Testimonianze dirette
NELL’INFERNO DELL’AIDS
Una giovane che ha contratto il morbo narra la sua vicenda

[articolo di Michele Boselli in apertura del Corriere di Pordenone del 7 agosto 1988]

È molto bella, un viso dolce sul quale la malattia ha steso una patina di mestizia, i capelli biondi raccolti sulla nuca. Ha ventinove anni, un diploma di segretaria d’azienda, si chiama G., abita in città. È malata di Aids ed è disposta a raccontare come e perché si può finire in quel buio tunnel che porta nel pianeta degli incurabili. Unica condizione: che non si scriva il suo nome. Pubblichiamo la sua drammatica testimonianza nella convinzione che nella battaglia contro la terribile malattia, questo brandello di realtà sia più efficace di qualsiasi campagna pubblicitaria.

L’appuntamento è in una zona frequentata dai tossicodipendenti e dagli spacciatori. La ragazza indossa una camicetta scollata e semitrasparente, jeans, sandali, anelli e braccialetti di foggia orientale, simboli della cultura alternativa. Si dev’essere bucata da poco perché appare tranquilla: ha cominciato a drogarsi a diciannove anni. “Purtroppo – racconta – qualche anno fa sono rimasta contagiata da una siringa sporca. La diagnosi fu terribile: sei sieropositiva – mi dissero – e puoi prendere l’Aids. E l’ho preso. Mi dissero che la malattia era incurabile e che nei rapporti sessuali avrei dovuto usare i profilattici. Poi mi hanno tolto una ghiandola sotto l’ascella, senza neanche dirmelo prima. Poi per molto tempo mi hanno fatto esami su esami, la linfografia e la Tac. Successivamente è iniziata la serie di ricoveri al Cro di Aviano, brevi ma frequenti, sempre per fare esami. Nessuno sapeva dirmi se per me c’era speranza: la disinformazione per il malato è la cosa peggiore. Spesso ho pensato di suicidarmi senza trovare il coraggio per farlo. Due anni fa, quando avevo già preso la malattia, è morta mia madre. Mio padre l’avevo perso quando avevo dieci anni. È stato un bruttissimo anno, quello. Molti ricoveri, sempre per esami e piccoli interventi, molti dei quali secondo me inutili e dolorosi. Esami fatti come su una cavia, senza tenere conto cioè del numero di piastrine molto basso: per me è inferiore di 10-20 volte al normale. È per questo che bisogna pensarci bene prima di aprirmi: il mio sangue non coagula. Quando mi hanno fatto la lombare sono stata male per molti giorni e lo stesso è accaduto ad alcuni miei amici sieropositivi. Tutto è stato molto doloroso. Cosa avessi in realtà l’ho scoperto troppo tardi. Prima andavo al Gruppo operativo tossicodipendenze per avere il metadone, nella speranza di disintossicarmi. Poi non me l’hanno più dato perché dal Cro li avevano avvertiti che avevo anche problemi polmonari. Per cercare di curarmi sono finita a Trieste, unico centro in regione che accetta malati di Aids. Lì dopo quattro mesi sono riuscita, grazie all’impegno dei medici, a risolvere i problemi ai polmoni”.

Chiediamo alla giovane come mai, con un diploma di segretaria d’azienda, non abbia cercato di cambiare vita in tempo e di trovarsi un lavoro. “Avevo trovato un lavoro – risponde – perché volevo cambiare vita. È stato quando mi hanno chiesto un certificato di sieronegatività che ho scoperto la malattia. Ho preferito licenziarmi spontaneamente per non essere sputtanata. Mi piaceva il lavoro all’aperto e per un po’ ho fatto l’operaia agricola, ma dovevo assentarmi continuamente per gli esami medici. Poi sono finita in carcere (per droga, ndr) per qualche giorno e ho perso anche quel lavoro”. Come si comportano gli altri, nei confronti di un malato di Aids? “Non si capisce bene come, ma la gente lo viene a sapere – risponde la giovane – e sono guai. La settimana scorsa, in piazza XX settembre, una conoscente mi ha gridato ‘Impestata! Impestata di Aids!’ Non ho reagito. E come avrei potuto? È vero. D’altra parte, anche a lasciar perdere, mi rodo dentro. Non c’è via d’uscita. Nel bar vicino a casa mi trattavano cordialmente, ora avverto una netta diffidenza. Mi salutano a malapena. Ma la vera vittima è stata mia madre: prima di morire mi ha difesa con tutte le sue forze e si è trovata esclusa dai vicini e dalle amiche. È morta sola, povera donna! Io, per quanto mi riguarda, mi sono abituata all’idea della morte che cerco di vedere con distacco, come in quella canzone di Guccini”. Canta i suoi versi: “… non so se desto in loro la curiosità o il timore… vorrei sapere a che cosa è servito vivere, amare, soffrire, se presto hai dovuto morire… spendere i tuoi anni migliori se presto hai dovuto partire”. E prosegue: “Viaggio in questa odissea sentendomi sempre meno parte del mondo che mi circonda, sempre meno parte del mio ambiente. Nel contempo mi ci attacco con le unghie. Non so più se smettere di ‘farmi’ nell’illusione vana di migliorare, di guadagnare qualche giorno di vita o di continuare per godermi quanto mi rimane. Non so quanto mi resta. Non posso pensare al futuro. È impossibile. Ho cominciato a credere in Dio da quando mi sono ammalata”.

Nessun commento: