Mi dispiace per il fiume / Sorry about the river - capitolo 8
ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale
Convinto che Vittorio Boselli lo avesse piantato, Marco Cappato era in preda a una crisi di gelosia irrazionale. Interrotto solo dall'abbaiare emotivo del cagnone Tabar che percepiva la tensione, Marco piangeva come una fontana per non avere trovato Vittorio al ritorno la sera precedente. Non era mai successo prima che non rispondesse al cellulare e non gli avesse lasciato neppure un biglietto. C'erano solo sparpagliate sul pavimento delle lettere del loro comune amico Michel Boselli, cuginastro di Vittorio e precedente fidanzato di Marco. Con un sussulto questi riconobbe come inequivocabile quella calligrafia in stampatello ma sciolta e fluente come se fosse in corsivo, e se ci fosse stato qualche dubbio sarebbe svanito nello stile inconfondibile della scrittura. Ciò che era sconvolgente e proiettava in secondo piano le pene d'amore di Marco era il contenuto terrificante di quelle lettere: Cappato apprese con brividi raggelanti e giramenti di capo sull'orlo dello svenimento che l'ex grande amore della sua vita era divenuto in quegli anni un assassino mercenario di prima grandezza e inaudito cinismo.
Belfast, 25 febbraio 2008.
Carissimo Vittorio,
tu mi conosci, non so resistere alla tentazione del bizzarro, e ho vissuto un'altra prima volta molto strana. Dopo avere sprecato tanto talento con i preti ortodossi, oggi per la prima volta ho ucciso per denaro. Un sacco di soldi! Ricordi Ezio Catania, il nostro compagno di classe? Col nostro diploma in informatica è diventato vicepresidente europeo nientepopodimenochè della OBM. L'ho incontrato per caso in un aereo per Dublino e abbiamo bevuto ai vecchi tempi, così quando è stato ubriaco mi ha fatto giurare di non dirti quanto ti avesse sempre disprezzato come un morto di fame che non sarebbe mai arrivato da nessuna parte e si è lasciato andare a confidarmi quanto vorrebbe far fuori il suo capo Lucio Stango-Vigevano e di avere anche elaborato un piano per attirarlo in una trappola, ma di non avere lo stomaco per l'esecuzione materiale.
Tu mi conosci, non ho problemi di stomaco e così un po' per scherzo un po' sul serio ho buttato lì che avendo una certa esperienza per un modesto compenso avrei potuto farmi carico della mesta incombenza. Detto fatto, pattuito un milioncino - dico un milioncino di eurodollari! -, come se fosse una scommessa tra sbruffoni che io non ne sarei capace o lui non avrebbe il denaro, e l'accordo è fatto prima di atterrare. Il giorno dopo l'ha invitato a cena a casa sua et voilà, gliel'ho sgozzato sotto i suoi occhi in quattro e quattr'otto bit per secondo. L'ho anche sventrato per fargli più impressione, tanto il tappeto di alpaca era già rovinato e l'abbiamo usato per avvolgerlo, caricarlo nel baule della macchina e portarlo a seppellire nella zona industriale nel sobborgo dublinese di Blanchardstown. in una discarica vicina al loro stabilimento. Non ti dico la faccia da procione di Catania, che ha vomitato e se l'è fatta addosso. Però mi ha pagato puntualmente. Credimi, caro mio, questi dirigenti d'azienda sarebbero capaci di prostituire la sorella pur di far carriera. Adesso sto viaggiando sul catamarano che mi porta in vacanza in Scozia e avrei abbastanza soldi per far la bella vita per almeno qualche annetto, ma so già che non riuscirò a stare con le mani in mano: tu mi conosci...
Dalla data quella risultava la più vecchia delle numerose lettere di Michel che Vittorio aveva conservato. La più recente recava il timbro di arrivo del giorno prima. Non occorreva uno scienziato astrofisico per immaginare che la sparizione di Vittorio avesse qualcosa a che fare con il "lavoretto" che per il quale Michel scriveva di tribolare in Bulgaria. Neppure una mente poco brillante come quella di Cappato doveva arrivare a surriscaldarsi per capire la natura del lavoretto balcanico: da settimane giornali e TV - che invece Vittorio ignorava con altero snobismo -, non facevano che riportare di boy scout bulgari precocemente precipitati, calciatori bulgari tragicamente dilaniati, deputati bulgari allegramente spappolati e spiaccicati... Il tutto con il medesimo comune denominatore: il miracolosamente sopravvissuto candidato presidenziale democratica Olivier Dupuis.
Dotato di non esaltante velocità di pensiero ma purtuttavia di grande senso pratico, Marco Cappato mise da parte in un cassettino mentale lo sgomento della terribile scoperta e approntò un piano di azione. Ricordò che il Corriere aveva informato che Dupuis avrebbe trascorso il giorno seguente all'ambasciata di Sofia per il ricevimento del 2 giugno. Non c'era un minuto da perdere. Corse all'aeroporto parcheggiando frettolosamente Tabar da una cugina di campagna zitella e prima che facesse buio era già a Sofia. Il ricevimento all'ambasciata non era più deprimente del solito. Fin dal tempo in cui rappresentava solo l'Italia, l'ambasciatore Scaruffi aveva la cattiva abitudine di prendere nota di tutti coloro aveva conosciuto negli ultimi dodici mesi per aggiungerli all'elenco di invitati alla festa nazionale del due giugno. Questa pratica deprecabile non era cambiata quando nell'unificare il corpo diplomatico europeo la Bulgaria era stata assegnata a lui. L'ambasciatore Scaruffi era un ometto napoletano ormai anziano ma ancora piuttosto vivace, che suscitava pena e simpatia per la duplice disgrazia di essere stato dimenticato a finire la carriera a Sofia, dove il ministero degli esteri italiano usava mandare il personale più sfigato e tristanzuolo, e soprattutto per la moglie brutta, volgare e antipatica, la cui incontenibile ambizione era stata frustrata dall'assenza di questa da parte del marito. Nella residenza comandava lei ed era facile immaginarla spesso rimproverargli acida di non essere stato capace raggiungere una delle quattro ambasciate di primo livello: Mosca, Washington, New York e Pechino.
Alessandra Krocikkio fumava sul balcone della residenza signorile in ulitsa San Stefano sulla Doktorska gradina, il giardino dietro l'università dedicato ai medici e infermieri che persero la vita nella guerra russo-turca, come ogni sera godendo degli ultimi minuti di pace prima del ritorno del padre padrone. A 17 anni, orfana di madre, Alessandra era una ragazza infelicemente diversa dalle sue coetanee, che a quell'età scoprivano le cose divertenti che potevano fare coi loro corpi di adolescenti in in fiore. Quelle cose Alessandra aveva già scoperto in dieci anni di violenze ad opera del padre e non le trovava affatto divertenti. Fin da bambina, dopo la morte della madre alcolista, il depravato mentecatto l'aveva sostituita con lei come schiava sessuale nel basamento seminterrato isolato acusticamente dove aveva allestito una camera di tortura degna di De Sade se non di Torquemada. Ancor più sotto, nelle fondamenta della palazzina, scavando poche decine decine di centimetri si sarebbero viste spuntare le ossa di giovani studentesse della vicina università Kliment Ohridski che il porco aveva discretamente attirato nella sua llussuosa villa, seviziato a morte insieme alla figlia e seppellito grossolanamente prima di installare una vasca per distruggere i cadaveri nell'acido.
Alessandra era di fatto diventata complice del padre perché prima della pubertà non si rendeva conto della turpitudine di essere schiaffeggiata con quella grossa appendice di carne marcia e schifosa che s'inturgidiva a farle sempre più male, uno dei trattamenti più umilianti che cominciò in modo quasi normale come forma di punizione. Crescendo divenne sempre più vittima del suo aguzzino, che ora assisteva nel filmare con la telecamera le imprese sessuali che questi dirigeva sempre con la stessa sceneggiatura: la tortura, lo stupro e le amputazioni finché la vittima implorava la morte generosamente dispensata dall'abbietto individuo. Con l'adolescenza però le cose erano cambiate. Alessandra aveva progressivamente acquisito la consapevolezza della colossale ingiustizia nell'essere stata privata dell'infanzia, un furto al quale nessuno avrebbe mai potuto rimediare. Cominciò a odiare il porco che vedeva diventare sempre più piccolo (era lei che cresceva), ma intuì che ribellarsi l'avrebbe condotta alla stessa fine delle povere disgraziate che non potevano lasciare vive per testimoniare quanto avevano subito. Scelse così di continuare a collaborare, suo malgrado, e covare intimamente i suoi propositi di vendetta per quando si fosse presentata l'occasione di farsi giustizia, che sentiva non essere lontana.
In modo inatteso quella sera rappresentò per lei un significativo passo avanti in quella direzione. Come ogni due di giugno, il vice-ambasciatore europeo Armando Krocikkio avrebbe trascorso la serata dall'altra parte dei giardini, oltre l'assemblea nazionale, a ubriacarsi con l'ambasciatore Scaruffi e gli altri suoi numerosi ospiti. L'elemento che rese quella notte diversa dagli anni precedenti fu costituito dal portachiavi che Krocikkio dimenticò in una tasca dei pantaloni quando tornò a casa brevemente per cambiarsi in abito da sera. C'era la chiave del suo studio, dove Krocikkio non aveva mai permesso di entrare né ad Alessandra né alla donna delle pulizie se non in sua presenza, e c'era la chiave che dallo studio conduceva dove lei non sapeva. Conoscendo bene la paranoia del padre, l'attenzione ossessiva e minuziosa che in effetti gli aveva garantito l'impunità, scivolò dentro lo studio con estrema cautela, indossando guanti chirurgici e scarpe dalle suole immacolate. Sul tavolo giaceva un voluminoso documento dalla copertina nera. Era un documento confidenziale dal contenuto esplosivo, la scoperta del quale avrebbe scoperchiato una pentola putrescente, ma in quel momento Alessandra era molto più intrigata dalla misteriosa porta col pesante chiavistello.