Mi dispiace per il fiume / Sorry about the river - capitolo 7

ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale

Michel Boselli aveva compiuto un passo falso ed Vittorio uno in avanti: ora sapeva dov'era il cuginastro! Era a Sofia, tornato in Bulgaria per "un lavoretto più complicato del previsto" e - di qualunque turpitudine si fosse trattata -, c'era solo da sperare nelle complicazioni cosicché si trovasse ancora laggiù dopo aver spedito la lettera, il cui timbro sulla busta datava quattro giorni prima. Era una traccia labile ma l'unica che finalmente aveva e non rimaneva un minuto da perdere, decise lo scrittore mentre l'eccitazione lo faceva sbagliare e ripetere più volte la composizione del numero di telefono per prenotare il primo volo utile. Non c'erano voli diretti per Sofia quel giorno, ma ce n'era uno via Salonicco, dove avrebbe trovato la coincidenza per portarlo nella capitale bulgara prima di sera. Mancavano meno di tre ore al decollo e agì disordinatamente prendendo a caso dai cassetti della biancheria e dal bagno degli effetti personali mentre chiamava un taxi muovendosi convulsamente avanti e indietro nel piccolo appartamento. Il radiotaxi arrivò in men che non si dica mentre verificava mentalmente una lista delle cose importanti: il passaporto, la carta di credito, tutto il denaro contante che aveva in casa, e soprattutto riempire bene le ciotole di Tabar, il cagnone che sarebbe rimasto solo in casa fino al rientro di Marco quella sera.

Circa un metro e ottanta, barba folta, abbigliamento trasandato da intellettuale di sinistra, l'attempato freakettone che usciva dal portone di via Lupi Lavanda era sicuramente il suo uomo, e con quella leggera borsa da viaggio e un taxi ad attenderlo, non era certo il caso di lasciarselo sfuggire. Mauro Suttora saltò su un altro taxi fermo al semaforo e prevenì le proteste dell'autista con la frase magica, per di più in accento americano, che questi attendeva da anni: seguire quello taxi! In Suttora non potè che rafforzarsi la convinzione di avere in pugno l'uomo giusto, l'architetto comunista esperantista Roberto Granzotto, quando l'auto che li precedeva lasciò l'autostrada dei laghi allo svincolo per Malpensa. Il cliente del taxi davanti al suo non sapeva bene dove fosse Michel Boselli di preciso né cosa stesse facendo, non sapeva bene cosa stesse facendo egli stesso né, ammesso che fosse riuscito chissà come a rintracciarlo, come avrebbe potuto neutralizzare un assassino professionista senza possedere alcuna arma né l'esperienza per eventualmente usarne una. Ma qualcosa doveva pur fare, e muoversi lo confortava in tal senso.

Vittorio Boselli era talmente eccitato che fu soltanto all'arrivo all'aeroporto, alla vista delle code dei jumbobus parcheggiati oltre la vetrofacciata, che si ricordò della ragione per cui aveva viaggiato in aereo una sola volta nella sua vita, trent'anni prima per una vacanza in Tunisia. Non aveva paura di volare: ne era terrorizzato. Se fossimo fatti per volare avremmo le ali, pensava: un coso pesante due o trecento tonnellate è innaturale che stia per aria. Oltretutto inquina un bordello. Ma purtroppo questa volta era necessario. Acquistò il biglietto che aveva prenotato e si predispose con rassegnazione a vivere interminabili ore di blocco allo stomaco e sudori freddi. L'uomo dietro di lui nella coda al banco non aveva prenotato e dovette acquistare un biglietto di business class. Tre ore più tardi Boselli, convinto di avere volato abbastanza per altri trent'anni si affidò al suo inconscio per perdersi nel piccolo aeroporto di Salonicco e perdere la coincidenza per Sofia. Brillante! pensò Mauro Suttora sempre più convinto di pedinare un criminale astuto come una volpe che aveva acquistato un biglietto per Sofia ma si era fermato a Salonicco e a quanto sembrava era ora intenzionato a raggiungere la capitale bulgara in treno, probabilmente per entrare da un posto di frontiera periferico.

Seduto a un tavolino della stazione ferroviaria, da Suttora discretamente sorvegliato a distanza, Boselli sobbalzò nell'udire una voce vagamente familiare proveniente da un tavolo alle sue spalle ordinare in greco una "mpira" al cameriere. Folgorato da quella voce, col cuore in gola si sforzò di superare lo stato di pietrificazione e si alzò lentamente dando sempre le spalle alla voce, percorse pochi passi in semicherchio - costringendo Suttora a fare altrettanto nelle aiuole dei capilinea degli autobus a poche decine di metri -, gettò un'occhiata furtiva all'interno del locale e tra una giovane mamma col bambino nel passeggino e e una vecchietta che fumava intravvide dietro il Corriere della sera un uomo elegante che con quei capelli e baffi biondi non assomigliava a Michel, ma poteva esserlo e la voce era la sua! D'altronde negli anni egli stesso aveva alterato le sembianze lasciandosi crescere la barba di cui il cuginastro non sapeva. Con questo pensiero si avviò verso il treno che stava per partire: i tre uomini presero posto in tre vagoni diversi ma contigui, ognuno convinto della propria buona stella.

Dopo la frontiera di Kalotina la valle della Struma si restringeva progressivamente a fare ombra sulla ferrovia ed Vittorio, finalmente rilassato in un mezzo di trasporto dalla velocità più consona ai suoi ritmi - cioè circa 35 km all'ora -, si abbandonò a gustare piacevolmente la malinconia del fiume cantata da Todor Trayanov, sicuramente uno dei suoi preferiti tra i maggiori poeti simbolisti bulgari, con i suoi frequenti richiami al dolore, la notte e i fantasmi della perdita. Trayanov fu picchiato a morte dalla polizia comunista nel 1945 e per associazione di idee Vittorio non potè che ripensare a quel che aveva letto di Blaga Dimitrova - la maggiore poetessa bulgara seconda per grandezza solo alla passionale Elizaveta Bagryana -, che era stata brevemente la prima vicepresidente della repubblica eletta democraticamente un quarto di secolo prima.

Collettivo! Discorsi senza fine avevano piantato quella parola nella testo di Dimitrova come un parassita che l'autrice scriveva di non riuscire a sradicare, e si chiedeva retoricamente che cosa ci potesse essere di collettivo nel comunismo che cercava di unificare per mezzo della competizione: la stanza meglio tenuta, lo slogan più azzeccato, le decorazioni più brillanti nella baita sulla catena dei rodopi - alla destra di Suttora e i Boselli oltre il massiccio del Rila -, la cui bellezza contrastava stridente col tetro totalitarismo criticato dalla poetessa futura vicepresidente. I cittadini non condividevano alcun interesse, non c'erano un ritmo, un fine comune: ogni centimetro quadrato dei muri delle altre baite era ricoperto dai ritratti già resi tristemente familiari nella mensa e nella piazza del villaggio, dove veniva urlato lo stessi slogan - Il lavoro ha fatto della scimmia un uomo! Almeno nella sua baita potevano respirare: le pareti nude davano un respiro illusoriamente spazioso.

Le ore volarono via mentre il colto scrittore anarchico Vittorio Boselli rileggeva mentalmente le pagine dei maestri bulgari con lo sguardo perso fuori dalla finestra dello squallido scompartimento e fantasticava come fosse strano che i boschi di conifere, le casupole e la gente fossero dello stesso colore dei paesi dove non c'era stato il comunismo, o forse durante il regime erano stati di altri colori... Più prosaicamente gli altri due stranieri sul treno usavano le finestre per affacciarvisi a vedere chi salisse e scendesse nelle piccole stazioni, ogni tanto incrociando lo sguardo riconoscendosi con fastidio come occidentali, e Michel Boselli sospettò di essere seguito da Suttora, l'agente che invece stava seguendo colui che lo seguiva.

Infatti una volta giunti a Sofia non lo vide più, anche se dopo avere camminato tutto lungo il boulevard Maria Luisa e arrivato in centro girato a sinistra sul boulevard Tsar Osvoboditel, nel voltarsi improvvisamente riconobbe a pochi passi l'altro individuo visibilmente straniero che aveva intravvisto viaggiare sul treno. Aveva l'aspetto di uno di quei patetici hippy di mezza età abbigliati in modo nostalgico di una giovinezza che non sarebbe mai ritornata. Insomma non sembrava pericoloso e non sembrava esserci nulla di più naturale che un turista dall'aria intellettuale appena arrivato probabilmente per la prima volta si dirigesse verso il centro per ripercorrere i passi di Ivan Vazov che cent'anni prima portava il cane Tabar a passeggiare davanti all'Assemblea nazionale.

Effettivamente in quel momento Vittorio Boselli pensava proprio al massimo poeta del risorgimento e alle epoche buie ad egli susseguitesi, poi descritte dal grande drammaturgo contemporaneo Victor Paskov per tramite della resistenza artistica e della sopravvivenza spirituale dei suoi personaggi contro la realtà brutale. A poche decine di metri dalla imponente cattedrale dedicata al liberatore Alexander Nevski, Michel Boselli si infilò al civico numero 3 di ulitsa Dunav - una piccola via in discesa verso il boulevard Dondukov che portava il nome bulgaro del grande fiume che aveva ferito mortalmente -, dove aveva conservato un appartamento all'ultimo piano per la sua eccezionale vista panoramica sulla cattedrale con a sud l'imponente sfondo del monte Vitosha.

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