Testimonianze dirette
ASPETTARE LA MORTE CON DIGNITA’
L’ospedale che li accoglie è fatiscente, pochi infermieri

[articolo di Michele Boselli in apertura del Corriere di Pordenone del 7 agosto 1988]

La stessa ragazza che ha accettato di raccontare la sua esperienza ci accompagna all’ospedale La Maddalena, a Trieste, dove ci sono alcuni suoi amici, anch’essi malati di Aids, in condizioni gravi. Perché Pordenone – chiediamo alla giovane – è la città più colpita dal fenomeno droga in tutta la Regione? Ci viene data la seguente risposta: “I tossicodipendenti pordenonesi sono più ‘internazionali’. Vanno a cercare la droga in altre città ed anche all’estero. Il problema più serio è che i farmacisti si rifiutano di darci la siringa nell’orario di chiusura. Non dico di notte, ma nell’intervallo tra le 13 e le 16. è proprio l’orario in cui molti trovano la roba e sentono il bisogno di bucarsi. Ci mandano via senza la spada, con la beffa del manifesto di prevenzione dell’Aids esposto in vetrina. Così accade che uno si arrangia con siringhe già usate. Basterebbe qualche distributore automatico di siringhe e molti problemi sarebbero risolti”.

L’ospedale La Maddalena ospita attualmente cinque giovani affetti dal terribile morbo. Dal corridoio esterno parliamo con un ragazzo di 26 anni della provincia di Pordenone, che da un mese la malattia ha reso quasi cieco e calvo. “Temo che capiranno chi sono – dice – ma voglio ringraziare i medici che mi stanno curando con molta umanità, non tralasciando l’aspetto psicologico. Debbo lamentarmi però per la mancanza di personale. I pochi infermieri fanno quello che possono ma ho provato a stare qui un mese e mezzo senza che fosse pulito il water. Da due notti dormo con la flebo nel braccio ma occorre un’infermiera diplomata per per togliere e rimettere l’ago e le infermiere sono sempre meno. Il cibo arriva qui due volte alla settimana surgelato dall’ospedale di Gattinara: sono sempre le stesse cose riscaldate fino alla carbonizzazione. Qui dentro mi manca l’aria e la temperatura è sempre molto elevata. Nella mia stanza, come nelle altre, non c’è armadio e tengo le mie cose in una valigia. Nel bagno non c’è il bidet né la doccia. La vasca è stretta e profonda”.

Che rapporto ha con la morte? “Morire è inevitabile ma mi pesa molto vivere in queste condizioni. Posso accettare di morire giovane, ma vivendo bene quel che mi resta”. Poco più in là c’è un altro malato, un gay di 40 anni. È originario della provincia di Pordenone. Sta attraversando una fase critica: è inchiodato al letto con dolori lancinanti. È estremamente magro. La voce è flebile e si lamenta perché da giorni nessuno gli taglia la barba. Due stanze più avanti è ricoverata una ragazza di Pordenone, W., 30 anni. Non riesce più ad alzarsi. Ogni volta che parla, urla. È la giovane che ha espresso come ultimo desiderio quello di riavere la patente che le venne ritirata dalla questura. La sensazione che si ricava in questo ospedale è quella di un lazzaretto, un parcheggio per moribondi. Il reparto è isolato: non dispone né di radiologia, né di un laboratorio di analisi e non si può dire che ci sia molta igiene.

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