. Avete avuto a che fare con un anziano signore ieri mattina?" Beh, c'è stato un problema a quanto pare". Attese per un secondo, mentre mi si rizzavano i peli sul dietro del collo. E poi continuò: "Il signore non è stato sepolto. E' stato cremato".

Capii, in un improvviso momento macabro. Nella mia mente potevo vedere tutto dispiegarsi, istante dopo istante, orribile. Il malinconico raduno. La bara, addobbata di fiori, in bilico sui rulli. Le tranquille parole di conforto di un vicario vestito di nero che preme un pulsante nascosto nei recessi del suo pulpito. Frusciano un paio di tende di velluto. La bara comincia a muoversi verso il basso lungo il buio tunnel del forno, un tripudio di luce, un boato di fiamma blu, la rapida chiusura delle porte in acciaio, e poi la congregazione in piedi, borbottando banalità, ringraziando il sacerdote prima di cominciare ad allontanarsi. E poi, da dentro qualche luogo misterioso, un suono fin troppo udibile. Un tonfo. Un tonfo metallico duro. Poi un'esclamazione e uno scambio sorpreso di voci tra i lavoratori: "E che cosa potrebbe essere questo?"

Trentacinque centimetri di rovente zinco galvanizzato, rastrellato dove era stato previsto solo un chilo e mezzo di cenere. Una sorpresa incommensurabile che spinse una discussione ansiosa tra i parenti, una volta che il direttore del crematorio spiegò imbarazzato cos'era successo. C'era qualche pianto. Suggerimenti di denunce e cause in tribunale. Molta angoscia. Poi umorismo nero di uno degli zii del gruppo: "Non sapevo che il vecchio George fosse dotato di tubo di scarico".

Ma il signor Utton la prese molto meno alla leggera. Si rivolse a me con rabbia sul suo volto e velocemente attraversò la stanza. Con un gesto aprì un armadio e indicò ad una faretra piena di canne. "Guarda qui", disse, quasi tirandomi dal lobo dell'orecchio. " Gambe di sedia. Pino bianco. Si trasforma in cenere in un secondo". Sputò con disgusto e uscì brontolando: "Non fare lo stesso errore".

Non lo feci. Tre mesi e 50 cadaveri dopo, ero al sicuro sul piroscafo per Montreal.