Mi dispiace per il fiume / Sorry about the river - capitolo 9

ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale


Alessandra dovette tornare indietro a procurarsi un torcia elettrica, col cuore in gola per l'eccitazione della scoperta. Il tunnel oscuro, la larghezza del quale non avrebbe permesso il passaggio di più di una persona per volta, conduceva verso sud a un'altra pesante porta impolverata. Ma certo! Era la palazzina adiacente dove aveva vissuto Ludmila Zhivkova, la figlia suicida del dittatore comunista che per 35 anni aveva governato la Bulgaria come il sedicesimo stato dell'Unione sovietica, fallendo solo i tentativi di formalizzare ufficialmente tale prestigioso status. A metà dello stretto condotto un varco poco più largo si apriva a destra, nettamente verso ovest, su delle scale in discesa di cui la torcia non arrivava a illuminare la fine. Contò una quarantina di gradini, all'incirca quanti ne aveva già discesi dallo studio, e calcolò di trovarsi a oltre 15 metri sotto i giardini. Continuò a contare calcolando un metro ogni due passi mentre proseguiva in linea retta lungo il tunnel che si si faceva progressivamente un poco più ampio e le confermava come una certezza ciò che aveva intuito con eccitazione: si trovava nel sistema di gallerie sotterranee costruite dal governo comunista di cui si era sempre favoleggiato durante il regime ma senza mai portarlo allo scoperto.

Non si trattava di un ramificato labirinto da usarsi in caso di guerra come quello che correva per chilometri sotto il centro politico di Londra: quel tipo di bunker i politburocrati se lo erano fatti costruire vicino a Varna sulla costa del Mar Nero. Era piuttosto un semplice ed efficace sistema di comunicazione sotterranea tra gli edifici istituzionali che raccordava il parlamento - sotto il quale Alessandra calcolava di trovarsi in corrispondenza di un più largo portone metallico -, la presidenza della repubblica, l'esecutivo e i veri centri del potere: la casa del partito e il ministero della difesa, tra i quali infatti correva il corridoio più largo. Nel riconoscere ogni stazione del potere dai varchi sigillati dove anni prima erano transitati i lugubri funzionari del partito unico, facendosi coraggio tra i grossi topi che scappavano al suo incedere, Alessandra arrivò fino a dove il tunnel assumeva l'aspetto di un sottopassaggio diramandosi sotto l'ex casa del partito, e intraprese il percorso inverso. Ormai aveva visto abbastanza, o meglio non rimaneva altro da vedere. Un altro importante tassello si era aggiunto agli altri per architettare la sua vendetta. Non sapeva come se ne sarebbe servita, ma certamente si sarebbe rivelato utile al momento giusto, pensava tornando indietro sotto il museo archeologico, quello etnografico, la galleria d'arte nazionale e la chiesetta russa di Sveti Nikolay, avvertendo sopra di sè il peso della storia che la chiamava a una pulizia del mondo dall'Immondo.

Subito dopo la chiesetta russa vennero i piedi non troppo stabili di Suttora piantati quindici metri sopra di lei nel giardino dell'ambasciata. L'agente segreto privato, in uno smoking a noleggio, tentava di consolarsi con il terzo Martini doppio di quello che si prospettava come il clamoroso fallimento del suo primo incarico, a meno che non sopravvenisse un miracolo a risparmiarlo dai tuoni e fulmini di Pannella, colui che l'aveva pagato mille eurodollari al giorno per pedinare l'uomo sbagliato. I primi dubbi gli sorsero quando l'attempato freakettone smise di camminare dirigendosi con sicurezza verso un luogo ben preciso, come se a Sofia ci fosse nato, e prese invece a ciondolare per ore attorno al monumento a Levski, eretto nel luogo dove il leader rivoluzionario fu impiccato dagli ottomani nel 1873, come se volesse simbolicamente interpretarne la frase più famosa:

Noi siamo nel tempo e il tempo è dentro di noi

Aveva un appuntamento con qualcuno? Ma allora perché improvvisamente, più volte, sembrava scattare sul breve tratto pedonale che costeggiava l'orto botanico e poi fermarsi dubbioso come se ci avesse ripensato? All'edicola della piazza lo vide acquistare una mappa della città in italiano, gesticolando all'edicolante la sua esigenza. Ma non era Granzotto un abitudinario della capitale bulgara? Non era per sua natura esperantista un poliglotta a suo agio con le lingue slave? I dubbi svanirono quando il soggetto del pedinamento si mise a studiare la mappa tenendola appicicata agli occhiali. Granzotto era presbite come un falco, riportava nelle note caratteristiche la scheda che gli aveva dato da studiare il maggiordomo di Pannella. Più ipermetrope di un pastore presbiteriano in pensione! Con ondate di brividi caldi e freddi, Suttora realizzò che l'uomo seduto a un tavolino all'aperto del ristorante Berlin dell'albergo Serdica era miope come una talpa, ma talmente miope che lui doveva essere cieco per non essersene accorto prima!

Sedette anch'egli a un tavolino del Berlin prendendosi il capo tra le mani per la disperazione e quando rialzò lo sguardo incrociò quello di Irene Abu Gail. Il maggiore del Mossad di origine bulgara, per tanti anni suo numero opposto a Washington, non perse tempo in convenevoli.

Dall'alba stai ciondolando attorno al monumento a Levski come se volessi simbolicamente interpretarne la frase più famosa: Noi siamo nel tempo e il tempo è dentro di noi... Non riesco a spiegarmi come mai diciotto volte sei scattato verso l'orto botanico e poi ti sei fermato dubbioso come se ci avessi ripensato. Mi fa piacere rivederti, Mauro, ma sei per caso diventato pazzo?

Suttora si sentì risollevato alla vista della vecchia conoscente, alleata e al tempo stesso concorrente in tante battute di caccia grossa alle informazioni vitali sui comuni nemici, ai suoi tempi d'oro alla CIA che cominciava già a rimpiangere. Le si aprì raccontandole del guaio che aveva combinato e già questo bastò a rincuorarlo un poco quando l'ex collega gli espresse simpatia e lo incoraggiò a proseguire l'indagine manifestando interesse nei comunisti esperantisti, all'evocazione dei quali assunse un'espressione pensierosa. Poi per tirargli su il morale gli propose di accompagnarla al ricevimento del 2 giugno, noto per essere aperto anche ai più lontani parenti degli invitati.

A poco più di cento metri in linea d'aria, l'edificio in tardo stile liberty al numero 3 di ulitsa Dunav risaliva al 1928 e oltre ai bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale era sopravvissuto anche ai vicini palazzacci, costruiti negli anni 50 sulle rovine di quei bombardamenti. Una grande scala di marmo conduceva dal pianterreno, occupato da una cantante lirica russa in pensione, fino al quarto e ultimo piano, che dava a sud sulle cupole dorate di Alexander Nevski. Nascosti dalla cattedrale sulla storica piazza stavano gli edifici dell'assemblea nazionale e dell'accademia delle scienze, poco più a destra quello del litigioso sinodo della chiesa ortodossa e in mezzo uno spiraglio di una quindicina di metri attraverso il quale Michel Boselli poteva vedere nel mirino a infrarossi il giardino della sezione ex austriaca dell'ambasciata d'Europa, e dirigere sugli ospiti del ricevimento il dispositivo a puntamento laser della sua arma micidiale. Da ore Michel Boselli attendeva pazientemente che Olivier Dupuis si aggirasse a stringere mani in quell'area del giardino, e quando questa fece capolino cominciò a seguirla nel mirino finché si fosse fermata, presumibilmente tra quel salame dell'ambasciatore e quell'attaccabottoni della Tordopopova. Premette il grilletto nello stesso istante in cui d'improvviso udì bussare perentoriamente alla porta d'ingresso e una voce urlare in italiano, la voce inconfondibile del suo cuginastro Vittorio Boselli, dannazione:

Michel! Michel! Lo so che sei lì dentro. Lasciami entrare! Ti prego, aprimi, parliamo!

Marco Cappato irruppe trafelato nel giardino dell'ambasciata, suscitando le educate proteste delle guardie che lo inseguirono chiedendogli di esibire l'invito e gli snobistici sguardi di riprovazione da parte delle dame sul suo abbigliamento inadatto all'occasione. Nella sua frenetica perquisizione visiva, Marco aveva incrociato un bagliore provenire da una finestra dall'altra parte della piazza. Il cadavere della Tordopopova era accasciato contro il tronco di un albero, la bocca spalancata in una espressione di incredulità, e un buco rosso sporco tra le rughe sulla fronte. Nella confusione delle grida Cappato, seguito a ruota da Suttora, si lanciò nella direzione dell'edificio dal quale, nello stesso momento, a prezzo di una spalla slogata che non sarebbe più tornata come prima, Vittorio Boselli riusciva a sfondare la porta dell'appartamento del cuginastro Michel. Questi non ebbe più tempo per ricaricare l'arma, che gettò contro Vittorio dandosi alla fuga. Dal bacone della cucina sul retro si precipitò lungo la scala antincendio arrugginita che al suo passaggio si divelse pericolosamente dal muro scalcinato, impedendo a Vittorio di inseguirlo e costringendolo a optare per il condotto della spazzatura, dal quale uscì sporco e ammaccato dieci metri più sotto, nonostante tutto precedendo Michel che non smetteva di imprecare.

Michel avrebbe avuto buon gioco sul gracile scrittore, ma all'estremo opposto del cortile gli si pararono davanti le montagne di muscoli di Marco Cappato e Mauro Suttora. Cappato corse a soccorrere Vittorio, che si strinse tremante e dolorante al suo petto, mentre Suttora prese saldamente Michel Boselli per un braccio e lo trascinò via verso il boulevard affollato prima che sopraggiungessero allarmate le guardie dell'ambasciata. Michel non oppose resistenza, mestamente rassegnato al fatto che tutto fosse finito come da qualche tempo oscuramente presentiva, e si dispose a vedere cosa sarebbe successo adesso, spettatore indifferente della sua vita maledetta.

FINE DELLA PRIMA PARTE

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