3. Il Partito radicale tra la prima guerra mondiale e il fascismo
La prima guerra mondiale arrestò la metamorfosi politica del Partito Radicale. Di fronte a questo evento i radicali si spaccarono, come il resto dei partiti e dell’opinione pubblica, se intervenire o no, e anche se prevalse la linea interventista il partito uscì malconcio da questo angoscioso problema, e molti storici indicano proprio questo momento quale inizio della crisi mortale del partito. Negli anni fra il 1915 e il 1918 si accelerò il processo di emarginazione dei radicali dalla direzione della vita politica. La frattura prodottasi tra neutralisti e interventisti prostrò a tal punto il partito che i radicali non ebbero peso in nessuna decisione importante presa in quegli anni. Gli sconvolgimenti prodotti dalla guerra e la radicalizzazione della lotta politica e sociale misero a nudo l’inclinazione conservatrice della maggior parte della piccola e media borghesia italiana, facendo di conseguenza riaffiorare le ambiguità e le contraddizioni dei radicali. Non a caso, la prima preoccupazione di alcuni deputati radicali dopo la conclusione del conflitto fu quella di ricomporre l’unità interna. Questo intento sembrava essere stato raggiunto nel congresso nazionale svoltosi a Roma l’11 e 12 marzo 1917, ma la disastrosa sconfitta di Caporetto rese impossibile una riappacificazione: molti radicali neutralisti aderirono all’Unione Parlamentare nata con il proposito di difendere il Parlamento, i radicali interventisti invece entrarono a far parte del Fascio parlamentare. Nella seconda metà del 1919 dei 70 deputati radicali che sedevano alla Camera (fra cui Credaro, De Viti De Marco, Sacchi, Ruini) 28 facevano parte del Fascio parlamentare (alcuni lo abbandonarono per formare il gruppo parlamentare denominato "radicale indipendente") e 27 dell’Intesa democratica creata da deputati amici di Giolitti. Le polemiche, le divisioni non solo di schieramento impedirono la definizione da parte del Partito radicale di una linea programmatica chiara. Solamente alla fine del 1919 la direzione centrale radicale tenne la prima riunione dopo la conclusione del conflitto per discutere della riorganizzazione del partito ma l’assoluta carenza di indicazioni e le proposte ricalcanti stancamente i vecchi schemi del radicalismo italiano resero ancora più incerta l’azione parlamentare. Le proposte più lungimiranti furono formulate da De Viti De Marco che mise in risalto la necessità di migliorare e diffondere l’istruzione e di dare pieno riconoscimento alla libertà di organizzazione sindacale e di sciopero, e soprattutto da Meuccio Ruini sfortunato teorizzatore nel primo decennio del secolo del suddetto "Radicalsocialismo". Le idee di Ruini che miravano a trasformare "la democrazia radicale in democrazia del lavoro" rimasero inascoltate. Egli osservò che per avviare la riorganizzazione del partito e farlo uscire dallo stallo politico in cui era entrato allo scoppio della guerra gli uomini del partito dovevano rappresentare non l’acquiescienza a Giolitti ma una proposta concreta ai mali dell’epoca. Per i radicali quindi il problema non era solo di idee e programmi, ma anche di uomini: solo dirigenti credibilmente e pienamente radicali avrebbero ridato slancio al partito. La partecipazione dei radicali al Ministero Orlando formatosi il 18 gennaio 1919 (ne facevano parte 7 radicali, fra cui proprio Ruini come ministro dell’industria, commercio e lavoro) fu considerata una soluzione provvisoria per attuare nel paese i provvedimenti più urgenti. Ma qual’era il programma che doveva rilanciare il radicalismo? Il carattere prettamente sociale, era ben esplicato con la volontà che ogni individuo dovesse avere una occupazione conforme alla sua preparazione e che ogni lavoratore invalido dovesse essere integralmente assistito dallo stato. Inoltre si propugnava la fissazione dei minimi di salario e di un orario massimo della giornata lavorativa, la legislazione del contratto di impiego privato e la costituzione di un demanio nazionale, mediante l’espropriazione dei latifondi a coltura arretrata e la conseguente assegnazione di piccoli lotti, mediante equo canone, ai lavoratori specialmente reduci di guerra. Nel campo politico-amministrativo i radicali chiedevano la riforma del sistema elettorale mediante la rappresentanza proporzionale e il suffragio universale per tutti i cittadini di ambo i sessi che avessero compiuto i ventuno anni, un prestito nazionale per risolvere il problema Mezzogiorno, la riforma e la semplificazione delle pubbliche amministrazioni con un decentramento regionale e la riforma della giustizia.
Nel settore scolastico si rivendicava l’educazione nazionale compito esclusivo dello stato e l’istruzione elementare obbligatoria. In campo internazionale si voleva la costituzione della società delle libere nazioni, il simultaneo disarmo di tutti gli stati e l’applicazione del principio di autodecisione dei popoli. La noncuranza della maggior parte dei deputati radicali verso questo programma di azione immediata uscito da una riunione della direzione centrale fece emergere un’ulteriore debolezza all’interno del partito. A ciò si aggiunse i ripetuti tentativi di ricucire gli strappi fra il gruppo parlamentare e i vertici del partito. La varietà di tendenze e i personalismi che convivevano in precario equilibrio all’interno del partito, sono confermati in maniera significativa dal fatto che negli anni del primo dopoguerra mai i radicali tentarono di creare un proprio organo ufficioso di stampa (come per esempio il quotidiano romano La Vita nell’età giolittiana), anche se alcuni esponenti radicali furono direttori come La Pegna a "L’Epoca" o Pantano a "Il Secolo". A confondere ancora di più la politica si aggiunse la nascita nel 1919 del Partito Popolare che mise viva preoccupazione negli ambienti radicali. Fino agli anni della guerra il partito radicale aveva sempre tenuto un’atteggiamento anticlericale sia per convinzione che per influenze massoniche. Era inviso il dogmatismo della dottrina cattolica, e il fatto che la Chiesa si fosse opposta al processo di unificazione nazionale e non avesse riconosciuto lo stato unitario. Pertanto il partito radicale vedeva in essa una seria minaccia per la libertà di pensiero, per il principio dell’assoluta laicità dello stato, per l’unità nazionale e per il progresso democratico del paese. Pertanto la fondazione di un forte partito cattolico non poteva non gettare allarme tra i radicali, i quali rischiavano di vedersi sottrarre come poi accadde consensi elettorali tra quei ceti medi che sino ad allora avevano costituito il tradizionale serbatoio di voti del radicalismo. Così il partito, pur restando fermo nel suo anticlericalismo, si divise fra coloro che erano per un’intesa politica fra democratici e cattolici e coloro come Murri che erano più diffidenti e attendisti sull’evolversi del mondo cattolico. Ma al di là di queste dispute strategiche, Il 1919 fu un anno in cui all’attenzione politica ci furono tre urgenti questioni: la riforma elettorale, il problema adriatico e la crisi del governo Orlando. Essendo un partito a carattere essenzialmente clientelare, e con una struttura organizzativa assai debole, il Partito Radicale aveva molto da perdere e poco da guadagnare dall’introduzione, per le elezioni politiche, del sistema proporzionale con lo scrutinio di lista. Nonostante i radicali fossero perfettamente coscienti del pericolo, il partito fu nella maggior parte favorevole all’abolizione del vigente sistema maggioritario con collegio uninominale. Un partito che si ispirava ai principii della democrazia non poteva abbandonare i suoi ideali per meri calcoli elettorali e il sistema proporzionale sembrava il solo capace di essere rappresentanza effettiva della volontà nazionale. I radicali sapevano bene che l’auspicata riforma presentasse molte incognite, ma come scrisse il deputato Ciraolo a Nitti il 30 marzo 1919: "Quale liberazione dalle tirannidi comunali!...E quale sfollamento di candidati e di deputati senza stato civile in politica,e senza stato morale in società! Non sarà un regime perfetto, ma è già meglio perchè è diverso. Ed è una valvola di sicurezza all’ardente bisogno collettivo di novità" . Sempre in materia di riforma elettorale i radicali si mostrarono unanimi e decisi nel chiedere l’estensione alle donne, senza alcuna limitazione, dell’elettorato attivo e passivo; non a caso proprio un deputato radicale, Gasparotto, il 29 luglio 1919 presentò alla Camera un progetto di legge in tal senso. Il progetto venne approvato dalla Camera a larga maggioranza il 5 settembre 1919, ma decadde perchè l’impresa fiumana provocò la chiusura della legislatura prima che anche il Senato potesse approvarlo.
Oltre alla politica interna anche la politica estera era al centro dell’attenzione per la definizione dei confini orientali del nostro Paese. Sulla questione adriatica i radicali furono concordi nell’invocare l’unione della città di Fiume all’Italia. A favore dell’annessione c’era il principio di autodecisione dei popoli che doveva essere applicato visto che già prima del termine del conflitto la maggioranza della popolazione fiumana aveva espresso il desiderio di rimanere italiana. Concordi nello scopo, i radicali si divisero sul mezzo. Alcuni come De Viti De Marco erano per la soluzione indicata da Bissolati, di un accordo con gli alleati e con la Jugoslavia, che permettesse l’annessione di Fiume in cambio della rinuncia dell’Italia ai diritti che Il Patto di Londra le riconosceva sulla Dalmazia peraltro a maggioranza slava.
Altri più risoluti, viste le gravi perdite italiane e l’aggressività Jugoslava, erano per l’annessione ma senza la rinuncia a nessuno dei compensi previsti dal Patto di Londra. Sebbene la maggior parte dei radicali fosse per la prima soluzione il sostegno dato del Partito radicale fu molto blando, tant’è che rimasero solo i socialriformisti a difendere questa tesi: la paura di provocare all’interno del partito nuovi strappi come quello della prima guerra tra interventisti e neutralisti indussero a una certa prudenza.
Lo svolgimento deludente delle trattative di pace a Parigi , ebbe un’importanza determinante nella caduta del Ministero Orlando alla quale contribuì anche l’opposizione radicale. Buona parte del gruppo parlamentare lavorò per favorire nell’incarico Nitti, neutralista convinto, nonostante fosse inviso ai radicali che erano stati interventisti. Nitti formò il primo Gabinetto il 23 giugno 1919 includendo 7 deputati radicali, 2 come ministri (Pantano ai lavori pubblici e De Vito ai trasporti) e 5 come sottosegretari (fra cui Ruini all’industria).
Lo stato di salute sempre precario del Partito Radicale fu al centro del convegno nazionale a fine luglio del 1919. Qui Murri fece una diagnosi del partito affermando che la crisi era soprattutto organizzativa, visto che i deputati radicali si erano serviti troppo spesso della propria autonomia "contro il partito", e non "nel partito" . Murri cercò di far riformare lo statuto del partito, limitando la pressochè illimitata autonomia del gruppo parlamentare rispetto alla direzione centrale, imponendo che in caso di crisi di governo, il gruppo non permettesse a suoi uomini di entrare a far parte del nuovo ministero senza che prima una commissione non avesse stabilito le basi programmatiche dell’accordo.
L’entrata in vigore il 2 settembre 1919 della auspicata legge elettorale pose sul terreno politico problemi nuovi. Nel partito era diffusa la convinzione che il nuovi sistema elettorale favorisse i grandi partiti di massa come i socialisti e i popolari, e che perciò fossero necessari accordi di lista con social-riformisti e liberali. Ma la possibilità per il Partito Radicale di definire una tattica unitaria per le elezioni politiche fu preclusa dalle ripercussioni della firma, il 10 settembre 1919, del trattato di pace italo-austriaco, che, non riconoscendo Fiume all’Italia, spinse, due giorni più tardi, D’Annunzio a occupare la città adriatica. Ciò rese più aspra la contestazione di molti radicali nei confronti di Nitti che portò allo scioglimento della legislatura il 29 settembre 1919. I personalismi, le discordie e i giochi clientelari emersi tra le fila radicali nel corso della campagna elettorale per le elezioni indette il 16 novembre, dimostrarono ancora una volta la grandissima difficoltà di fare del Partito Radicale un partito ben organizzato. Per queste ragioni cinque giorni prima delle elezioni Murri, deluso e sfiduciato si dimise dalla direzione centrale del partito. Il 16 novembre 1919, dopo anni di continua ascesa, il numero degli eletti appartenenti al partito radicale subì una flessione. Infatti, il calo dei deputati dai settanta della precedente legislatura ai sessantatre fu dovuto a cause molteplici. Innanzitutto, l’introduzione del sistema proporzionale con lo scrutinio di lista, non poteva favorire, come era già stato preventivato, un partito di natura prevalentemente clientelare e con un assetto organizzativo fragile e poco articolato come il Partito Radicale. In secondo luogo la frattura prodottasi all’interno del gruppo parlamentare sconcertò notevolmente gli elettori. In terzo luogo, il fatto che la maggioranza del partito si era schierata a favore dell’intervento in guerra aveva fatto assumere al partito stesso la corresponsabilità di quest’evento. Infine, il fatto che, la direzione centrale e la maggior parte dei deputati avevano sempre sperato in una tendenza radico-socialista e quindi avevano evitato di scendere sul terreno della lotta aperta contro il Partito Socialista, spinse in altre direzioni gli elettori che consideravano il Socialismo il nemico principale. Nonostante tutto il gruppo radicale rappresentava pur sempre il quarto gruppo per consistenza numerica, dopo i socialisti, i popolari e la sinistra liberale. Per quanto concerne gli eletti, l’aspetto più importante dei risultati fu costituito dalla trasformazione del gruppo parlamentare da prevalentemente settentrionale a prevalentemente meridionale. Siccome gli iscritti al gruppo radicale provenivano in larga prevalenza dal sud fu inevitabile che il partito finisse col risultare ancora più di prima "l’espressione politica di una di quelle democrazie agricole sostanzialmente precapitalistiche". A questi parlamentari eletti nel Mezzogiorno, a causa della struttura economica e sociale arretrata dell’Italia meridionale, erano per lo più "estranei i processi della economia moderna". Questa particolarità, insieme al radicalizzarsi dello scontro di classe nel paese, ci spiega la ragione della sostanziale incomprensione dei contenuti del socialismo dimostrata molto spesso dai radicali e il motivo delle loro posizioni molto spesso conservatrici. Nonostante ciò, alla prima riunione del gruppo radicale, parecchi deputati non mancarono di sottolineare la necessità di avviare trattative con i social-riformisti del gruppo socialista allo scopo di costituire un blocco democratico. L’altro grande tema che il partito dovette affrontare fu quello della sua ristrutturazione che si risolse con la direzione politica impressa dal solo gruppo parlamentare. Questo fatto, unito alla sua struttura organizzativa antiquata, verticistica e clientelare ne fece un partito sempre più avulso della realtà sociale italiana. Riguardo all’intesa con i social-riformisti, proprio quando l’intesa sembrava prossima alla conclusione, il gruppo socialista decise, contrariamente alle promesse fatte ai radicali, di votare contro la richiesta di proroga dell’esercizio provvisorio avanzata dal Governo, facendo così morire sul nascere le prospettive d’intesa. Il fallimento del tentativo di formare un patto di unità d’azione fra i gruppi parlamentari della sinistra democratica rappresentò una cocente sconfitta per il gruppo radicale che assunse posizioni sempre più ondivaghe come nel caso del comportamento tenuto nei riguardi del Gabinetto Nitti. Infatti queste incertezze furono evidenti sia nel secondo che nel terzo Ministero Nitti. Le perplessità degli ambienti radicali, tenute a bada durante il terzo Gabinetto, costituitosi il 22 maggio 1920, di cui fecero parte sette parlamentari radicali, si trasformarono in aperte opposizioni, a causa dei sanguinosi incidenti avvenuti a Roma il 24 maggio 1920, quando un corteo di studenti nazionalisti si scontrò con le guardie regie. Questi avvenimenti suscitarono una violenta campagna anti-nittiana, in cui ebbero la loro parte anche i radicali. I deputati discussero della situazione politica che si era ulteriormente aggravata per l’ondata di proteste contro il decreto legge che aveva aumentato il prezzo politico del pane. Le discussioni portarono alla decisione dei radicali di passare all’opposizione, causando così le dimissioni di Nitti. Quando Giolitti formò il suo quarto Gabinetto, il 6 giugno 1920, i deputati radicali gli garantirono l’appoggio, tant’è che al suo Ministero parteciparono tre ministri e quattro sottosegretari. L’indirizzo assunto dai deputati radicali fu di cauto riformismo: le illusioni di poter giungere in tempi brevi ad un’accordo politico con le forze operaie erano state abbandonate dai deputati radicali. Ciò è testimoniato in una lettera che il radicale La Pegna scrisse a Nitti il 7 settembre 1920 mentre era in atto la cosiddetta occupazione delle fabbriche: "Noi non rifiutiamo a priori anche la gestione diretta dell’officina e della cultura della terra, ma per la nostra stessa visione di concrete realizzazioni dobbiamo camminare conseguentemente senza salti e senza sbalzi... dobbiamo perciò volere una graduale e lenta conquista ed opporci a quegli esperimenti frettolosi ..." .
L’avvicinarsi delle elezioni amministrative generali pose ai radicali anche un’altro problema: quello del sistema elettorale con cui far svolgere le elezioni. Come si è visto la maggioranza dei radicali nel 1919 era stata favorevole all’introduzione del criterio proporzionale. Ma l’esito di quella prova elettorale, largamente favorevole ai due grandi partiti di massa, aveva convinto i radicali ad apportare qualche correttivo. Il 5 agosto 1920 il gruppo parlamentare radicale approvò un ordine del giorno di Ruini in cui pur accettando il principio proporzionale, si esprimeva l’avviso che convenisse convocare subito i comizi elettorali in tutti i comuni secondo la vecchia legge elettorale, e, quindi, con il sistema maggioritario, e rinviare a dopo le elezioni ogni proposito di riforma elettorale. In più c’è da dire che il criterio maggioritario, premiando in genere i vincoli clientelari, poteva favorire i candidati di un partito, come quello radicale, fondato essenzialmente sulle clientele. Nel settembre di quell’anno il nuovo segretario politico del Partito Radicale, Bandini, inviò una circolare a tutte le sezioni contenente le indicazioni programmatiche per le amministrative. In prima linea c’era la necessità di riformare i comuni e le province dandogli autonomia finanziaria e la revisione organica ed istituzionale degli enti locali, a cominciare dalla formazione di enti regionali con funzioni autonome. Inoltre il programma prevedeva 10 capisaldi :
1) Politica in difesa dei consumatori favorendo la nascita di cooperative di consumo.
2) Politica edilizia elevata a vero servizio comunale, istituendo un apposito "ufficio delle abitazioni", incaricato di vigilare in modo assiduo sul loro mercato e di disporre misure per l’igiene e le migliorie.
3) Politica di razionale sviluppo di tutti i servizi pubblici.
4) Politica di opere pubbliche.
5) Politica di propulsione e incoraggiamento per la valorizzazione delle risorse speciali del luogo.
6) Politica del lavoro creando dei Consigli locali del lavoro.
7) Politica di istruzione, creando una "scuola del lavoro" comunale per migliorare la capacità tecnica degli operai.
8) Politica sanitaria di assistenza rendendo possibile l’attuazione di un sistema completo di amministrazioni sociali.
9) Criteri rigidi di buona amministrazione.
10) Tutela degli interessi generali lottando per la purificazione delle amministrazioni dalle clientele.
Tra la metà di settembre e la metà di novembre del 1920 si tennero con il sistema maggioritario le amministrative generali. I candidati radicali che si erano presentati solo in liste di coalizione dal carattere spiccatamente antisocialista, subirono un arretramento a confronto delle elezioni amministrative della primavera del 1914. Intanto importanti cambiamenti avvennero al vertice del partito con la nomina di Ernesto Pietriboni come nuovo segretario, che si mostrò intenzionato a proseguire la linea di creazione di una solida alleanza fra i partiti democratici.
Ancora prima che la lotta elettorale per le amministrative entrasse nel vivo, si era tenuto a Torino il 26 e 27 settembre, un convegno nazionale radicale in cui il predecessore di Pietriboni, il segretario Bandini, aveva notato che un accordo totale con il Partito socialista era divenuto impossibile, dato che esso aveva assunto un carattere spiccatamente bolscevico. Ma oltre alle tattiche politiche, il convegno si era occupato principalmente dei problemi sociali del momento .
Dal dibattito scaturì l’invito al gruppo parlamentare radicale a presentare immediate e concrete proposte. Così nel novembre di quell’anno il gruppo parlamentare radicale approvò, oltre ad alcuni emendamenti ai progetti di legge governativi sulla riforma agraria, sul consiglio nazionale del lavoro e sulla cooperazione, lo schema di cinque disegni di legge (sulla produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, sulla scuola del lavoro e il tirocinio professionale, sui demani, le costruzioni edilizie e le case popolari, sulla produzione e la distribuzione dei fertilizzanti, e sul completamento degli acquedotti comunali) elaborati dalla commissione economico-sociale del gruppo. A causa dello scioglimento anticipato della Camera i deputati radicali riuscirono a presentare tra i primi di dicembre del 1920 e gli inizi di marzo del 1921, solo i primi tre di questi progetti di legge. Nel novembre alcuni deputati radicali avevano presentato alla Camera un ordine del giorno in cui invitavano il governo a risolvere il problema burocratico attuando il decentramento amministrativo e ovviando alle attuali stridenti sperequazioni di carriera, di stipendi e di orari. In aggiunta a ciò i rappresentanti radicali in seno alla giunta generale del bilancio della Camera presentarono e fecero approvare dalla giunta stessa tre ordini del giorno nei quali si chiedeva al governo di porre rimedio al grave disavanzo finanziario dello stato, abolendo il prezzo politico del pane, innalzando l’imposta sul vino e tassando maggiormente le rendite fondiarie. L’impegno dimostrato nell’autunno-inverno del 1920-21 del gruppo radicale nel formulare proposte tese a risolvere alcuni dei più urgenti problemi economici, sociali e amministrativi era alquanto inusuale ma aveva una spiegazione. I ripetuti scioperi, l’occupazione delle fabbriche, i disagi economici, le prime gravi violenze perpetrate dalle squadre fasciste, l’inconcludenza dei leader democratici avevano generato smarrimento, preoccupazione e sconcerto nei ceti medi. Pertanto per i deputati radicali occorreva far di tutto perché la piccola e media borghesia continuasse a riconoscersi dei partiti intermedi e in particolar modo nel Partito Radicale. Ciò è evidente dalla lettera inviata a Nitti il 2 novembre 1920 dal senatore radicale Ciraolo che ha un senso premonitore: "Le classi medie hanno bisogno di essere dirette, sorrette. Se persevera in esse lo scoramento... finiranno per buttarsi in braccio ai nazionalfascisti..." .
La partecipazione dei radicali alle elezioni politiche del maggio 1921 risultò molto meno diversificate rispetto alla consultazione elettorale del novembre 1919. Non venne presentata nessuna lista autonoma e non furono molti i collegi in cui i radicali comparivano in più liste. Inoltre nell’Italia centrale e settentrionale i radicali si presentarono (nonostante qualche piccolo dissenso come l’Associazione radicale romana che preferì non designare propri candidati) per lo più solo nei cosiddetti "blocchi nazionali", cioè in quei blocchi borghesi, ideati da Giolitti in funzione antisocialista, comprendenti anche liberali, social-riformisti, nazionalisti e fascisti. Il fatto che a fianco di questi ultimi ci fossero i radicali non deve stupire. Anche la maggior parte dei radicali, come la maggioranza della classe dirigente liberale, mostrò di non saper comprendere la vera indole del fascismo; i deputati e i dirigenti radicali consideravano il movimento fascista semplicemente una forza da usare come strumento per debellare il "pericolo bolscevico", ovvero per contrastare le punte estreme del socialismo che turbavano la vita delle istituzioni con continui scioperi. Una volta che il fascismo avesse assolto con successo questo compito, per i radicali non sarebbe stato difficile "normalizzarlo" e integrarlo nello stato liberale. E l’inserimento di candidati fascisti nei "blocchi nazionali" rappresentò proprio il primo passo dell’illusoria costituzionalizzazione del movimento mussoliniano.
Di grande indulgenza verso il fascismo e le sue violenze dette prova persino il ministro della giustizia, il radicale Fera, che alla fine del 1920 chiamò a Roma tutti i procuratori generali e raccomandò loro di ignorare i reati commessi dai fascisti quando commettevano reati a fini nazionali. D’altronde ciò che pensava Fera del fascismo si deduce da un discorso pronunciato all’immediata vigilia delle elezioni nel quale egli ascrisse a merito del movimento fascista di aver imposto "il rispetto dei simboli nazionali contro gli impeti rivoluzionari..." .
I pochi radicali che alle elezioni del 15 maggio 1921 parteciparono a liste di opposizione furono ostacolati nella loro campagna elettorale dalla pressione dei prefetti manovrati da Giolitti. Uomini come La Pegna candidato nel collegio di Siena-Arezzo-Grosseto o Cutrufelli, candidato nel collegio Catania-Messina-Siracusa, furono ostacolati. Lo stesso Cutrufelli scriveva a Nitti il 25 aprile di quell’anno: "Il governo mi combatte aspramente... la libertà non esiste più. La mia casa è piantonata dalle guardie regie. Rispondo con dentate, ma troppe armi sono puntate contro di me" . Il senatore Ciraolo scrivendo sempre a Nitti il 30 aprile 1921 rilevava indignato: "le elezioni si fanno in mezzo a spettacoli di anarchia... con la persecuzione ai migliori perchè non ministeriali, e la protezione ai maggiori perché ministeriali..." .
Il tema prevalente nella campagna elettorale di buona parte dei candidati radicali fu, oltre all’esigenza di frenare l’ascesa dei socialisti, quello della necessità della pacificazione generale e di un rapido ristabilimento dell’ordine e della disciplina. Tutto questo significava essere grati ai fascisti nella loro opera di baluardo contro il pericolo proletario, e usare quindi la massima energia e severità contro i socialisti e i comunisti che cercavano di sovvertire l’ordine. La consultazione elettorale del 15 maggio 1921 fece registrare una nuova grave sconfitta per il partito radicale, i cui deputati calarono da 57 a 48. Di essi 10 erano stati eletti nei "blocchi nazionali". Le cause di questo smacco elettorale che rappresentano anche le cause principali del rapido declino del partito dopo la guerra erano svariate. Prima di tutto occorre evidenziare la incapacità di tanti deputati e dirigenti radicali di cogliere il mutato clima politico del dopoguerra e l’impronta nuova impressa alla vita politica del Paese dal partito Socialista e dal partito Popolare, che, con la loro organizzazione di massa avevano reso i legami di natura clientelare e le intese di tipo trasformistico strumenti elettorali del tutto superati. In secondo luogo, l’assetto organizzativo instabile del Partito non aveva reso possibile far sentire in modo costante la propria presenza nella vita politica locale. In terzo luogo, il partito subiva le conseguenze della crescente inquietudine dei ceti medi, i quali, dinnanzi all’inasprirsi dello scontro di classe, mostravano sempre più di considerare il partito Radicale una forza politica non sufficientemente risoluta, capace di appagare le loro attese. In quarto luogo, il partito pagava la mancanza di quella che La Pegna ha definito "la figura riassuntiva e dominatrice" , ossia del capo indiscusso capace di tenere a freno le diverse tendenze che convivevano nel partito. Infine, i continui contrasti interni tra neutralisti e interventisti non permisero mai al partito e al gruppo parlamentare di seguire un indirizzo politico uniforme. Tra i radicali la delusione fu grande, come dimostra il fatto che dopo poco giorni le elezioni il radicale Cevelotto si affrettò a far presente l’esigenza di modificare la legge elettorale proporzionale, tornando al precedente maggioritario.
Terminate le elezioni, i deputati iscritti al partito radicale si trovarono di nuovo di fronte all’alternativa se ricostituire il gruppo parlamentare radicale o dar vita a un gruppo democratico più ampio. Il fondato timore che il gruppo radicale con 48 unità recitasse una parte marginale, li fece propendere per la seconda soluzione. In più, il fatto che nel marzo del 1921, all’immediata vigilia, quindi, dello scioglimento della Camera, si fosse giunti ad un passo dalla costituzione di un nuovo gruppo parlamentare di ispirazione democratica sembrava dimostrare che esistevano finalmente le condizioni per una fusione di una parte almeno delle forze parlamentari della democrazia. La creazione di questo nuovo gruppo, che avrebbe dovuto chiamarsi "Democratico-sociale", era stata promossa sin dall’agosto del 1920 dai deputati Aurelio Drago e Colonna Di Cesarò. Secondo loro il gruppo democraticosociale avrebbe dovuto riunire i rinnovatori, quei deputati radicali, e socialriformisti che avversavano tanto Giolitti quando Nitti. La chiusura anticipata della legislatura rese però vani gli sforzi di Drago e Colonna Di Cesarò. Il loro disegno, fu ripreso dal deputato rinnovatore, ex radicale, Gasparotto, che ai primi di giugno del 1921 allacciò rapporti con i deputati del Rinnovamento nazionale, (cioè i deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti), con alcuni radicali, social-riformisti e democratici-liberali (sinistra liberale), proponendo a loro di formare un unico grande gruppo democratico capace di fronteggiare i gruppi popolare e socialista. Il 12 giugno le delegazioni dei deputati radicali e di quelli del Rinnovamento nazionale, decisero di costituire un nuovo gruppo parlamentare a cui fu dato il nome di "Democrazia Sociale". A questo gruppo aderirono 65 deputati, formando così il quarto gruppo della Camera per consistenza numerica dopo i socialisti, i popolari e i democratici liberali. Il carattere e i fini del gruppo demo-sociale (che dopo pochi giorni fu costituito anche al Senato) furono illustrati in una serie di interviste: Gasparotto spiegò che con il nome Democrazia sociale si era voluto inserire "un giovane germoglio sul vecchio tronco della vita democratica", conferendo "un contenuto economico preciso all’indirizzo prevalentemente politico" che la democrazia aveva seguito fino ad allora. In altri termini il nuovo raggruppamento si prefiggeva di temperare l’individualismo, proprio della dottrina liberale, con la integrazione delle funzioni statali e con la organizzazione collettiva delle attività individuali. L’accoglienza riservata dalla stampa più vicina al partito Radicale alla formazione del gruppo parlamentare demo-sociale fu tutt’altro che uniforme.
"L’Epoca", ad esempio, mostrò piena soddisfazione e si augurò che fossero messe da parte le piccole ambizioni singole per dar luogo a una sola compagine democratica disciplinata. Per La Sera, invece, la costituzione del gruppo democratico sociale non poteva non lasciare profondamente delusi, perché era necessario un rinnovamento di uomini e di metodi.
Nella caduta di Giolitti i demo-sociali ebbero un ruolo fondamentale e la loro partecipazione al successivo gabinetto Bonomi fu subordinata all’accettazione di punti programmatici fra i quali la riforma dell’amministrazione sulla base del decentramento e l’applicazione globale delle assicurazioni sociali. Del governo Bonomi fecero parte sette demo-sociali: 3 ministri (Girardini alle colonie, Gasparotto alla guerra, Giuffrida alle poste e telegrafi) e 4 sottosegretari (Sanna Randaccio alla giustizia, Albanese alle finanze, Rossini all’assistenza militare e Sipari alla marina). La maggioranza dei deputati demo-sociali considerava improbabile l’idea di Ruini, di formare un grande partito di centro che raccogliesse tutte le forze della democrazia. Il direttorio del gruppo demosociale viceversa preferì adoperarsi per costituire un partito meno esteso e più omogeneo, mettendo insieme le associazioni radicali e le organizzazioni legate al movimento degli ex combattenti. I deputati demo-sociali intenti a gettare le basi del partito di sinistra democratica, trascurarono le questioni politiche più concrete, visto che tra la fine della primavera e la fine dell’autunno del 1921, proposte di un certo interesse volte a risolvere i problemi più impellenti vennero formulate soprattutto da esponenti che non sedevano alla Camera come Bruccoleri che fra le proposte si pronunciò in favore dell’istituzione della giornata lavorativa di otto ore.
La ricerca dei demo-sociali di allargare il raggio parlamentare del blocco democratico si concretizzò il 25 novembre 1921 quando avvenne la fusione tra i gruppi parlamentari demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico che divenne così il gruppo più numeroso della Camera (150 deputati) e al Senato (155 deputati). La fusione fu approvata dalla maggioranza dei demo-sociali ma col passare delle settimane la minoranza insoddisfatta accrebbe sempre di più: il gruppo unico democratico non aveva sortito gli effetti sperati di una sostanziale modificazione della situazione parlamentare. Nel gennaio del 1922 fu costituito il "Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale": fra i componenti di questo organo guida del gruppo democratico c’erano anche 5 rappresentanti della direzione centrale radicale che con questo gesto sancirono la fine ufficiale del Partito Radicale e la sua confluenza nel movimento democratico sociale.
Dopo la caduta di Bonomi, i demo-sociali furono presenti nella compagine governativa di Facta con 2 ministeri (De Vito alla marina e Colonna di Cesarò alle poste e telegrafi). Gli attriti all’interno del gruppo democratico erano sempre più frequenti per le difficoltà di darsi un preciso orientamento politico. A dare il colpo di grazia al gruppo parlamentare democratico fu la volontà di molti deputati demo-sociali di andare per la propria strada dando vita al partito democratico sociale. Il Congresso nazionale della Democrazia sociale e radicale svoltosi a Roma nell’aprile del 1922 sancì la nascita del partito della Democrazia Sociale, dando quindi forma al movimento organizzativo iniziato anni prima sui resti del vecchio radicalismo. L’intento era quello di creare un partito atto a soddisfare le esigenze postbelliche della popolazione, soprattutto nel campo lavorativo, ma a parte i buoni propositi di "diritto alla proprietà intangibile" e "il lavoro come principale coefficiente di consistenza nazionale", il programma era troppo vago. Chiaro fu invece sin dall’inizio l’orientamento anti-giolittiano e anti-nittiano della Democrazia Sociale. Ciò indusse la maggior parte ex dirigenti e degli ex deputati radicali legati politicamente a Giolitti o a Nitti a non aderire al nuovo partito, causando importanti ripercussioni sulla consistenza numerica (45 deputati contro i 61 del precedente gruppo demo-sociale) del nuovo gruppo parlamentare democratico sociale costituitosi il 3 giugno 1922. Al pari del Partito Radicale, anche la Democrazia Sociale fu un partito essenzialmente clientelare e legato attraverso moltissimi deputati alla Massoneria. Inoltre analogamente al Partito Radicale, la Democrazia Sociale non riuscì a darsi per difficoltà finanziarie un organo ufficiale di stampa eccetto l’unico numero di un bollettino mensile chiamato La "Democrazia Sociale" (15 febbraio 1923).
Insoddisfatti di Facta i demo-sociali si impegnarono perché fosse dato l’incarico a Orlando, ritenuto più idoneo, ma la costituzione del secondo Gabinetto Facta, il 1 agosto 1922, in cui ottennero 2 ministeri e due sottosegretari, rappresentò per i demo-sociali una sconfitta politica. Il comportamento ambiguo tenuto dai deputati demo-sociali nel corso delle trattative per la formazione del suddetto ministero suscitò molte critiche provenienti dalla base. E tali critiche oltre a nuocere alla credibilità del nuovo partito ne incrinarono la compattezza, mettendo allo scoperto la scarsa relazione tra i desideri e gli orientamenti della base democratica sociale e le scelte compiute dal gruppo parlamentare perso in giochi di potere, che, del resto era già stata una della caratteristiche costanti del Partito Radicale e una delle cause del suo declino. Nonostante ciò i deputati demo-sociali continuarono nella loro linea politica rigidamente conservatrice, tant’è vero che il 31 ottobre del 1922 quattro deputati entrarono nel Gabinetto Mussolini (Carnazza ai lavori pubblici, Colonna di Cesarò alle poste, Lissia sottosegretario alle finanze e Bonardi alla guerra) avanzando in cambio richieste generiche. Numerosi parlamentari e dirigenti demo-sociali, infatti, furono attratti dal movimento fascista, di cui non seppero coglierne la matrice eversiva. Il fatto è che sui demo-sociali si ripercuoteva in modo diretto la profonda crisi d’identità dei ceti medi italiani, combattuti fra la confusa, ma crescente aspirazione a un radicale rinnovamento politico del paese, che, facendo tabula rasa dei vecchi gruppi dirigenti, permettesse loro di inserirsi in posizione di preminenza nei meccanismi di potere dello stato, e la non sopita preoccupazione per il diffondersi del socialismo. Ma anche quei demo-sociali che deplorarono gli eccessi del fascismo (Sacchi, Fera...) dimostrarono grave miopia politica dichiarandosi favorevoli a un compromesso con esso. All’interno del gruppo democratico sociale l’unico che si mostrò contrario alla partecipazione al Gabinetto Mussolini fu Labriola che si dimise dal gruppo. Ma non fu il solo: forte e deciso fu il dissenso dei demo-sociali veneti. Il Veneto infatti era una delle regioni dove l’organizzazione demo-sociale era più sviluppata (basti dire che la sezione di Venezia aveva un organo ufficioso di stampa, Il Popolo, Giornale del Lunedì) non avendo però, rispetto alle regioni meridionali, un adeguato riscontro elettorale. I demo-sociali veneti, quindi, a differenza di quelli del Mezzogiorno, non avendo interessi clientelari da difendere, si opposero nella stragrande maggioranza al fascismo: "...la vittoria fascista ha sgretolato la costituzione e fatto crollare l’autorità dello stato...".
Dopo la costituzione del governo, la politica seguita da Mussolini nei riguardi della Democrazia Sociale fu quella "di rendere via via più difficili e di recidere alla fine i suoi legami con l’elettorato..." . Ai più o meno velati tentativi di Mussolini di limitare quanto più possibile l’autonomia della Democrazia Sociale, il partito reagì opponendo una tenace resistenza, ben sapendo che in gioco c’era la sua stessa sopravvivenza. Non a caso tra le condizioni per entrare nel governo presieduto da Mussolini i demo-sociali avevano messo quella del rispetto alle posizioni e all’attività della Democrazia Sociale. In realtà tutti gli sforzi dei demo-sociali di ottenere il riconoscimento dell’autonomia del partito e della sua parità di rango rispetto al Partito Nazionale Fascista, fallirono miseramente, poiché erano basati su un grossolano errore: quello di considerare il fascismo come una normale forza organizzata della vita politica italiana, con la quale trattare da partito a partito. Così non fu. La Democrazia Sociale si accorse della vera natura del Fascismo passando all’opposizione nel giugno del 1924, data fatidica dell’assassinio di Matteotti.
Qualche fermento di opposizione interessante si ebbe attorno al 1925 con il volume "Democrazia Sociale" del radicale Massimo Fovel, contenente un’aspra requisitoria e autocritica delle responsabilità del proprio partito e un richiamo energico alla tradizione cavallottiana: "La causa prima commentava per cui le formazioni democratiche si sono così rapidamente disperse sotto la pressione fascista, dipende dal fatto che esse mancano di una loro propria materia di ceti e di classi che ne siano la base particolare... il radicalismo sarebbe dovuto essere sociale... tocca oggi a una rinnovata democrazia risollevare, contro il fascismo, il profilo dello Stato moderno e civile". Anche l’Unione Nazionale delle forze liberali e democratiche promossa e diretta da Giovanni Amendola nel novembre 1924, embrione di un nuovo partito subito dissoltosi, rispondeva a questo intento disperato di salvare il patrimonio radicale. Già nel 1923 scrisse a Turati: "Si tratterebbe di vedere se si possa delineare una grande sinistra che si contrapponga all’attualità fascista". Questi furono le ultime voci del radicalismo italiano prima che il Fascismo spazzasse via ogni illusione: "Possiamo rallegrarci tra noi di aver tenacemente preferito la causa dei vinti a quella che avrebbe perduto le nostre anime. ... Basta sapere che tutto si muove per essere certi che un giorno la causa dei vinti sarà la causa dei vincitori. I figli ed i nipoti benediranno la memoria di coloro che non disperarono e che nel folto della notte più buia testimoniarono per l’esistenza del sole." . Restarono varie soluzioni radicali proposte da Salvemini, da Gobetti, da Carlo Rosselli, fino al Partito d’Azione della clandestinità. Fra le formazioni minori di brevissima vita, eredi del radicalismo italiano vanno annoverate il Partito Liberale Radicale e il Partito Radicale economico italiano , ma soprattutto la "Democrazia del Lavoro" (1944-46) di Bonomi e Ruini: "...un partito, la Democrazia del lavoro, con qualche venatura massonica e lontane ascendenze vetero-radicali... quella miniatura di partito radicale, piuttosto erede delle clientele meridionali che non di una vera impostazione politica, si è dissolta intorno al 1948" .
Per concludere, le vicende della democrazia radicale negli anni dopo la prima guerra mondiale rappresentano una prova eloquente della profonda crisi che investì la vecchia classe politica italiana. Né i dirigenti radicali, né dopo di loro i dirigenti demo-sociali furono in grado di cogliere la portata dei mutamenti economici, sociali e politici che la guerra aveva prodotto nel Paese. Comportamenti e linee politiche ambigue e vuote portarono alla fine del radicalismo. Incapaci di rinnovarsi e di guardare al di là dei conti elettorali essi continuarono ad agire politicamente con metodi superati. In verità non mancarono esponenti della sinistra del Partito Radicale come Ruini, La Pegna... che proposero idee coraggiose di matrice progressista, ma furono incomprese dal generale conservatorismo del partito. Momentaneamente scomparso dalla scena politica nel periodo buio del Fascismo e della guerra mondiale, il radicalismo verrà di nuovo alla luce negli anni Cinquanta grazie all’ostinazione di Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Niccolò Carandini e altri, tutti illustri esponenti della sinistra del Partito Liberale desiderosi di recuperare e rilanciare le idee radicali.
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