Di Massimo Teodori
Berlusconi
Lo zigzag elettorale del 27 marzo 1994Quando all'inizio del '94 venne indetta la nuova tornata delle elezioni anticipate del 27 marzo, non erano in molti ad avere consapevolezza dello stravolgimento politico che ne sarebbe derivato. Non era acquisito che vi sarebbe stata una contrapposizione netta tra due schieramenti, di cui quello di centrodestra capeggiato dal patron della Fininvest Silvio Berlusconi. Era diffusa la convinzione che il centrosinistra intorno al PDS avrebbe facilmente conquistato la maggioranza, sull'onda di quel che era accaduto nelle elezioni comunali delle grandi città, Roma, Torino, Genova, Venezia e Catania. Pochissimi ritenevano possibile la costituzione di un unico blocco elettorale di centrodestra, variamente articolato nelle diverse zone del paese, che comprendesse, tutti insieme, la Lega Nord di Bossi, l’Alleanza Nazionale postmissina di Fini, e alcuni residui democristiani e liberali. E, soprattutto, non era immaginabile che il costituendo movimento berlusconiano - Forza Italia - potesse avere tanto successo da divenire il collante decisivo della coalizione vincente.
Anche Pannella era lontano dall'immaginare la nuova situazione che sarebbe scaturita dal voto con due sole forze egemoni, il PDS sul centrosinistra e Forza Italia sul centrodestra. Nei mesi precedenti le elezioni, il leader radicale aveva continuato a prendere iniziative come se potesse contare su una grande possibilità di manovra. Aveva fortemente criticato la nuova legge elettorale postreferendaria - il cosiddetto Mattarellum - per il residuo proporzionale mantenuto sull’impianto maggioritario. Aveva sfidato l'opinione pubblica assumendo le vesti del protettore dei parlamentari inquisiti, perdendo in un solo colpo la fiducia degli italiani che, secondo un sondaggio del luglio '93, lo avevano considerato come il quinto politico per notorietà e il terzo per gradimento dietro Scalfaro e Cossiga (1). Reduce dal fortunato sostegno dato all'elezione del presidente della Repubblica, e quasi inserito nella maggioranza che appoggiava il governo Ciampi, Pannella riteneva di potere giocare anche elettoralmente un ruolo primario senza doversi schierare definitivamente a sinistra o a destra o al centro ma, al contrario, pensando di potere spaziare a tout azimout.
Riteneva che le sue particolari risorse politiche e personali fossero sufficienti per realizzare una strategia aperta in un momento in cui nulla pareva chiaro e grandi erano le aspettative di rinnovamento. Alle elezioni comunali di Roma del novembre aveva rifiutato di far parte di una lista di coalizione democratica e aveva sostenuto la candidatura progressista di Rutelli con una sua Lista Pannella che aveva conseguito un magro risultato (2); e aveva adottato analoghi comportamenti in altre elezioni amministrative. Però, la sua collocazione, in termini politici tradizionali, era ancora percepita come parte di quell'area di centrosinistra dove muoveva passi incerti la neonata Alleanza Democratica, una formazione ibrida a cavallo tra il gruppuscolo progressista all'ombra del PDS, e il punto di raccordo tra vari partiti della sinistra e del centro impegnati nel rinnovamento politico e istituzionale.
Nei mesi precedenti la svolta elettorale, Pannella era ancora considerato un protagonista della sinistra liberale, laica e non comunista: era impegnato a rilanciare intorno a sé la costituzione di un qualcosa che potesse evolvere in un Partito Democratico, cioè una nuova aggregazione di stampo riformatore nel quadro della riorganizzazione del sistema politico sotto la spinta del maggioritario. Dissolto il Partito Radicale, le modalità d'azione di cui si serviva erano quelle sperimentate più volte: da una parte il piccolo gruppo di fedelissimi pronti ad attuare le sue direttive e, dall'altra, il tentativo continuo di coinvolgimento dell'opinione pubblica sollecitata direttamente con messaggi e appelli sostenuti da note personalità.
Così recitava nel settembre '93 un ennesimo manifesto-appello "per le liste Pannella e per il Partito Democratico" sottoscritto da Marcello Pera, Angelo Panebianco, Saverio Vertone, Giulio Giorello e Antonio Martino: "appaiono manifestamente inadeguati i tentativi in atto di rigenerare vecchi partiti e di costituire aggregazioni all'insegna del nuovismo... Chi subordinasse la propria strategia a quella del PDS non potrebbe assicurare al paese quella radicale riforma e quella rivoluzione liberale che vogliamo... Esiste un'esigenza diffusa di regole e di contenuti politici tipici del classico modello democratico. Un progetto referendario e di iniziative di leggi popolari attorno ai temi di una secca legge maggioritaria, del presidenzialismo, dell'antistatalismo, della giustizia e dell’informazione sono oggi necessari per la costituzione del Partito Democratico". Questo programma si concretava operativamente nella richiesta di tredici referendum concernenti la liberalizzazione sindacale e del commercio, la scelta tra servizio sanitario pubblico e privato, l'abolizione della quota proporzionale della legge elettorale, e la liberalizzazione della RAI-TV.
Questo il bagaglio politico con cui Pannella si avviava alle elezioni del '94 rivolgendosi a interlocutori d'ogni colore. Come con il vecchio proporzionalismo, anche nel nuovo regime maggioritario, Pannella era intenzionato a conservare le mani libere per stringere al momento opportuno alleanze parziali, per sponsorizzare candidature sotto diverse bandiere e per allacciare rapporti politico-elettorali differenziati. Ancora alla vigilia del 27 marzo, il leader contava di poter realizzare una strategia aperta e differenziata che non lo costringesse in un determinato schieramento, e tantomeno in quello di centrodestra, 'ma gli consentisse di fare il battitore libero nella convinzione di poter contare su un vasto raggio di ascolto. Ma, evidentemente, quel disegno non teneva conto della nuova realtà del maggioritario che radicalizzava le posizioni, né dell'evoluzione delle diverse forze politiche tendenti ad allinearsi "o di qua o di là", come si cominciò malamente a sostenere durante la campagna elettorale.
A sinistra il PDS di Achille Occhetto aveva già chiuso le porte all'ostico Pannella, reputato disomogeneo e troppo diverso dai consueti alleati e compagni di strada con i quali la tradizione comunista e postcomunista era abituata a trattare. Il PSI, sotto i colpi di Mani Pulite, era ormai alla completa disgregazione con la caduta prima di Bettino Craxi e poi di Claudio Martelli; e la neonata Alleanza Democratica si dibatteva tra dilemmi ed equilibrismi, pur di non abbandonare l'orbita del maggiore partito della sinistra.
Dal canto loro gli esponenti del centro e del centrosinistra, Mino Martinazzoli, traghettatore della DC nel Partito Popolare, e Mariotto Segni, eretico democristiano alla testa di un suo Patto di impronta cattolica, pur dimostrando la loro stima alla persona, sostanzialmente non riconoscevano in Pannella una forza politica con cui poter dialogare. Così quando il leader radicale propose loro, a Giuliano Amato e a Valerio Zanone, di costituire un cartello di candidati riformatori per contrapporsi nei collegi di Roma sia al blocco delle sinistre di Occhetto, Bertinotti, Mattioli e Orlando, che a quello delle destre di Berlusconi, Fini e Mastella, fu lasciato senza risposta.
Le uniche forze che invece accettarono il dialogo con Pannella furono i berlusconiani e, in misura minore e per ragioni contingenti, i leghisti. In effetti, durante l'ultima campagna referendaria si era rinsaldato il rapporto personale del leader radicale con Berlusconi e i berlusconiani che fino ad allora rappresentavano solo un potere televisivo e non ancora politico. I network Fininvest, insieme alla rete dei supermercati, avevano notevolmente contribuito ad allargare l'informazione e a raccogliere le firme necessarie a convalidare i referendum. E i leghisti, specialmente su sollecitazione del futuro ministro dell'Interno Roberto Maroni, avevano stretto un accordo per integrare i loro referendum (soggiorno cautelare, sostituto d'imposta fiscale, tesoreria unica) nel pacchetto di quelli pannelliani sì da facilitare lo sforzo organizzativo. Pertanto, quando si arrivò al voto, i pannelliani si trovarono, loro malgrado, ad avere come unico possibile alleato Berlusconi insieme alla generica disponibilità di Bossi.
Questa la ragione per cui alle elezioni del 27 marzo 1994 - quota uninominale della Camera -, furono inseriti in collegi padani, sotto le insegne del Polo delle Libertà, cinque candidati pannelliani (più uno al Senato) che il 27 marzo risultarono vincenti, non certo per meriti propri ma sull'onda del generale successo di Forza Italia e Lega Nord (3).
Mentre, per il resto - quota proporzionale della Camera e Senato -, il leader radicale presentò candidati e liste autonome, connotate esclusivamente dal simbolo Pannella-riformatori, con l'intento di sottolineare la sua estraneità dall'alleanza di centrodestra e di conferire un carattere parziale e limitato all'accordo con Berlusconi, siglato solo per consentire l'elezione di alcuni suoi uomini.
Ma il risultato elettorale, con soli sei parlamentari eletti grazie a Berlusconi (più una senatrice con il simbolo autonomo), non era quello che Pannella aveva desiderato e previsto. La sua volontà originaria si riprometteva di mantenere un alto grado di autonomia con un protagonismo politico fondato sulla tradizione liberale, radicale e libertaria. Infatti, nel momento in cui aveva designato i candidati pannelliani sotto le bandiere berlusconiane, il leader li aveva controbilanciati con altre significative iniziative atte a sottolineare la sua alterità rispetto all'alleanza di centrodestra formata dal Polo delle Libertà con Forza Italia e Lega Nord nel settentrione, e dal Polo del Buongoverno con Forza Italia e Alleanza Nazionale nel centro-sud.
Aveva rifiutato, egli stesso, di candidarsi in un sicuro collegio elettorale messo a disposizione dai berlusconiani, avendo preferito correre l'alea della sconfitta - che poi si verificò - con la candidatura in quota proporzionale nelle autonome liste con il proprio nome. Quell'atto che suggellava una chiara presa di distanza dalla coalizione Berlusconi-Bossi-Fini-Mastella si accompagnava a un'altra iniziativa esplicitamente ostile verso Alleanza Nazionale: la candidatura alla Camera in un collegio romano contrapposta a Gianfranco Fini, per uno scontro altamente simbolico se pure chiaramente impari (4). L'eclatante sconfitta che inevitabilmente sopravvenne, fu poi attribuita da Pannella alla miopia delle sinistre e dei centristi che non avevano voluto riconoscerlo come un serio antagonista del leader postfascista.
In conclusione, però, quella navigazione elettorale che Pannella aveva iniziato con l'intenzione di affrontare da protagonista la prima prova postproporzionalistica, si concludeva in maniera ben diversa. Voleva mantenersi le mani libere verso interlocutori di sinistra e di centro, oltre che di destra, per dimostrare che la divisione tra riformatori e conservatori non coincideva con quella tra destra e sinistra, ma fini completamente invischiato all'interno del solo Polo di centrodestra, e respinto da tutti gli schieramenti di sinistra e centrosinistra. Anche con Berlusconi, con il quale voleva stabilire un'alleanza da pari a pari, le cose non andarono come il leader radicale desiderava. Alcuni dei pannelliani eletti a Montecitorio con Forza Italia - Marco Taradash, Elio Vito e Peppino Calderisi - cominciarono, subito dopo il 27 marzo, ad avvertire il legame verso colui che li aveva eletti in maniera molto più obbligante che non la lealtà verso colui che li aveva proposti; e di conseguenza si staccarono progressivamente dalla tutela pannelliana per mettersi sotto l'ala berlusconiana.
Del resto Pannella sapeva bene che, anche in Parlamento come nel paese, la forza politica di ciascuno è sancita dal consenso elettorale: e il 27 marzo era andato incontro a un insuccesso con i mancato superamento, da parte della lista Pannella, della soglia necessaria per entrare autonomamente in Parlamento. Tra i tanti gruppi parlamentari che si formarono a Palazzo Madama e a Montecitorio, per la prima volta non figurava un gruppo radicale o federalista o riformatore, come si erano variamente ma ininterrottamente denominati per diciotto anni: il pugno di eletti d'origine pannelliana era da allora annoverato come una subcomponente dei berlusconiani di Forza Italia. A lungo Pannella aveva coltivato l'illusione che con la sua sola straordinaria abilità avrebbe potuto supplire alle carenze politiche insite nel movimento personalizzato, ma proprio nella prima prova elettorale postproporzionalistica doveva constatare quanto ingannevole fosse quella prospettiva.
Marco e il Cavaliere: né con te né senza te
La vittoria berlusconiana del 27 marzo aveva mutato radicalmente i punti di riferimento politici di Pannella. Per la prima volta dal '76 il leader radicale non era presente in Parlamento dove però sedevano alcuni suoi seguaci eletti con i voti del centrodestra. Il rapporto con Berlusconi, iniziato nel segno di una collaborazione parziale e limitata, si era trasformato nel fuoco elettorale in un'alleanza maggioritaria comprensiva dei leghisti di Bossi e dei postfascisti di Fini da cui doveva nascere il nuovo governo. In breve il liberale nonviolento, che si era sempre mantenuto esterno al potere per condurre senza vincoli battaglie di diritto e libertà, si veniva a trovare all'interno di una coalizione connotata da postfascisti, postdemocristiani e nuovisti assortiti, oltre che da liberalmoderati vecchi e nuovi, per di più con responsabilità esecutive nazionali.
E’ sullo sfondo di questi paradossi postelettorali che si è rinsaldato il singolare rapporto tra Pannella e Berlusconi, i quali si erano già incontrati più volte nelle vesti, l'uno, del politico e, l'altro, del patron televisivo. L'antico radicale riconosceva al Cavaliere il merito di aver incrinato il regime ribaltando in pochi mesi le aspettative che davano per vincente il blocco progressista portatore, a suo avviso, di una notevole dose di conservatorismo. L'inventore di Forza Italia ammirava in Pannella il coraggio del politico diverso, estraneo alla partitocrazia e avversario di lunga data dei comunisti non da posizioni di destra ma di sinistra democratica e riformatrice. Pannella voleva cogliere l'occasione per fare di Berlusconi l'agente di una rivoluzione liberale da tanti predicata ma da pochissimi praticata; e riteneva che, nonostante la propria debolezza parlamentare, con la sola forza dell'argomentazione, sarebbe riuscito a convincerlo a interpretare la parte dell'innovatore. Berlusconi era riconoscente a Pannella perché gli forniva una copertura liberale di sinistra e inequivocabilmente democratica, nel momento in cui l'attenzione internazionale era sospettosa della sua alleanza con i postfascisti.
In definitiva, il rapporto che si instaurò tra i due era tanto amichevole quanto fragile perché fondato su presupposti personali in mancanza di solide e sperimentate basi politiche; e, in effetti, non appena venne messo alla prova, esplosero tutte le incongruenze. Nella nuova, e per alcuni versi inedita situazione di membro della maggioranza di governo, a Pannella interessavano due cose. La prima, di poter realizzare alcuni degli obiettivi politici che nella prima Repubblica erano stati fortemente contrastati e che erano stati laboriosamente perseguiti solo quando si era aperta la via referendaria. E, la seconda, di conquistare per se stesso e, subordinatamente, per alcuni suoi fidati collaboratori, significative posizioni governative e parlamentari da cui poter realizzare la sua politica.
Ma nei sei mesi in cui Berlusconi fu alla testa del governo, entrambi gli obiettivi furono sostanzialmente mancati. All'atto della formazione del gabinetto, venne negato al leader radicale la direzione del ministero degli Esteri, a cui meritatamente aspirava per il lungo impegno europeista e internazionalista, e perfino il dicastero di Grazia e giustizia da cui avrebbe potuto condurre un'efficace azione di riforma degli ordinamenti e di difesa dei diritti individuali. Rimasti completamente fuori dalla compagine governativa, i pannelliani non ottennero dal Polo neppure le presidenze della commissione Esteri di Montecitorio, per la quale concorreva Emma Bonino a cui era stato offerto un sottosegretariato, né quella dei Lavori pubblici del Senato a cui aspirava Sergio Stanzani, un manager radicale in rapporto con la Fininvest e Publitalia per l'emittente romana Teleroma 56. Unico incarico attribuito, tra tanti dinieghi, fu la presidenza della commissione di vigilanza RAI per Marco Taradash, il pannelliano che maggiormente si era contraddistinto nella critica al servizio pubblico radiotelevisivo e nel sostegno alla televisione privata. Più in generale, l'opposizione dei pannelliani non sortì alcun effetto nell’impedire l'elezione di Irene Pivetti alla presidenza della Camera, nonostante le accuse di clericalismo e antisemitismo.
Né maggiore fu l’incidenza sui contenuti della politica del governo di centrodestra rispetto al quale i pannelliani si trovarono molto spesso, apertamente o implicitamente, in disaccordo. Non approvarono il condono edilizio e l'atteggiamento antiambientalista nella legge sulle acque. Criticarono aspramente la politica estera, tiepidamente europeista e federalista, e passivamente attendista per la Jugoslavia, diretta dal ministro liberale Martino, di cui ripetutamente chiesero la rimozione e il trasferimento a un ministero economico. Non riuscirono a influenzare significativamente la politica della giustizia in mano al ministro Biondi che passava da un fallimento all'altro nel tentativo di risolvere Tangentopoli, mentre polemizzarono contro la strategia di occupazione del potere perseguita alla RAI con la nuova lottizzazione del consiglio d'amministrazione. Si trovarono fortemente imbarazzati per la presa di posizione sull'aborto del ministro Guidi in linea con le esternazioni pontificali di Giovanni Paolo. E si contrapposero frontalmente alla ripresa del negoziato consociativo con le parti sociali sulle pensioni e sulla manovra finanziaria, a scapito del risanamento del bilancio e di una rigorosa politica economica a cui pure invitavano prestigiosi economisti quali Franco Modigliani e Paolo Sylos Labini (5).
Nel quadro di una valutazione negativa della maggioranza del 27 marzo che non era riuscita a superare l'inerzia propositiva e a impostare un’incisiva azione innovatrice, l’atteggiamento di Pannella verso Berlusconi rimaneva double face. Da un lato difendeva il presidente del Consiglio mettendo in risalto le difficoltà in cui si dibatteva assediato dai poteri economici, giudiziari e giornalistici in gran parte ostili e. dall'altro, non poteva che mettere continuamente in evidenza le sue insufficienze e la mancanza di iniziative liberali atte a creare una cesura con il passato. Il leader radicale avvertiva sì che l'unica speranza di rinnovamento della Repubblica - riforme istituzionali, risanamento economico e finanziario, sburocratizzazione e departiticizzazione della vita pubblica - poteva venire da un Berlusconi coraggiosamente convertito alla rivoluzione liberale, e capace di mettere il suo personale vigore operativo al servizio delle idee pannelliane, ma contestualmente non poteva esimersi dal criticarlo aspramente e dal polemizzare con il Polo per i suoi limiti e per lo spazio dato ai vari gruppuscoli più interessati ai posti che potevano conquistare con l'alleanza berlusconiana che non alle battaglie liberali.
Dunque, per tutta la durata del governo di centrodestra, Pannella rimase stretto tra la lealtà a quello che considerava un incontro tra due soggetti - se stesso e Berlusconi - e la fedeltà alle proprie idee. Avrebbe voluto, come tante altre volte, sdoppiare e moltiplicare la propria personalità politica senza entrare in contraddizione con se stesso. A un tempo pretendeva di essere il più rigoroso alleato di Berlusconi e il protagonista politico a cui doveva essere riconosciuta la maggiore autonomia, il più coerente sostenitore di un Polo interpretato alla luce di presunte intenzioni originarie, e il più impenitente trasversalista rispetto a tutti gli schieramenti.
Questa sua volontà di onnipresenza politica lo induceva ad altalenare momenti di vicinanza a prese di distanza dalla coalizione berlusconiana. Alle elezioni europee del giugno '94 presentò le proprie liste differenziandosi dal Polo e, un mese dopo, lanciò un appello, firmato congiuntamente da Forza Italia e dal movimento dei Club Pannella-riformatori, rivolto ai cittadini "perché si raccogliessero e mobilitassero per dar vita ad una vera Repubblica, democratica, federale, liberale" (6). La prospettiva di riorganizzazione del proprio gruppo comprendeva sia il rafforzamento dei suoi club, intesi come un fortizio in cui arroccarsi, sia l'ingresso in una Forza Italia trasformata in movimento-partito a carattere federativo intorno al presidente Berlusconi. E quando esplose la crisi del governo, non esitò a propugnare contemporaneamente sia il passaggio di Berlusconi all'opposizione per ricostruire una coerente politica di riforma liberale, che la costituzione di un governo Berlusconi-bis rafforzato e galvanizzato dalla presenza di esponenti riforinatori.
Berlusconismo e pannellismo alla prova dei fatti
Il contraddittorio atteggiamento di Pannella rispetto a Berlusconi perdurò fino alla caduta del governo del Polo nel dicembre '94. Ma che cos'era, al fondo, che rendeva la politica del leader radicale così schizofrenica da fargli usare, di volta in volta, il bastone e la carota, indirizzando su Berlusconi tante aspettative e tali ammonimenti? Una risposta convincente va cercata nella divaricazione tra la realtà del berlusconismo e quel che invece il leader radicale immaginava o, piuttosto, desiderava che fosse. Si è già osservato che era finito accanto al Polo nel fuoco della dinamica elettorale, bel al di là di qualsiasi intenzione originaria, e perciò si era venuto a trovare in quella collocazione più per necessità che per scelta. Per questo le azioni che aveva intrapreso durante l'anno, tendevano tutte a colniare la distanza tra la realtà delle cose e la sua soggettiva volontà: rendere cioè "la politica il regno del possibile contro il probabile", come Pannella stesso amava definire la sua filosofia dell'azione.
Con la nuova maggioranza del 27 marzo Pannella pensava di realizzare quella politica liberale nelle istituzioni, libertaria per i diritti civili e liberista in economia, che aveva sempre proposto alla sinistra ma che era stata costantemente rifiutata. A giudicare dai fatti, però, a Berlusconi difettavano gli stessi presupposti culturali per individuare che cosa, in un paese ingessato come l'Italia, potesse e dovesse davvero significare una simile linea di governo. E quando magari riusciva a individuare quel che si sarebbe dovuto fare, erano i gruppi da lui stesso aggregati intorno a Forza Italia e al Polo a impedire che la sua buona volontà si traducesse in atti politici e di governo. E così, puntualmente, arrivarono le inadempienze e i fallimenti nella giustizia, nell'economia, nell'informazione, e nei rapporti con le forze sociali e i poteri cosiddetti "forti". Per cui, alla resa dei conti, più che il fascino, il carisma e l'influenza di Pannella che faceva leva sul rapporto personale, contavano i condizionamenti dei gruppi che sostanziavano l'alleanza berlusconiana: il doroteismo postdemocristiano, il vecchio consociativismo, il moderatismo accomodante, il clericalismo dei buoni rapporti con le gerarchie ecclesiastiche. lo statalismo dei postfascisti, e tanti altri "ismi" di vecchio e sperimentato valore.
E non era stato certo un caso se Pannella e i riformatori non fossero stati ammessi al governo e non avessero ottenuto significative responsabilità, con la sola eccezione di Emma Bonino, nominata commissario CEE per una sorta di premio alla fedeltà pannelliana, in una posizione di grande prestigio ma di scarsa influenza sulla politica italiana. Erano, tutti i riformatori liberali, troppo disomogenei e dirompenti per il moderatismo, il doroteismo e il populismo che costituivano l'humus di fondo di Forza Italia e del Polo, da poter essere preferiti a quel personale politico che naturalmente rispecchiava le autentiche caratteristiche prevalenti del movimento berlusconiano.
Tali le divaricazioni politiche tra l'homo berlusconianus e l'homo radicalis. Ma v'era qualcosa di diverso e di più per spiegare l'eccentricità a cui fu relegato Pannella. Indipendentemente dalle proclamazioni di Berlusconi in merito al nuovo movimento politico liberale di massa, e indipendentemente dalle intenzioni di Pannella in merito all'organizzazione di una forza politica presidenzialista, tutti e due i personaggi ingannavano loro stessi e gli altri facendo finta di ignorare le realtà che avevano creato a proprio uso e consumo e da cui, consapevoli o no, finivano per essere fortemente condizionati. Dopo due anni dall'entrata in scena, Berlusconi non si era liberato dalla logica del partito-azienda che poggiava su un solo capo indiscusso con tutt'intorno, gerarchicamente, uno stretto cerchio di collaboratori che divenivano decisivi nei momenti cruciali. Questi provenivano tutti - Dell'Utri, Letta, Pilo, Valducci, Del Debbio, Querci - dall'azienda e spesso erano stati suoi vecchi compagni nel clan originario che poteva di volta in volta anche allargarsi a comprendere altri consiglieri e collaboratori - Previti, Dotti, Della Valle, Ferrara, Sgarbi -, i quali però erano, o erano stati, anch'essi, tutti legati in qualche modo alla dimensione aziendale Fininvest e Publitalia. Perciò, nonostante le buone intenzioni di far nascere un partito liberale di massa, Forza Italia restava - e resta - un fenomeno politico basato sulla trasposizione nella dimensione politica di una struttura piramidale-aziendale la quale difficilmente può trovare in sé le risorse per evolvere in un progetto politico che necessita di ben altri tipi di risorse umane, cultura, classe dirigente e tempi d'azione.
Pur nella fondamentale differenza di storie, di interessi e di carature politiche e personali dei due personaggi, la vicenda pannelliana presenta, per altri versi, analogie con quella berlusconiana, soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra un forte capo e un movimento funzionalmente definito. Dopo la dissoluzione del Partito Radicale, Pannella ha plasmato intorno a sé un gruppo rigidamente organizzato di seguaci i quali, al meglio, sono in grado di esercitare funzioni di collaboratori ed esecutori delle direttive del capo carismatico. E le strutture politiche che si è dato - valga per tutte la più importante che è quella mediatica di Radio Radicale - rispondono solo alle sue direttive fortemente personalizzate e minuziosamente controllare. Anche Pannella, nonostante le ripetute dichiarazioni sulla volontà di dar vita a partiti nuovi, a movimenti adeguati al maggioritario, a unioni e leghe capaci di federare elementi di diversa provenienza, è stato - e forse continua a essere - prigioniero di una modalità di far politica che inesorabilmente lo isola, e rende assai problematico qualsiasi dialogo, anche con quanti - uomini e forze - condividono i suoi obiettivi.
Era perciò illusorio ritenere che vi potesse essere una effettiva collaborazione politica o un'integrazione dei rispettivi movimenti, a partire dalle tetragone realtà berlusconiana e pannelliana, così incommensurabilmente diverse ma anche cosi difformemente simili. Le strutture, di cui l'uno e, l'altro si sono circondati, mettendo per un momento da parte contenuti e valori politici, risultavano in ogni caso incompatibili. Non solo perché formate da intendenze molto più fedeli al capo che non interessate alle idee, e molto più addestrate a collaborare subordinatamente che non a esercitare funzioni da classe dirigente, ma anche e soprattutto per il fatto che due leader con un enorme senso dell'ego non avrebbero mai potuto coabitare sotto lo stesso tetto politico e neppure stringere un'alleanza da pari a pari.
Lo stop and go contro i moderati del Polo
La scommessa di Pannella di fare di Berlusconi il veicolo del rinnovamento era già tramontata quando, alla fine del '94, cadde il governo del Polo. Il leader- radicale non aveva significativamente influito sullo spostamento dell'asse governativo come aveva in ogni modo tentato di fare, pur restando fuori dalla stanza dei bottoni. Anzi, l'ultimo e più grave insuccesso era arrivato con l'accordo sulle pensioni dell'autunno-inverno '94 in cui il cedimento ai sindacati assumeva il valore di rinuncia a una rigorosa manovra finanziaria, atta a riportare il bilancio dello Stato entro limiti compatibili con gli impegni europei e internazionali. E, poi, rimaneva il fatto che, salvo occasionali pronunziamenti del tutto teorici e rituali attestati di stima personale, il capo di Forza Italia non aveva voluto o non era riuscito a mutare in nulla la natura dei suo movimento, trasformandolo da partito aziendalista in organizzazione federativa liberale. Anche nella distribuzione delle responsabilità, i riformatori erano stati totalmente tagliati fuori, salvo i casi della Bonino, che rappresentava l'eccezione che conferma la regola, e di Taradash che, però, già al momento della nomina, poteva esser considerato molto vicino al berlusconismo.
In quella situazione la presa di distanza di Pannella dal Cavaliere, che considerava non già come il leader da seguire ma come un alleato a cui far accettare le proprie tesi, era inevitabile. Forza Italia e la coalizione di centrodestra del Polo non erano la sua casa politica: al massimo potevano rappresentare il veicolo utile per condurre alcune battaglie liberali a condizione però che oltre alle dichiarazioni fossero realizzate effettive azioni politiche. Ma a cosa raramente si materializzò, ragion per cui la stessa vicinanza con il movimento berlusconiano, si tramutò inevitabilmente, per Pannella, in conflittualità. Anche la consonanza con questo o quell'esponente del Polo si trasformava facilmente in avversione: concordava, ad esempio, con l'Antonio Martino punta di lancia di proposte liberiste ma lo redarguiva quando in politica estera seguiva un indirizzo isolazionista. Solidarizzava con il "falco" Cesare Previti quando si comportava come il più acceso degli anticonsociativi, ma ne prendeva le distanze allorché fiancheggiava Alleanza Nazionale. Con Giuliano Ferrara c'era non di rado una concordanza sulla base delle comuni posizioni garantiste e liberali che, tuttavia, diveniva dileggio allorché l'esponente ex comunista ed ex craxiano suggeriva al presidente Berlusconi mosse troppo realpolitiche. Al fondo il leader radicale non aveva mai voluto giocare un ruolo stabile nel Polo, sia che si ponesse all'interno del progetto della nuova entità politica, sia che agisse come un alleato esterno.
Il continuo andamento da stop and go tra Pannella e Berlusconi si accentuò con la caduta del governo. Nell'aprile '95, in occasione delle elezioni suppletive in un collegio di Padova, dapprima Pannella patrocinò la candidatura di Giovanni Negri sotto le bandiere del Polo, che di malavoglia accettò l'ex segretario del Partito Radicale rientrato in politica in chiave pannellian-berlusconiana. E subito dopo, con una mossa di tutt'altro segno, presentò le proprie liste alle elezioni regionali rivendicando l'equidistanza da entrambi gli schieramenti, di destra e di sinistra. Doveva, in quel momento, dimostrare la sua indispensabilità per la vittoria dell'alleanza berlusconiana - e infatti contribuì alla sconfitta del Polo in Lazio e Abruzzo -; e doveva esplicitare il dissenso per la scelta di candidature alle presidenze delle regioni di ex democristiani (tra cui Formigoni in Lombardia e Michelini nel Lazio) che nulla avevano a che fare con una politica liberale.
Ma l'indipendenza elettorale di Pannella, che peraltro rientrava nella sua tradizionale impostazione, non gli impedì dopo poco di appoggiare i referendum televisivi su cui si era esageratamente accentuata la frattura tra filoberlusconiani e antiberlusconiani. Lo scontro referendario era del resto il suo terreno preferito dal momento che la scelta netta tra il "si" e il "no" radicalizzava le posizioni, impedendo i negoziati ritenuti l'anticamera della consociazione. Mentre la maggior parte delle forze politiche, inclusi molti gruppi del Polo, avrebbe preferito non giungere al voto dell'eterogeneo pacchetto di referendum, al contrario Pannella li considerava tutti, e non solo i suoi, come un elemento positivo per il gioco democratico. Rivolgendo un appello pubblico alla vigilia del voto del 12 giugno 1995, che spaziava ben oltre il sostegno alle posizioni televisive berlusconiane, proclamava: "La partitocrazia ha sempre detestato, e detesta, i referendum. Ricordatelo: i partiti di sinistra, di destra, di centro non volevano nemmeno i referendum sul loro finanziamento pubblico, sul divorzio, sull'aborto, sulla scelta nucleare, sulla giustizia giusta... Questa volta vi dicono che i referendum sono "troppi". Vorranno dire che sarebbe - per loro davvero troppo che, con i pochi secondi che impieghiamo a fare una crocetta su una scheda, imponessimo loro addirittura nove riforme di libertà e di progresso che il Parlamento partitocratico non vuole, non sa fare, e che non farà mai" (7).
Come sulla questione referendaria, anche quando gli indirizzi dei riformatori convergevano con quelli berlusconiani, le intenzioni politiche sottese, divergevano. Per Berlusconi quei referendum televisivi servivano per difendere i propri interessi prima ancora che dei princìpi; per Pannella qualsiasi iniziativa, e più di tutto i referendum, era utile per aumentare il conflitto con i vecchi partiti senza preoccupazioni per gli equilibri moderati dell'alleanza berlusconiana di cui non si sentiva in alcun modo parte organica.
Per accentuare ancora di più un'immagine indipendente, Pannella, nell'autunno '95, ripropose in prima persona la sua candidatura nelle elezioni suppletive per la Camera di un collegio centrale di Napoli, sfidando non solo il candidato di centrosinistra - che poi risultò eletto - ma anche quello proposto con l'investitura nazionale di Forza Italia, Alleanza Nazionale e CCD. Il significativo risultato da lui ottenuto - il 17 % dei voti -, e soprattutto l'apporto determinante alla sconfitta del candidato ufficiale del Polo (che non superò la soglia del 28% dei voti), contribuirono nell'intento di recuperare un'immagine del leader riformatore, autonomo e distaccato dal berlusconismo. E lo stesso schema di azione si ripeté nei primi mesi del '96 con la candidatura nelle elezioni suppletive del collegio di Trani in Puglia, poi sospese per lo scioglimento delle Camere.
Contro questa linea di indipendenza dal centrodestra, Marco Taradash, Peppino Calderisi ed Elio Vito, deputati pannelliani eletti nel Polo delle Libertà, presero le distanze dai riformatori. Dissentendo dalla politica di Pannella, autonoma dal Polo e fondata sull'estraneità dal centrodestra come dal centrosinistra, i tre parlamentari con sempre maggiore accentuazione si distaccarono dal gruppo pannelliano: prima non accettando l'invito a dimettersi da deputati per accelerare lo scioglimento del Parlamento, poi non approvando le ripetute iniziative dei pacchetti referendari sui tradizionali temi radicali che producevano un effetto dirompente sul centrodestra, infine appoggiando pubblicamente i beriusconian-democristiani alla presidenza delle regioni invece dei candidati pannelliani.
Al fondo era la valutazione sul rapporto con Berlusconi a dividere il gruppo Taradash da Pannella, sebbene, anche in quel dissenso, ultimo di una lunga serie in casa radicale, confluissero anche altre ragioni. Vi era sì in bell'evidenza un disaccordo politico: il leader riteneva fin dall'inizio che quella con Berlusconi dovesse essere un'alleanza alla pari tra soggetti politici diversi e che tale dovesse rimanere, mentre i tre deputati sostenevano che in regime maggioritario, non c'era più spazio per posizioni autonome e che quindi occorresse collocarsi all'interno del Polo e integrarsi completamente in Forza Italia. Ma, accanto a ciò, esplodeva un groviglio di motivi che affondavano le radici anche in questioni personali. Tutti e tre i deputati, pur militando nel movimento dei Club Pannella, avevano maturato un alto tasso di insofferenza per il modo in cui il capo esercitava la sua direzione: Calderisi per un'avversione a lungo covata e repressa per la primazia sulle questioni referendarie; Vito per affrancarsi da una subordinandone personale lungamente subita nella politica napoletana; e Taradash nell'evidente ambizione di capeggiare un proprio gruppo liberale all'ombra del berlusconismo. Inoltre in loro non era ininfluente la convinzione che ormai i giochi in Italia fossero ben delineati con due schieramenti costituiti - destra e sinistra - tra i quali occorresse scegliere senza indugi anche in vista delle personali prospettive elettorali connesse con il maggioritario. Queste le ragioni per cui, nell'estate '95, Taradash e i suoi amici costituirono un autonomo gruppo - la Convenzione per la Riforma liberale - in collegamento con Giuliano Ferrara, che abbracciava una visione della politica come pressione sul leader, e con la partecipazione di un gruppo di prestigiosi intellettuali - Marcello Pera, Lucio Colletti e Saverio Vertone - con l'intenzione di svolgere una funzione di lobby politico-culturale liberale nell'ambito di Forza Italia.
Da parte sua Pannella, dopo l'ultima scissione che lo rendeva più che mai solitario e con una rappresentanza parlamentare ridotta ai minimi termini (8), accentuava l'autonomia della sua iniziativa politica che, anzi, diveniva sempre più conflittuale nei confronti del Polo. Continuava si a sostenere che per dei liberali come lui era stato opportuno giocare la carta Berlusconi ma ormai la riteneva non più idonea a veicolare le riforme di cui il paese aveva bisogno: "Berlusconi è stata l'unica occasione di rovesciare il corso delle cose, una parentesi che temo si stia definitivamente chiudendo. Non sta facendo più il leader, ha paura di esporsi sui nuovi diciotto referendum che abbiamo proposto, propone patti per garantire a chi perde le elezioni la presidenza della Camera: questo non è il sistema dell’alterativa con il quale ha vinto le elezioni ma il gattopardesco sistema dell’alternanza" (9).
Il suo cavallo di battaglia tornavano a essere i referendum in ragione della loro non negoziabilità dai partiti. Una prima volta nell'aprile e una seconda nel giugno '95 ne lanciava diciotto in una specie di compendio dei tradizionali temi radicali: aborto, droga, riforma elettorale uninominalistica, giustizia giusta, antimilitarismo, anticorporativismo e antiassistenzialismo. "Noi tentiamo - era scritto nella dichiarazione di intenti - di conquistare al nostro paese un nuovo grande appuntamento democratico con un poderoso progetto complessivo di riforma storica delle istituzioni e del mercato contro una politica tornata ad essere parolaia e inconcludente" (10). E la disobbedienza civile che accompagnò a più riprese la richiesta di legalizzazione delle droghe leggere suggellava il recupero di uno stile difficilmente compatibile con il moderatismo dei berlusconiani. Ancora una volta il leader radicale alternava e intrecciava la pressione personale come arma per influire sulla politica del Palazzo con l'azione esterna a ogni regola degli establishments di sinistra, del centro e di destra.
La ripresa dell'uso della leva referendaria costituiva in un certo senso un ritorno alle origini della politica radicale esterna e conflittuale con tutti gli schieramenti costituiti. E in quel contesto di artificiosa polarizzazione tra una destra e una sinistra del tutto particolari, il pacchetto referendario diveniva dirompente per la quantità dei quesiti e la natura dei contenuti che esplicitamente significavano una dichiarazione di indipendenza dall'intesa con i berlusconiani nonché la via per individuare nuovi interlocutori. Al fondo di quella nuova stagione referendaria c'era ancora una volta il tentativo di formare un movimento, al di fuori della destra del Polo e della sinistra dell'Ulivo, imperniato sul modulo di specifiche campagne temporanee da inquadrare eventualmente in qualcosa che Pannella di volta in volta chiamava Unione federalista dei riformatori, Tavolo dei Liberali, Partito americano o con altre etichette ancora.
Questo progetto referendario nel corso del '95 era tutt'altro che facile a realizzarsi. Infatti, fallita una prima e una seconda raccolta di firme, solo un terzo tentativo iniziato nell'ottobre '95 poteva arrivare a compimento nel gennaio '96 con il deposito di circa undici milioni di firme riguardanti ben venti quesiti referendari, essendosi aggiunti ai diciotto originari anche quelli per l'abrogazione del Pubblico registro automobilistico e del sostituto d'imposta.
L'irruente iniziativa pannelliana si muoveva decisamente in controtendenza rispetto alla situazione politica sempre più stagnante. Il governo Dini cosiddetto "tecnico", in realtà sotto la tutela del presidente della Repubblica Scalfaro, la tirava per le lunghe nella volontà di non dimettersi come promesso, giocando sulle esitazioni del Polo e dell'Ulivo, schieramenti entrambi esitanti nell'affrontare una prova elettorale dall’incerto risultato. In questo clima di sospensione della politica e di stravolgimento delle stesse regole istituzionali, la strategia referendaria aveva ben gioco a presentarsi come l'unico fattore di movimento e di attivazione del processo democratico riferito alla sovranità popolare con l'intento di chiamare gli elettori a decidere su nuove leggi e riforme di annosi nodi irrisolti.
Il digiuno come simbolo
Prima di concludere positivamente il terzo tentativo referendario, le campagne pannelliane avevano incontrato due successivi insuccessi. Perché tante e tali difficoltà nella raccolta delle firme? Le ragioni andavano ricercate negli stessi presupposti dell'iniziativa referendaria: la presa di distanza di Pannella dal Polo berlusconiano, la ricerca dell'autonomia da entrambi gli schieramenti,- la proposizione di temi ostici sia alla destra che alla sinistra e cari solo alle minoranze liberali, e l'introduzione di elementi destabilizzanti degli equilibri politici. Sulla base di queste premesse che ne facevano un fattore di disequilibrio, e inizialmente senza l’aiuto dei media e il sostegno degli apparati berlusconiani, era ovvio che non fosse facile raccogliere le firme richieste. Del resto la moltitudine dei temi proposti (prima diciotto e poi venti quesiti referendari) poteva apparire un'esagerazione priva di un riconoscibile centro d'interesse, quindi incapace di suscitare un'ondata emotiva come era avvenuto in passato con particolari proposte forti, quali il divorzio e la riforma elettorale, il nucleare e il finanziamento ai partiti.
In effetti i pacchetti referendari, presentati in una stagione in cui entrambi i poli andavano logorandosi, non costituivano tanto la sommatoria di importanti temi su cui chiamare gli elettori a scegliere direttamente, quanto la trama di un programma politico generale caratterizzante la presenza di Pannella sulla scena italiana, in difformità e in contrapposizione sia al centrodestra di Berlusconi e Fini che al centrosinistra di D'Alema e Prodi, oltre che alla nebulosa centrista. Quell'insieme di proposte referendarie si configurava come il progetto di un leader solitario e minoritario che non era riuscito a liberalizzare lo schieramento berlusconiano dopo aver mancato il dialogo con il centrosinistra, e che era alla ricerca di un consenso di massa per porre i propri temi al centro della politica italiana. In un appello ai cittadini per raccogliere le firme, nel dicembre '95, così veniva specificato l'obiettivo della strategia referendaria: "Con un Parlamento paralizzato dalle beghe, con quaranta partiti litigiosi e inconcludenti, il referendum è oggi il solo strumento che ci è rimasto per costringere Parlamento e partiti a fare le riforme, davvero. I comitati dei referendum ti propongono la "riforma americana' della politica, la riforma liberista dell'economia, la riforma liberale e democratica della giustizia e poi ancora i diritti civili, con aborto, droghe leggere, obiezione di coscienza, caccia e ordine dei giornalisti" (11).
Quest'intenzione di coagulare gli elementi liberali eterodossi, provenienti sia dalla destra che dalla sinistra, traspariva dalla natura dell'eterogeneo, e in un certo senso contraddittorio, elenco dei referendum prescelti (12) il cui effetto complessivo finiva piuttosto per essere lo scompaginamento delle alleanze esistenti che non l'aggregazione di nuovi schieramenti. I quesiti di carattere libertario - droga e aborto - non piacevano ai moderati e alla destra, mentre quelli liberisti, antiburocratici e sulla giustizia trovavano ostile la sinistra tradizionale, e i referendum elettorali per l'introduzione del maggioritario integrale approfondivano il conflitto tra gli innovatosi istituzionali e i conservatori partitici. Nell'insieme, quindi, il puzzle dei temi immessi sulla scena politica, più che creare nuove alleanze, aveva finito per determinare una diffusa atmosfera di diffidenza antireferendaria che contribuì non poco a che le campagne in un primo tempo non andassero a buon fine.
Contro il silenzio sui referendum che, secondo una valutazione, era stato determinante nel far fallire per due volte successive la raccolta delle firme, Pannella condusse, nel settembre-ottobre '95, prima uno sciopero della fame e quindi uno sciopero della sete che mise in pericolo la sua stessa integrità fisica. Quell'azione nonviolenta, altamente drammatizzata, ebbe l'effetto di suscitare, con alcune apparizioni televisive, una profonda emozione nella pubblica opinione senza tuttavia riuscire a provocare un intervento risolutivo del capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, chiamato direttamente in causa perché prendesse posizione in merito alla carenza di informazione sulle 'iniziative referendarie. In tal senso la richiesta rivolta al presidente della Repubblica era di pronunziare una "parola di verità per sanare la ferita inferta alla conoscenza, quindi alla legalità". Pannella era convinto che esistesse un largo potenziale popolare disponibile ad appoggiare le sue iniziative, purché fosse fornita un'adeguata informazione. Il presidente della Repubblica, supremo garante della Costituzione, a suo avviso aveva il dovere di intervenire per ristabilire un elementare diritto "turbato dal gravissimo e illegittimo ostruzionismo da parte della pubblica amministrazione e del servizio pubblico radiotelevisivo"", come proclamava l'appello sottoscritto da circa cinquecento parlamentari di tutte le estrazioni politiche, a prescindere dall'adesione ai contenuti referendari.
In quell'estremo digiuno, ultimo di una lunga serie (14) si compendiano simbolicamente molti dei topoi del pannellismo. Che cosa è stato, del resto, più consono al modo di far politica di Pannella dello sciopero della fame e della sete, con cui si esalta fino al parossismo il potenziale individuale, senza la mediazione di qualsivoglia organismo, e viene direttamente espressa in politica la dimensione esistenziale sottratta alla sfera privata?
Con il digiuno, atto a un tempo intensissimo, rigorosissimo e spettacolare se amplificato dai media, è possibile trasmettere con la massima forza un messaggio che, nel, caso del lamentato deficit dell'informazione, può ottenere dei forti effetti compensativi. In tale circostanza l'azione nonviolenta rappresenta il mezzo che si identifica con il messaggio e che ristabilisce il circuito virtuoso tra politica e comunicazione, specialmente quando si fa veicolo di contenuti non altrimenti comunicabili per la carenza di strutture apposite. La parola. acquisisce una grande forza comunicativa se è sorretta dalla coscienza e dalla convinzione che animano un digiuno, e stabilisce un rapporto diretto tra leader e massa, tra determinazione individuale e consenso diffuso. Non a caso allora Marco Pannella ha potuto sostenere che: "se gli italiani sapessero quello che io propongo, venti milioni verrebbero a firmare perché sono d'accordo con le mie proposte" (15).
La politica pannelliana non si è mai avvalsa di un'organizzazione stabile del consenso e di una strategia definita delle alleanze, ma si è sempre alimentata di specifiche campagne condotte da un manipolo di fedeli in possesso di un buon know how tecnico e dell'amplificazione affidata al sostegno di personalità esterne. Perciò la drammatizzazione insita nel digiuno, soprattutto quando passa attraverso l'immagine fisicamente visibile in un personaggio come Pannella, provoca complessi di colpa e induce solidarietà in quei politici abituati a utilizzare la cosa pubblica a proprio vantaggio e quindi a cogliere, quasi si trattasse di una riparazione, il valore di un atteggiamento cosi fuori dalla norma. Con la politica della nonviolenza Pannella si è costantemente proposto di instaurare un dialogo anche con gli individui più lontani e meno disponibili, partendo dal presupposto che non esistono demoni da abbattere ma solo persone da aiutare a trovare in se stesse quella parte positiva che corrisponde alle buone cause del nonviolento. Non deve perciò meravigliare che, anche in quest'ultimo episodio, qualche centinaio di parlamentari d'ogni partito - e fra essi alcuni fortemente ostili - abbiano sostenuto il leader radicale, come già era accaduto altre volte. Se nella melmosa fase postberlusconiana Pannella si riprometteva di costruire intorno a sé un raggruppamento eterogeneo e occasionale di singoli individui prescindendo dalle loro appartenenze, il dialogo intessuto con il digiuno - tenendo ben distinta la rivendicazione di un diritto dal perseguimento di un obiettivo - ha conseguito un certo effetto, pur se limitato nel tempo ed effimero nel valore politico di fondo.
Non va dimenticato che nella cultura italiana la nonviolenza, e in particolare il digiuno, ha rappresentato un'arena estranea alla politica tradizionale. Perciò la sua pratica non è mai stata agevole e tutte le volte che il leader radicale vi ha fatto ricorso ha dovuto fare i conti con un duplice atteggiamento: l'essere, per un verso, considerato un eccentrico da ignorare poiché fuori dalle regole del gioco politico e, per un altro, il venir tributato di un riconoscimento per il ruolo speciale assolto in un contesto così povero di azioni nobili e di persone moralmente integre. Così, nella stagione postpartitocratica, di fronte a una pletora di manovrieri tattici e di manager aziendali divenuti capipartito, e nel vuoto politico colmato da personaggi abituati al piccolo cabotaggio, Pannella si è sentito un leader disconosciuto. essendo oltre tutto il solo individuo capace di far ricorso, disarmato ma convintissimo delle proprie determinazioni, a prove nonviolente da nessun altro affrontate e affrontabili con lo stesso vigore. Perciò l'adesione alla nonviolenza come tratto distintivo della sua forte personalità politica, ha per lui costituito un ulteriore motivo per esigere un riconoscimento da leader nazionale, almeno nella stessa misura dei capi degli schieramenti di destra e di sinistra e dei maggiori responsabili istituzionali. La convinzione della superiorità e della straordinarietà dei suoi atti, in particolare di quelli tesi a conquistare con la nonviolenza il rispetto della legalità e del diritto in politica, ha portato Pannella in quell'occasione, come in altre simili precedenti, a ritenere di poter legittimamente richiedere spazi e tempi dei mass media per le sue iniziative referendarie, allo stesso modo di quello di cui potevano disporre altre "vedette" per più tradizionali progetti politici.
Ma, nel decifrare le complesse ragioni che muovono il digiunatore Pannella, non se ne può ignorare una accessoria, ma non per questo trascurabile, relativa al nesso tra la visibilità dei digiuni e la ricerca della popolarità: un problema che è divenuto per lui politicamente e personalmente assillante da quando ha inteso ridurre l'intero movimento per il liberalismo radicale all'iniziativa della sua persona. Lo sciopero della fame, e tanto più lo sciopero della sete se condotto all'estremo, può divenire un potentissimo strumento che veicola qualcosa di molto simile a una concezione parareligiosa della politica e quindi suscita, insieme ad ammirazione e solidarietà, anche popolarità. Quel successo che Pannella non riesce a conquistare con l'agitazione di contenuti liberali, può invece essere perseguito in breve tempo, pur se con una straordinaria e talvolta drammatica tensione personale, attraverso il digiuno che sommuove emozioni oltre che ragionamenti, sentimenti più che idee.
In quest'ambito, accentuandone al massimo il carattere di esemplare sfida nonviolenta, Pannella ha indirizzato il suo ultimo digiuno a quell'interlocutore Scalfaro che lui stesso aveva lanciato nella corsa al Quirinale e poi vigorosamente sostenuto come "il Pertini: cattolico". La sua iniziativa nei confronti del presidente della Repubblica, che all'inizio doveva essere un confronto ma che con il tempo diveniva uno scontro sempre più aspro, era finalizzata al riconoscimento del valore generale, in un certo senso "costituzionale", della sua azione, in una partita immaginata alla pari tra chi si considerava un autentico leader nazionale e chi per l'altissima responsabilità impersonava la stessa legalità repubblicana.
E’ così accaduto che, quando il presidente della Repubblica non solo non ha raccolto la sfida sul terreno del diritto ma al contrario ha moltiplicato gli interventi nella lotta politica quotidiana deviando dal ruolo super partes previsto dalla Costituzione. Pannella si è trasformato nel suo massimo accusatore. Si è fatto promotore di una raccolta di firme popolari per chiederne le dimissioni e la messa sotto accusa, con una petizione che ha ottenuto un notevole successo malgrado il valore esclusivamente indicativo e non vincolante.
Il passaggio dal dialogo nonviolento all'aspra campagna di attacco contro il.capo dello Stato, portata nelle piazze con il sostegno del direttore de "Il Giornale" Vittorio Feltri, personaggio anch'esso eretico nel giornalismo italiano, costituisce un'ulteriore conferma che, anche dopo la grande crisi del regime dei partiti, Pannella rimane un "uomo contro", ai margini del rinnovato sistema politico.
Note
(1) Sondaggio di "Panorama", luglio 1993.
(2) Alle elezioni comunali del novembre '93 la Lista Pannella ottenne 45.082 voti (3,5%) e tre eletti grazie all'apparentamento con d candidato Rutelli risultato eletto sindaco.
(3) Con d Polo delle Libertà furono eletti, alla Camera, Emma Bonino, Peppino Calderisi, Lorenzo Strik Lievers, Paolo Vigevano e Elio Vito; al Senato, Sergio Stanzani. Con il solo emblema Pannella-riformatori fu eletta al Senato-Lombardia Francesca Scopelliti, già compagna di Enzo Tortora.
(4) Nel collegio di Roma-Prati ottennero voti: per d Polo, Gianfranco Fini, 49.476 (50,09%), per i progressisti, Eduardo Missoni, 29.076 (29,44%), per il Patto, Costanza Pera, 10.332 (10,46%), e Marco Pannella, 6.592 (6,67%).
(5) Club Pannella organizzarono nel dicembre '94 l'adesione all'appello promosso da Franco Modighani, Paolo Sylos Labini, Mario Baldassarri, Romano Prodi e Franco Debenedetti contro il rinvio di una rigorosa manovra finanziaria sulle pensioni.
(6) L’appello Forza Italia-Pannella venne firmato, tra gli altri, da Lucio Colletti, Marcello Pera e Saverio Vertone.
(7) Memorandum referendum: nove sì, tre no, pubblicità elettorale dei Club Pannella-riformatori, apparsa sui maggiori quotidiani italiani d 6 giugno 1995.
(8) Rimanevano "fedeli a Pannella solo i deputati Paolo Vigevano, Lorenzo Strik Lievers e il senatore Sergio Stanzani.
(9) Intervista di Francesco Verderami, "Corriere della Sera", 14 agosto 1995.
(10) Vi spieghiamo i famigerati 18 referendum..., pagina pubblicitaria apparsa sui maggiori quotidiani nazionali d 4 agosto 1995.
(11) AAA cercansi 500.000 fondatori della seconda Repubblica, annuncio pubblicitario a cura dei comitati promotori dei referendum, pubblicato in "La Repubblica", 4 dicembre 1995.
(12) Ecco i 18 referendum: 1) legge elettorale della Camera; 2) legislazione delle droghe leggere; 3) riforma del Consiglio superiore della magistratura; 4) abolizione del monopolio ENEL; 5) abolizione del golden share (il diritto dell'azionista pubblico in un'azienda privatizzata di mantenere i poteri del socio di maggioranza); 6) smilitarizzazione della Guardia di finanza; 7) patti in deroga; 8) obiezione di coscienza dei medici; 9) nuova disciplina per la caccia; 10) separazione delle carriere per i magistrati; 11) responsabilità civile dei magistrati; 12) pubblicità RAI; 13) abolizione dei monopolio dell'aborto nelle strutture pubbliche; 14) legge elettorale dei Senato; 15) abolizione dell'Ordine dei giornalisti; 16) servizio sanitario nazionale; 17) abolizione del maestro multiplo alle elementari; 18) divieto per i magistrati di assumere altri incarichi; a cui se ne aggiunsero altri due (abolizione del Pubblico registro automobilistico, abolizione del sostituto d'imposta) nella raccolta delle firme dell'autunno-inverno '95.
(13) Appello dei parlamentari al presidente della Repubblica, ottobre '95.
(14) Pannella ha condotto numerosissimi scioperi della fame e della sete, tra cui si richiamano qui solo alcuni particolarmente drammatici: '71, per l'approvazione della legge sul divorzio; '74 durante le giornate contro la violenza; '81 contro lo sterminio per fame nel mondo; e, ancora nell'82, contro la disinformazione sullo sterminio per fame.
(15) Paolo Guzzanti, Riparto con 20 referendum. Rischio la vita, ma per non morire, "La Stampa", 30 settembre 1995.
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