Ocean Terminal non è il toponimo di una fermata della Metropolitana, è il titolo di un romanzo autobiografico; titolo strano che unisce il luogo dell’acqua, per antonomasia, l’Oceano, con il non-luogo dell’aria, il Terminal, l’aeroporto.

Un titolo che accoppia con immediatezza significati letterali, riferimenti reali: mare e cielo, acqua e aria, navigare e volare, ma che rimanda anche a significati simbolici: nascita e morte, corpo e anima, alba e tramonto, rinnovamento e decadimento.

La nascita dal mare, dalle acque, simbolo mitologico e cristiano, accostata all’aria, al cielo, luogo simbolico del post-mortem dell’iconografia cattolica.

Ocean Terminal ci richiama,
Dante nel primo canto della Divina Commedia :
…”uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata”…
e l’Ulisse dantesco del XXVI esimo canto:
…”e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo”…

Il titolo ed il libro possono essere letti con una schematizzazione alchemica: il passato di Piergiorgio legato agli elementi della terra e del fuoco, il presente all’acqua ed all’aria. L’acqua, i liquidi che lo nutrono, e l’aria della ventilazione forzata che porta ossigeno ai suoi polmoni. L’aria è anche il soffitto, il cielo che quotidianamente vede sopra il suo letto di degenza.

Il riferimento pittorico, mentre gli occhi sono rivolti al soffitto è il Giovambattista Tiepolo dell’Allegria nuziale a Ca’ Rezzonico o il Mantenga della Camera degli Sposi a Mantova. L’immagine, il simbolo pittorico, che lo scruta, veglia sulla sua dinamica vita interiore ancorché, fisicamente immobile.
Il libro è elaborato con un suntuoso, ridondante linguaggio barocco, se fosse un dipinto lo collocheremmo tra il rinascimento e lo stile rococò.

Tuttavia potremmo anche ipotizzare che Welby abbia voluto denotare il suo libro come un non-luogo, uno spazio di transito dei suoi ricordi che si affollano, si urtano ma non entrano in contatto tra di loro, vanno e vengono come passeggeri in un terminal o in una stazione della propria vita, la sua personalissima metropolitana. Marc Augè ci aiuta a capire Welby. Piergiorgio ha voluto contrapporre lo spazio reale, identitario e relazionale, il luogo antropologico in cui vive ed ha relazioni con le persone che lo assistono, a questa fermata della sua metropolitana personale, il non-luogo dei suoi ricordi, il passato visto al macroscopio (microscopio + telescopio) e analizzato col bisturi della penna.

Welby lega immagini come vele per navigare sull’oceano delle sue memorie.

Tutto il libro ruota intorno alla ricerca del senso della vita, della fortuna e della sorte.
“Chi vuole cavarsela, ha bisogno di fortuna.
Senza fortuna nessuno si salva dal gelo,
dalla fame o anche dagli uomini.
Fortuna è solidarietà.”… (Brecht)

Welby ci racconta la sua costruzione di una personalissima leva, per sollevare la realtà (la resistenza): ha usato il corpo come fulcro e la coscienza del sé come potenza. Ci racconta del suo agire tra una concretezza tutta terrigna, solidamente in piedi ed il fuoco della sua smisurata vitalità intellettuale. Esibisce, con precisione quasi ossessiva, tutto il suo impegno nel cercare sesso per vivere non per far vivere. Sembra alla ricerca di una cifra vitalistica attraverso tutte le possibilità del corpo che lo avvalori fin nel profondo, fino ai liquidi che scorrono nei capillari e nei dotti deferenti. Il lettore coglie tutta la forza di questa sua ricerca tesa a confermare la sacralità del suo corpo, una sacralità laica, materiale. Questa potenza vitale promana dai neuroni, che registrano il furore di cervello, ora, il furore del corpo, allora, prima della forzata riduzione a letto.

La natura al tempo della tecnologia. Che cosa è naturale nella realtà che viviamo con protesi meccaniche, chimiche, fisiche, elettriche ed elettroniche, sempre pronte a prolungare le nostre possibilità, i nostri arti ed anche lo spazio temporale che ci è dato, lo spazio della vita ? Siamo in grado di separare gli ausili dalla nostra corporeità “cosiddetta” naturale? Per esempio, le pillole che assume un diabetico (tipo 2) per compensare la sua patologia ( la metformina ) modificano le reazioni biochimiche del suo corpo e gli permettono di vivere poiché agiscono proficuamente sul metabolismo degli zuccheri. La metformina non cresce sugli alberi: occorre produrla industrialmente, eppure è lo strumento chimico che rende il più “naturale” possibile la sua vita. La medicina riesce a bloccare, in molte patologie, i processi degenerativi ed a procrastinare, nel tempo, gli esiti infausti che altrimenti ne conseguirebbero, ma la natura deve avere, nella nostra quotidianità, una lettura nuova e conseguente alle estensioni tecnologiche che abbiamo introdotte e delle quali l’abbiamo arricchita.

Quando, per motivi vari, si verificasse la rottura della sinergia, che instauriamo in ciascuno di noi, tra corpo e coscienza, allora e solo allora, assisteremmo alla vanificazione di quella leva che prima citavo: non solleveremmo più alcuna cosa e tanto meno il mondo, almeno fisicamente. Saremmo nella condizione di avere il corpo senza coscienza del sé o la coscienza senza controllo del corpo: in queste situazioni potrebbe scattare l’accanimento terapeutico, un accanimento della medicina nell’uso di strumenti che invece di attivare situazioni di rispetto per la persona sarebbero in grado di creare artificiose (o addirittura ideologiche) “innaturalità”. Perché ciò non avvenga, a dispetto della volontà del singolo e/o della collettività, e perché esistano tutele normative della volontà personale sull’accanimento terapeutico, Piergiorgio Welby si è molto impegnato sollecitando la promulgazione di apposite leggi e riconoscimenti di norme già esistenti. Il libro non racconta tutto questo, ma urla, per chi ha orecchie per intendere, le ragioni di una persona semplicemente desiderosa di veder esaudita, rispettata, la sua volontà: la rinuncia a quelle artificiali estensioni per realizzare una serena naturale conclusione della propria vicenda umana, scendere dal treno alla fermata Ocean Terminal !

a Piergiorgio Welby testimone di una nuova alleanza tra natura e cultura

in principio l’uomo prese coscienza
di sé e del suo corpo vide il cosmo
fuori di sé fece leva sulle membra
per conoscere e cambiare il mondo
la natura guardò con penna-bisturi
e classificò terra acqua fuoco aria
seppe che tutto ovunque è materia
ordinata organizzata volle variarla

l’evoluzione della materia ha sviluppato
livelli di coscienza sempre più allargati
aggregazioni ampie mondiali universali
la specie umana ha curato salvaguardie
al singolo alla comunità non ha svelato
né il male né l’esito finale siamo orfani
del senso della vita eppure siamo certi
della sua bellezza infinita in ogni modo

quando si rompe l’alleanza tra corpo
e coscienza che senso ha un’accanita
sopravvivenza? la sacralità dell’uomo
chiede solo indulgenza alla medicina
agguerrita senza alcuna compassione
pietà per la fine della vita senza fine

Giorgio Bagnobianchi

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