Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.11. Il Partito della governabilità anglosassone

Per il Partito Radicale la diagnosi non è affatto nuova. Da più di dieci anni, in Italia, in altri paesi occidentali successivamente, da prima del crollo del muro di Berlino nei paesi dell'Europa Centrale ed Orientale, stiamo cercando di contrapporre al mito del proporzionalismo e della cosiddetta rappresentanza, il modello della democrazia anglosassone, del governo che governa, dell'opposizione che controlla e si prepara a governare. In Italia, dopo anni di censura, la proposta radicale è oggi fatta propria da settori consistenti dei principali partiti. All'Est, e malgrado il convincimento dichiarato, prima ancora della caduta del muro, di numerose personalità dell'opposizione a favore della democrazia anglosassone, quasi nessuna delle nuove democrazie ha scelto il sistema elettorale uninominale all'inglese. Col risultato che sappiamo: 18 partiti in Polonia, 11 partiti in Romania, 7 partiti in Ungheria, 9 partiti in Boemia-Moravia, 6 partiti in Slovacchia, 9 in Macedonia, ecc. Altri paesi, come la Bulgaria, che avevano optato per un sistema elettorale prevalentemente maggioritario, l'hanno addirittura modificato successivamente. Una sola eccezione: l'Albania, dove vige un sistema maggioritario, uninominale secco all'inglese, con una correzione proporzionale per l'attribuzione di un venti per cento dei seggi.

In questi paesi, come da tempo in quelli occidentali, possiamo quindi oggi assistere alle stesse trattazioni a tempo indeterminato per la formazione dei governi, alle stesse crisi degli esecutivi, agli stessi mercanteggiamenti, alle prime compromissioni, alle lotte sfrenate per il controllo dell'amministrazione pubblica, dei mass-media, alcune volte in modo caricaturale, in puro stile "continentale", come in Ungheria.

Di fronte ad una tale situazione, la proposta anglosassone del Partito Radicale si propone e si ripropone con grande forza a tutti i paesi del continente europeo, e non solo europeo. Anche molti paesi dell'Africa, in corso di democratizzazione dopo molti anni di partito unico, si confronteranno o si sono già confrontati con questo aspetto fondamentale della democrazia.

Ma la scelta anglosassone non riguarda soltanto il momento del "buon" e dell'"effettivo" governo. Riguarda anche una questione cruciale del nostro tempo: quella delle nazionalità, delle minoranze e delle maggioranze "nazionali", della loro convivenza. Anche in questo contesto, questa scelta può consentire o, comunque, favorire la contrapposizione su concrete proposte di governo, invece di incitare alle divisioni fondate sull'appartenenza "etnica", "comunitaria", tese alla difesa di interessi particolari. Se tale scelta può apparire sufficiente anche per quanto riguarda la effettiva possibilità che vengano presi in considerazione gli interessi delle minoranze, nel senso che i consensi elettorali della o delle minoranze andrebbero naturalmente al partito che più si impegna a difenderli (come avviene in qualche modo negli Stati Uniti d'America), potrebbe essere opportuno però coniugarlo con il federalismo. Un sistema federale (o regionalizzato) consentirebbe in effetti, oltre ad avvicinare il potere ai cittadini (qualsiasi sia la loro "etnia" di appartenenza), di dare alle minoranze la possibilità concreta di autogovernarsi nei settori nei quali si esprime la loro "diversità", ovvero essenzialmente in quelli dell'educazione, della cultura e della comunicazione.

La questione anglosassone riguarda infine un altro tema di nostro interesse, quello europeo. All'interno del lunghissimo capitolo sul deficit democratico della costruzione europea giace anche, vittima della cultura continentale dominante, la questione della riforma e dell'unificazione della procedura per l'elezione del Parlamento europeo. In una prospettiva europeista, di riforma quindi dell'esistente, una nuova procedura elettorale, unificata e anglosassone, potrebbe costituire un elemento prezioso per un riequilibrio dei poteri della C.E. a favore del Parlamento europeo, finora unica istituzione a legittimità democratica. In effetti una tale riforma rafforzerebbe il rapporto tra eletti ed elettori, l'indipendenza dei primi rispetto ai partiti di appartenenza, tuttora partiti di carattere nazionale, favorendo anche la loro autonomia nei confronti degli esecutivi dei loro paesi di origine; conseguentemente ne verrebbe rafforzato il loro "peso" nei confronti del Consiglio europeo e della Commissione europea.

Nella prospettiva, aperta con il Trattato di Maastricht, di un maggiore coinvolgimento delle regioni, ci si potrebbe spingere più oltre, cercando - opera difficile - di fare coincidere - laddove è possibile - questi collegi uninominali con le regioni esistenti nei vari paesi membri. In ogni caso l'elezione "all'anglosassone" favorirebbe l'emergere di solidarietà altre rispetto a quelle nazionali o, in misura minore, a quelle "euro-partitiche": risulterebbero evidenziate, per esempio, le affinità tra le regioni frontaliere.

Non è facile individuare su questo fronte il "Che fare", a maggiore ragione a livello transnazionale. Se, come crediamo e abbiamo tentato brevemente di dimostrare, il dato partitocratico è un elemento comune oltreché rilevante nel degrado generale del continente europeo (e non solo di quello), non per questo risulta immediatamente praticabile una azione comune su questo fronte. I livelli di degenerazione, così come il grado di consapevolezza rispetto alle ragioni di questo degrado, sono diversissimi. La questione - aperta - è quella di capire se siamo arrivati ad un grado sufficiente di maturazione e di convinzione su questo tema, in primo luogo tra i parlamentari iscritti, con l'obiettivo di darci alcuni strumenti transnazionali di lavoro e di impegno, come, ad esempio, una Lega transnazionale per la promozione del sistema anglosassone.

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