Di Massimo Teodori
La svolta e la fine del proporzionalismo
Nel richiamare i tre fattori della svolta, non intendo qui semplificare oltre misura un fenomeno di portata storica come il tramonto di un regime politico a cui hanno certamente contribuito cause più complesse e che ha le sue radici lontane nel tempo. Ma nel momento culminante del suo declino collocabile tra la caduta del Muro ('89) e la vittoria elettorale dell'homo novus berlusconianus ('94) - è indubbio che sia stata la triade referendum-Lega-Mani Pulite a imprimere le spinte decisive al collasso della Repubblica. Senza di esse, e senza la loro interazione nel corso di un quinquennio, probabilmente l'effetto del logoramento politico e istituzionale della Repubblica non sarebbe stato così precipitoso e non avrebbe portato a una svolta così repentina. Del resto, per almeno un decennio, e nonostante tutte le previsioni, la Repubblica era sopravvissuta a governi deboli e a ripetitive formule politiche raffazzonate all'insegna della governabilità nonostante il distacco dei cittadini dalle istituzioni, l'aggravarsi del malfunzionamento dello Stato e l'insopportabile invadenza dei partiti.
Che i radicali con Pannella siano stati tra i protagonisti della svolta della Repubblica che ha portato alla fine della partitocrazia, non è contestabile. Ovviamente non per quel che riguarda l'effetto Lega, bensì per gli altri due fattori - i referendum e Mani Pulite - che hanno provocato il crollo integrandosi e rafforzandosi a vicenda. Se infatti, da un lato, le prove referendarie sono andate creando le condizioni ambientali perché si potesse sviluppare l'azione energica della magistratura, dall'altro il pool di Milano delegittimava la classe politica che non era più in grado di difendere a oltranza quel proporzionalismo che era stato funzionale alla sua autoperpetuazione.
I referendum del '91 e del '93, che sono risultati risolutivi, furono solo i terminali della campagna contro il sistema proporzionale che da tempo i radicali - non da soli ma in prima fila - andavano conducendo. Questi erano profondamente convinti che il sistema politico non si sarebbe sbloccato se non si fosse messo mano alla riforma elettorale, e attraverso essa, si fossero depotenziati i partiti e si fosse facilitato il passaggio da un frammentato pluripartitismo a un bipartitismo polarizzato. La riforma elettorale antiproporzionalista era divenuta, per i radicali, una specie di "madre di tutte le riforme" che compendiava e concludeva oltre alla lotta contro la partitocrazia, anche quella contro la corruzione e contro il consociativismo responsabile della dilatazione della spesa pubblica. Non va dimenticato che, fin da quando all'inizio degli anni ottanta si era cominciato a discutere di riforme costituzionali e istituzionali, Pannella era divenuto l'alfiere del maggioritario-uninominale "secco", all'inglese o all'americana, cioè a un solo turno. In lui, quell'inclinazione non discendeva da preferenze teoriche perché, anzi, la tradizione democratica italiana a cui i radicali si collegavano, era stata nel prefascismo proporzionalista, e anche nel dopoguerra le forze laiche si erano espresse nella stessa direzione, se non altro per ragioni di sopravvivenza. Derivava piuttosto dalla necessità pratico-politica di tagliare l'erba sotto i piedi ai partiti i cui abusi da tempo erano nel mirino dei radicali.
Dopo Luigi Einaudi negli anni quaranta e don Luigi Sturzo alla fine dei cinquanta, erano state poche, e tutte marginali, le personalità che in Italia avevano auspicato l'abbandono della proporzionale e il ritorno al sistema elettorale maggioritario nell'Italietta liberale ante-1919: Giuseppe Maranini, inascoltato precursore della polemica antipartitocratica e, dopo di lui, alcuni rari e isolati politici e studiosi sostenitori di una "nuova Repubblica" 'presidenzialista e maggioritaria, subito bollati come pericolosi reazionari (1). Anche quando Pannella rilanciò quella posizione, venne subito definito come un epigono di una destra non solo contraria alle degenerazioni partitocratiche ma anche ostile agli stessi partiti di massa, considerati l'essenza della democrazia moderna.
La necessità e urgenza della riforma elettorale come leva per rivoltare l'assetto ingessato dei partiti venne avanzata da Pannella--fin dall'84 nella "Commissione parlamentare Bozzi" per le riforme istituzionali che, dopo due anni, si impantanava senza approdare ad alcuna proposta operativa. Da allora il leader radicale intensificò l'agitazione nell'opinione pubblica e la proposizione in Parlamento della riforma elettorale maggioritaria, iniziando nefl'86 con la Lega per l'uninominale che raccolse l'adesione di qualche centinaio di parlamentari, in prevalenza socialisti e democristiani incluso Mario Segni. Segui nell'87, all'apertura della decima legislatura, la presentazione di una proposta di legge sulla "riforma uninominale del sistema elettorale" (2) che immetteva nelle istituzioni un progetto dello stesso tipo. E, dopo un periodo di divaricazione tra i radicali e il gruppo di Mario Segni, appoggiato da "Il Giornale" di Indro Montanelli e Federico Orlando, dovuta sia a ragioni di concorrenza nella leadership che al contrasto su turno unico o doppio, di nuovo i due principali gruppi favorevoli al maggioritario uninominale si trovarono insieme nel momento in cui fu individuato l'opportuno dispositivo referendario per passare dalla teoria alla pratica della battaglia antiproporzionalistica.
Così, quando nel febbraio del '90 un variegato drappello di personalità mise in moto le procedure per attivare tre referendum elettorali - trasformazione della legge del Senato da proporzionale a maggioritaria, introduzione del maggioritario nei comuni, e abolizione delle preferenze multiple -, di esso facevano parte esponenti di diversi schieramenti: democristiani, radicali, verdi, indipendenti di sinistra, liberali,, repubblicani, fucini e aclisti, intellettuali, giuristi e imprenditori (3).
Ma all'interno della coalizione referendaria, il ruolo dei radicali diveniva decisivo in quanto erano stati l'unica minoranza che aveva affinato fin dagli anni settanta la cultura e la pratica dello strumento ' costituzionale che consentiva il ricorso al voto popolare diretto, considerato fattore di destabilizzazione dai maggiori partiti tradizionali.
Con i referendum entrava nella fase definitiva la liquidazione del proporzionalismo con cui veniva smantellata la vecchia politica che aveva retto la Repubblica per mezzo secolo. In particolare era decisiva la riforma elettorale del Senato che era stata originariamente messa a punto dal professor Serio Galeotti ma immediatamente adottata dai pannelliani, ben lieti di passare dal dibattito, non consono alla loro indole, a uno strumento decisionale che tagliava fuori gli equilibrismi parlamentari. A proposito, è significativo quel che agli albori del movimento referendario ha scritto Mario Segni che allora era, al tempo stesso, co-partner e antagonista del leader radicale: "Marco Pannella è dotato di una intelligenza straordinaria. Le sue analisi non sono mai banali. Riesce a cogliere in ogni momento spunti e aspetti che sfuggono a chiunque altro, e a volte avverte con largo anticipo le spinte di fondo della società italiana. Le sue iniziative non sono mai scontate né prevedibili; in molte di esse riversa un pizzico di genialità. Ha il gusto dei grandi temi, il coraggio delle grandi sfide... Tutto questo ne ha fatto un eccezionale protagonista della nostra epoca. A queste doti, purtroppo Pannella unisce una serie di difetti altrettanto straordinari. Anche se non lo confesserà mai, ha una profonda intolleranza culturale. Non ammette correzioni o modifiche, pretende che i suoi progetti vengano accettati in blocco. Considera spesso un dissenso politico come un'offesa personale ... " (4).
Ma, dopo il successo del primo referendum elettorale sulla preferenza unica del '91, la prova che ha dato il colpo di grazia nell'aprile '93 alla proporzionale instaurando parzialmente il maggioritario, non è arrivata senza resistenze. Nel richiamare le diverse fasi di quella che ad oggi rimane l'unica, e incompiuta, trasformazione istituzionale della Repubblica, si colgono quante difficoltà si sono dovute superare e quante azioni politiche sono state necessarie per arrivare al traguardo. Primo: gennaio '90, parte la richiesta di tre referendum elettorali.
Secondo: si raccolgono le cinquecentomila firme.
Terzo: la Corte Costituzionale fa decadere i due referendum più importanti ammettendo solo quello sulla preferenza unica. Quarto: aprile '91, si svolge il solo referendum sulla preferenza unica con una schiacciante vittoria dei "sì". Quinto: sono delineate le condizioni legislative per la riproposizione del referendum sul maggioritario. Sesto: autunno-inverno '92-93, è riproposto il referendum elettorale sul maggioritario con nuova raccolta delle firme. Settimo: falliscono i tentativi parlamentari di eliminare i referendum con accordi legislativi. Ottavo: giugno '93, si tiene il referendum sul Senato con il trionfo del maggioritario. Nono: viene approvata in Parlamento la nuova legge elettorale - Mattarellum - per il 75 % maggioritaria e il 25 % proporzionale.
E l'analisi dei fatti a mettere in evidenza che in tutti i vari passaggi il contributo dei radicali sia stato risolutivo per superare gli ostacoli frapposti al processo riformatore. Certo, la storia non si fa con i "se": e anche nel nostro caso nessuno può asserire che la riforma elettorale, cosi carica di conseguenze per l'intera politica italiana, non vi sarebbe stata o sarebbe stata di altro tipo senza l'impegno di Pannella nei referendum. E' però corretto ricordare che, senza l'ostinazione dei radicali nel perseguire la strategia referendaria per la riforma maggioritaria, il corso degli eventi sarebbe stato sicuramente diverso.
Lo provano alcune considerazioni. In assenza dei radicali non sarebbero state raccolte le firme necessarie per raggiungere il quorum sul. primo pacchetto referendario ('90-91), quando ancora l'iniziativa era minoritaria e in tanti non erano saliti sul bandwagon dei vincitori. Lo stesso referendum del '93, a cui si deve il colpo finale alla proporzionale, non sarebbe stato richiesto senza l'intervento dei radicali, inappagati dal referendum sulla preferenza unica, e senza la pressione di Pannella sulla Corte Costituzionale per farlo ammettere difformemente dalle precedenti decisioni. Infine non va sottovalutato il fatto che in Parlamento, senza una resistenza organizzata, il debole "partito referendario" sarebbe stato battuto sia prima che dopo le prove del ‘91 e del '93, con il prevalere del forte "partito compromissorio" sempre pronto a evitare lo scontro nel paese per scongiurare qualsiasi soluzione traumatica alla crisi del regime.
La corruzione e i suoi antagonisti
L'altra spinta determinante per abbattere il vecchio regime, oltre ai referendum, è venuta dal pool di Milano e dalle altre iniziative giudiziarie nei confronti dei politici. Se il voto referendario è servito per distruggere con il meccanismo proporzionale il potere dei partiti, Mani Pulite ha potuto agire con risolutezza fino a liquidare gran parte della classe dirigente politica solo perché ha operato in un ambiente saturo di domanda di giustizia, divenuta spesso voglia di giustizialismo, proveniente da ogni ambiente sociale contro la corruzione politica dilagante.
Ma questo impulso collettivo, divenuto più intenso alla fine degli anni ottanta, non rappresentava altro che la reazione alla sordità che il mondo politico aveva manifestato per decenni di fronte agli scandali, alle trame e all'affarismo privato da cui era sistematicamente pervaso. In fin dei conti il diffuso piacere di fronte all'abbattersi della mannaia di Mani Pulite sui politici e sui potenti d'ogni risma acquisiva il senso di una compensazione per l'inerzia che aveva dominato per tanto tempo. Come il voto al nord per la Lega e il voto referendario contro i partiti erano, al di là dell'atto specifico, un segno della crescente protesta popolare, così anche la voglia di un generico "nuovo" che facesse piazza pulita di un altrettanto generico "vecchio", trovava soddisfazione nel sostegno all'opera dei magistrati attivatisi per la prima volta contro le malefatte dei politici.
Del resto il pubblico sentimento ostile alla vecchia classe dirigente aveva una ragion d'essere in quella particolare realtà inquinata che si era andata consolidando nella generale indifferenza dei politici. Quasi tutti gli esponenti tradizionali, in misura diversa a seconda dei partiti di appartenenza, o avevano partecipato alla corruzione o erano stati inerti e conniventi di fronte all'avanzare della malaItalia. Erano quindi comprensibili non solo l'approvazione generalizzata per Mani Pulite ma persino le aspettative palingenetiche che investivano i magistrati anticorruzione, tra i quali Antonio Di Pietro che andava assumendo una funzione simbolica.
Anche sotto questo aspetto della lotta alla corruzione i radicali potevano essere considerati una eccezione nel panorama dei partiti che avevano tenuto la scena parlamentare e politica per un quarto di secolo. In tante campagne di "moralizzazione" della vita pubblica, che sarebbe meglio definire di rivalutazione dell'aspetto più "nobile" della politica, si erano trovati in prima fila, spesso da soli e in mezzo all'ostracismo generale. Non a caso in tutta Tangentopoli, sia nazionale che locale, non si era trovata la minima traccia di questa rara specie politica a cui è stato dato l'unanime riconoscimento d'essere rimasta "pulita", "onesta" e dedita a un protagonismo politico completamente disinteressato dal punto di vista personale e privato. Non solo non potevano essere addebitate ai radicali collusioni di qualsivoglia genere, ma veniva loro riconosciuto un ruolo attivo nella lotta al malaffare politico. Difatti gli esponenti della rosa nel pugno avevano fatto oggetto di pubblica denuncia quegli stessi episodi penalmente rilevanti che sarebbero poi emersi nelle istruttorie giudiziarie. Innumerevoli sono state le volte in cui Pannella e i suoi compagni avevano consegnato alle procure della Repubblica esposti-denuncia sugli scandali dei politici di cui è laborioso persino elencare i nomi, le sigle, gli enti e i partiti chiamati in causa: Dall'ENI di Mattei (precursore delle "dazioni" milionarie di Cefis ai partiti e poi di quelle miliardarie degli anni ottanta) agli scandali della pubblica assistenza di Roma (antenati del Mario Chiesa della Baggina), dai finanziamento del petrolio e della chimica (anticipatori della Montedison) alla ricostruzione post-terremoto della Campania (l'affaire di cinquantamila miliardi che fa impallidire le tangenti edilizie milanesi). In tutti questi casi erano sempre stati gli uffici giudiziari, ora osannati dalla pubblica opinione perché finalmente attivi di fronte ai politici, a insabbiare tutto ciò che poteva minimamente avere a che fare con il potere.
Altrettanto singolari e alternativi erano stati i radicali in Parlamento rispetto a quel che già da tempo veniva da loro definito "il regime". Da quando vi avevano fatto ingresso nel '76, e ancor più dopo il successo del '79, si erano sempre schierati all'opposizione sia del potere delle maggioranze governative che del potere dell'opposizione comunista. Quando alla vigilia delle sua elezione a deputato fu chiesto a Leonardo Sciascia che cosa avrebbe fatto una volta varcata la soglia di Montecitorio, non esitò a rispondere: "Quello che faranno tutti i radicali: far funzionare il Parlamento con gli strumenti della denuncia e dell'assillo"; e poi, richiesto a che cosa sarebbe servito un tale atteggiamento, prosegui: "Crescerà una nuova coscienza di opposizione. Questo paese è affamato di opposizione. Comunisti e democristiani non sono semplici alleati: sono due immagini riflesse, specchi gli uni degli altri. E' così da trent'anni. E' ora di separare questa complicità reciproca: che ci sia finalmente chi governa da una parte e chi controlla dall'altra" (5).
E’ così che il bilancio delle battaglie parlamentari radicali contro la corruzione e la degenerazione partitocratica, spesso intrecciate con quelle giudiziarie, risultò sostanzioso: Lockeed, Sindona, P2, ENI-Petromin, Guardia di finanza, servizi segreti, Cirino, fondi neri IRI... E sempre incisivo era stato il modo in cui avevano denunciato i mali della società e delle istituzioni, cioè l'intreccio perverso tra interesse pubblico e affari privati, tra potere istituzionale e potere correntizio o di banda. Non avevano però messo l'accento, come nel costume di tanta sinistra, sull'aspetto moralistico delle denunzie o sui presunti complotti delle "forze occulte" che tramavano a scapito dei partiti democratici, bensì avevano puntato il dito sul profondo degrado della democrazia e sul disastroso corrompimento delle istituzioni causato da illegalità e arbitri. Per i radicali, al centro della crisi italiana, non si doveva porre la "questione morale", bensì la "questione democratica" e la "questione istituzionale": non si doveva cioè sostituire una cattiva classe dirigente con un'altra presunta buona, ma occorreva riformare le istituzioni per riportarne il funzionamento effettivo alla lettera delle norme. Non si dovevano invocare governi di presunti "onesti", ma riguadagnare la separazione dei ruoli tra forze politiche al governo e forze politiche all'opposizione.
Questa era la loro diversità che li contrassegnava fortemente ma anche li isolava nell'intero universo politico: e questa anche la ragione per cui non erano mai stati accettati nelle "stanze buone" della politica. Non si erano accontentati di denunziare i singoli scandali ma li avevano, di volta in volta, contemplati in una specie di "quadro ambientale", analogamente a quel che avrebbe successivamente fatto con tanto clamore, sul piano penale, il pool di Milano. Basta qui evocare alcuni esempi: chi ricorda quando il deputato radicale Gianluigi Melega, tra i clamori dell'aula e le violentissime reazioni dei deputati colpiti, definì la Democrazia Cristiana come "un'associacione a delinquere" (6)? Oppure quando nel dibattito sul generale Raffaele Giudice delle Fiamme Gialle, il ministro degli Esteri Andreotti perse le staffe inveendo contro me, allora deputato radicale, che pronunziava un circostanziato j’accuse? (7) o, ancora, quando i comunisti salvarono lo stesso Giulio Andreotti dalle dimissioni (con effetti forse definitivi) richieste dai radicali durante il dibattito conclusivo sul caso Sindona? (8).
La pattuglia radicale si era battuta ininterrottamente contro la corruzione politica: anzi quella battaglia era divenuta una sua evidente caratteristica. Nessuno metteva in dubbio, nel mondo politico come nell'opinione pubblica, che tante iniziative parlamentari, proposte di legge, inchieste, filibustering e interpellanze costituissero l'originale patrimonio radicale senza pari per rigore e disinteresse. I radicali, prima e al di là delle ondate di simpatia e di antipatia che periodicamente riuscivano ad attirare, rimanevano comunque dei politici che non si erano sporcati le mani, che non avevano fatto compromessi di potere e sui quali si poteva contare nei momenti difficili. in cui si rendeva necessaria la difesa dei deboli contro i potenti. Erano divenuti una vera e propria "assicurazione permanente sulla vita della democrazia" (9).
Questa era l'eredità universalmente riconosciuta al movimento radicale allorché la Repubblica dei partiti vacillava e la sua classe dirigente stava avviandosi alla completa delegittimazione.
L'occasione perduta di Pannella
Alla luce della lotta alle degenerazioni partitocratiche e alla corruzione sistematica fin qui descritta, appare del tutto paradossale il ruolo che Marco Pannella esercitò alla testa dei radicali nel quinquennio '89-94 in cui si verifica il crollo della Repubblica dei partiti. Da un lato, con le sue incalzanti iniziative, contribuì ad accelerare la fine dell'ancien régime e, dall'altro, quando questa sopraggiunse, se ne fece sorprendere impreparato. Nel momento della destabilizzazione generale era ipotizzabile che il suo curriculum politico lo avrebbe reso un candidato naturale a posizioni direttive nel nuovo corso, in considerazione del suo ruolo di oppositore del vecchio regime in nome di quei valori e di quegli obiettivi che ormai stavano largamente diffondendosi. E, invece, non è stato per nulla così.
Non c'è chi non abbia riconosciuto le benemerenze di Pannella. Era stato un protagonista eccellente di quella battaglia referendaria per la riforma elettorale in senso uninominale-maggioritario che aveva trovato il punto di arrivo nel referendum del '93 e, poi, nella prova del fuoco nelle elezioni del 27 marzo 1994 con il ribaltamento degli equilibri politici. E con la sua vicenda politica così singolare era in un certo qual modo assimilabile a un dissidente rimasto estraneo al regime. Tutto ciò lo rendeva nella nuova situazione non solo un personaggio popolare, cosa che pure era stato in altri momenti, ma anche un leader politico capace di interpretare le nuove aspirazioni, e quindi potenzialmente in grado di raccogliere un consenso popolare oltre il minoritarismo delle prove elettorali radicali.
Del resto il patrimonio politico del Partito Radicale ne faceva una forza idealmente preparata ad assumere una funzione di primo piano nel momento della svolta. Il liberalismo tornava ad essere di grande attualità dopo la caduta dei miti comunisti e il logoramento di quelli socialdemocratici. E’ vero che quel che tornava in voga era più la retorica che non la sostanza liberale, ma nessuno obiettava che i radicali fossero stati, anche nei periodi più bui, interpreti di un liberalismo, autenticamente riformatore. Le loro parole d'ordine, che non erano state verbose proclamazioni ma sostanza di un'operosa politica, invocavano il federalismo e l'antistatalismo, l'anticorporativismo e l'anticonsociativisino, lo Stato di diritto e la giustizia giusta, la nonviolenza e l'opposizione al potere arbitrario, il libertarismo e il liberismo, obiettivi tutti che non erano più invisi ma in una certa misura divenuti popolari. E dietro ogni slogan erano state messe in moto tante e tali iniziative che erano restate di carattere minoritario se non quando avevano avuto successo con i referendum che avevano consentito a milioni di cittadini di esprimersi direttamente rompendo il diaframma dei partiti. Ma ora, che i diaframmi partitici stavano cadendo pezzo a pezzo, si poteva pensare che la politica radicale, in quanto chiara alternativa al vecchio, avrebbe avuto maggiore fortuna.
Il rilancio radicale di una politica liberale e riformatrice, invece, non si è verificato nella misura che era lecito prevedere. Sono passati alcuni anni dalla caduta del Muro, e nonostante le due consultazioni elettorali ('92 e '94) che hanno rivoluzionato gli equilibri politici non si intravede all'orizzonte alcuna "rivoluzione liberale". I nuovi gruppi - specificamente Forza Italia -, che hanno preteso di rappresentare un movimento liberale di massa, non sono all'altezza della situazione sia per gli obiettivi che si propongono, sia per i gruppi dirigenti di cui dispongono, mentre il Partito Radicale, che fino a ieri era stato il propulsore di iniziative liberalizzatrici, è scomparso e viene messa in dubbio perfino l'influenza politica del suo leader a paragone di quella che aveva avuto nel precedente regime. Eppure Marco Pannella non è certo un pensatore teorico privo della capacità di offrire risposte politiche concrete; eppure non ha peccato di inerzia essendo stato, al contrario, assai fertile d'iniziative originali in tutti i momenti cruciali della recente vita politica; eppure è un personaggio tutt'altro che rassegnato ad amministrare una routine senza creatività e combattività politica.
Prendiamo, ad esempio, la riforma elettorale necessaria per smantellare i vecchi partiti: è indubbio che l'arma referendaria forgiata soprattutto dai radicali sia stata risolutiva. E’ vero che il comportamento di Pannella ha attraversato momenti tortuosi almeno in due fasi. La prima quando Mario Segni e Pietro Scoppola gli chiesero all'inizio di farsi da parte perché la sua presenza sarebbe stata troppo ingombrante (10), e il leader radicale accettò - bon gré, mal gré - di non figurare in prima fila e di abdicare di fatto alla leadership del movimento referendario, sospinto da un misto di orgoglio personale, di generosità politica e forse anche dal non credere fino in fondo al carattere definitivamente rivoluzionante di quei referendum. E la seconda volta, alla riproposizione del nuovo pacchetto referendario nell'estate-autunno '91, allorché si chiuse in un orgoglioso isolamento aderendo solo all'ultimo momento alla testa dei suoi fedelissimi con i "referendum radicali" (droga, finanziamento pubblico, controllo ambientale delle USL), e praticando un separatismo dagli altri gruppi di Mario Segni (COREL) e di Massimo Severo Giannini (CORID) integrati nella comune campagna di rinnovamento referendario (11). Ma, nel complesso, non è in dubbio che i diversi gruppi radicali, pannelliani e non pannelliani, abbiano efficacemente contribuito allo smantellamento del regime, almeno per quel che concerne i meccanismi istituzionali.
Analogo significato di avanguardia politica in funzione di rottura di tabù e pigrizie mentali ebbe la campagna "per la riforma della politica", iniziata con la questione elettorale e che poi sarebbe dovuta proseguire con la riforma costituzionale. Pannella, senza complessi d'essere tacciato da uomo di destra, sollevò la questione dell'elezione diretta dell'esecutivo - di cui il presidenzialismo all'americana è la forma più radicale - insieme a quella del federalismo, quando ancora all'orizzonte non si era profilata l'irruzione di Bossi e l'idea stessa del capo del governo eletto direttamente era confinata nel ghetto delle proclamazioni dell'estrema destra. Tutti questi obiettivi - presidenzialismo, federalismo insieme con l'uninominalismo - furono affermati e riaffermati dal movimento che aveva Pannella come leader durante gli anni settanta e ottanta, molto prima che divenissero passaggi obbligati di quella cultura riformatrice che ha conquistato negli anni novanta alcuni settori di tutte le forze politiche di destra come di sinistra.
Che dire poi dell'esigenza insistentemente sollevata dai radicali di tutelare i diritti individuali e di pretendere il giusto procedimento penale che non prescindesse mai dall'integrale garanzia per l'uomo e il cittadino? Il "caso Tortora" era divenuto, a metà degli anni ottanta, un vero simbolo della più generale battaglia per la "giustizia giusta", che aveva reso i radicali una specie di punto di riferimento obbligato capace di far valere in tutte le direzioni i diritti dei deboli contro gli abusi del potere, fossero essi amministrativi, politici o giudiziari.
In conclusione Pannella e i radicali avevano più d'una ragione per potere passare da quel ruolo minoritario di forza corsara che avevano avuto nella prima Repubblica a perno di uno schieramento liberale fondato sulla difesa dei diritti del cittadino, sullo smantellamento degli abusi e sull'innovazione istituzionale. La cultura politica dominante nell'ancien régime era quella del potere: si poteva ritenere che nel nuovo corso si facesse strada quella cultura delle libertà che in Italia era stata avvilita dalle egemonie cattolica e comunista.
Una ingannevole partitocrazia
Se con il crollo dei partiti era immaginabile che si aprissero nuovi spazi per i radicali, in che modo Pannella era pronto a cogliere l'occasione confrontandosi con più ampi schieramenti politici? E qual era il suo atteggiamento di fronte alla vecchia classe dirigente partitocratica che difendeva fino all'ultimo posizioni di potere? Nel ripercorrere la strategia pannelliana dopo l'89, risaltano alcune contraddizioni tra gli obiettivi che dichiarava di perseguire e gli strumenti che adoperò.
Tentativi di alleanze, intese e rimescolamenti delle carte politiche, il leader radicale ne aveva sempre provocati specialmente nel decennio che precede la svolta. Il progetto di radicalizzare il Partito Socialista facendone il perno di un grande schieramento laico, riformatore e liberal-umanistico era già fallito nell'ultimo anno del governo Craxi (86-87), quando si era andato stringendo quell'accordo di potere con Andreotti conosciuto come il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Di quell'esperienza Pannella allora scriveva: "In poco più di tre anni Bettino Craxi svende tutto, proprio tutto: la presidenza della Repubblica, con l'elezione consociativa di Cossiga; il potere locale della sinistra; i principi laici e riformisti, con il "nuovo" vecchissimo e inutile Concordato con la Chiesa; e ben presto la stessa presidenza del Consiglio, con il patto della "staffetta". In trentasei mesi davvero un primato" (12).
Dopo la caduta dell'intesa con i socialisti, venne messo in cantiere l'esperimento del polo laico per forzare i più che mai riluttanti repubblicani e liberali a un rassemblement per le elezioni europee: altro tentativo che si dissolse rapidamente nel gioco delle reciproche furbizie, diffidenze e insofferenza personali prima ancora che politiche. Pannella, quindi, tentò un'altra partita ancora aprendo un confronto con il segretario del Partito Comunista che si stava trasformando in Partito Democratico della Sinistra. Così scriveva in un intervento ne "L'Unità" dal significativo titolo: Io vi dico questo: La Cosa non è solo del PCI: "Caro Occhetto una grande, vera Federazione democratica va ormai concepita, creata, nella quale il PCI - in quanto tale - sia inizialmente una componente essenziale e proniotrice" (13); e ancora: "La nascita di un grande partito della Riforma della politica, delle istituzioni, dei partiti, della società, Riforma democratica del regime partitocratico deve coinvolgere appieno forze socialdemocratiche e forze liberaldemocratiche" (14).
Attraverso intese con i partiti tradizionali oppure con altre iniziative di tipo trasversale, in tutto il periodo di agonia della prima Repubblica, Pannella propose e ripropose senza tregua la formazione di una nuova forza politica per trovare una via d'uscita alla montante palude del regime, sempre però a partire dai pezzi del sistema partitico esistente. Cambiano le parole e cambiano gli interlocutori ma la sostanza delle formule instancabilmente perseguite è la medesima: nell'86 con PSI e PSDI è l'ora della Federazione laico-socialista, nell'89 con PLI e PRI è il Polo o Federazione laica, nel '90 con Occhetto è il momento della Federazione democratica per dar vita al Partito Democratico, nel '90-91 è la Costituente Democratica per riformare i partiti, nel '92 esordiscono le Liste Pannella "per il Partito Democratico", e nel '93 viene lanciato un Manifesto-appello per la Costituente del Partito Democratico; e, ancora nel '95, in una situazione ormai. completamente diversa, viene prima prospettata la Federazione dei riformatori e poi il Partito americano.
Quel che contraddistingue tutte queste prove è però la costante per cui fino al '93 gli interlocutori da convertire alle sue idee, Pannella li sceglie sistematicamente in settori tradizionali del ceto politico, e si chiamano prima Craxi, poi La Malfa, Altissimo e Cariglia, quindi Occhetto, Martelli e Martinazzoli. Anche nelle istituzioni, segue la stessa falsariga quando si fa promotore e grande elettore di Oscar Luigi Scalfaro prima alla presidenza della Camera e poi alla presidenza della Repubblica, oppure quando sostiene e consiglia da vicino Giuliano Amato, presidente del Consiglio del primo governo "tecnico" di transizione. L'idea che lo muove è che in fondo gli uomini e i partiti della vecchia Repubblica. possono durare indefinitamente e che, quindi, qualsiasi rinnovamento anche radicale deve passare attraverso la loro adesione alle formule innovativi pannelliane, formule che hanno in sé la capacità di riscatto politico. Fino all'avvento del berlusconismo il 27 marzo 1994, Pannella apparentemente non crede che un "nuovo" politico, sostanzialmente diverso dal passato, possa davvero nascere sulle ceneri della prima Repubblica. O, almeno, si comporta come se non ci credesse.
Nel momento in cui comincia a manifestarsi il crollo della Repubblica, prestigio di Pannella, dopo alterne vicende, era molto alto, nonostante la pessima prova elettorale delle liste a lui intitolate che, presentatesi per la prima volta alle elezioni politiche del '92, raccolsero 485. 000 modestissimo voti (1,2 %) con l'elezione di un pugno di deputati. Il punto era che solo in quei mesi l'azione di Mani Pulite diveniva incalzante e non aveva ancora spazzato via l'intera classe dirigente tradizionale insieme con i rispettivi partiti. Alle elezioni di aprile le tre maggiori forze politiche - DC, PDS e PSI - rappresentavano ancora la grande maggioranza (quasi il 60%) dell'elettorato, la Lega "novista" non eleggeva che 55 deputati nel solo nord, e in Parlamento sedevano tranquillamente Craxi, Forlani, Gava, Cirino Pomicino, De Lorenzo e compagnia bella. Occorrerà aspettare due anni con nel frattempo l'introduzione del sistema elettorale maggioritario-uninominale, perché il volto politico del paese e del Parlamento fosse completamente rivoluzionato. In quell'intermezzo, pieno di smarrimento politico, di confusione istituzionale e di protagonismo giudiziario, l'immagine di Pannella risplendeva nuovamente, personificando quella ricca eredità radicale che risplendeva ancor più a fronte della generale degradazione partitica.
Non è un caso che proprio in quella stagione di transizione Pannella cogliesse molti successi. A maggio '92, in un disorientato Parlamento postelettorale, contribuiva decisivamente nell'elezione alle altissime cariche istituzionali di Scalfaro. Entrando per la prima volta a far parte di una maggioranza parlamentare che sosteneva il governo presieduto da Giuliano Amato, era in corsa per divenire ministro e poi commissario italiano alla Comunità europea. Con la sua indomita capacità di convinzione riusciva a fare molti proseliti, tra cui il leader leghista Bossi convertito temporaneamente all'uninominale all'inglese. Pertanto, in quel momento particolarmente felice, quando fu lanciata l'ennesima campagna di iscrizione al Partito Radicale, si trovarono oltre quarantamila cittadini disposti a pagare duecentomila lire per sostenerlo. All'inizio del '93, nel pieno di una stagione di successi, i sondaggi d'opinione registravano un Pannella ancora e nuovamente tra i pochi leader noti e amati del paese. E il sostegno popolare di cui le costose iscrizioni al PR rappresentavano una spia, non era certo dovuto all'incomprensibile progetto transpartitico e transnazionale quanto, piuttosto, alla speranza che un leader e un partito che avevano così limpidamente attraversato in solitudine il malaffare della prima Repubblica potessero, ora che tutto crollava, rappresentare un punto di riferimento nel nuovo ordine che si andava confusamente profilando.
Un acuto commentatore, Ernesto Galli della Loggia, poteva allora scrivere di Pannella: "Incorrotto e incorruttibile, capace di disegni politici vasti e ispirati, oratore popolare di razza, è l'unica cosa nuova che abbia visto la luce a sinistra negli ultimi decenni. Per primo ha capito l'impalcatura classista antindividualista e antioccidentale della sinistra italiana, il nesso tra aspetti oscuri e degenerativi della storia repubblicana e la realtà vera, ma rimossa, del passato fascista e resistenziale della nazione. E’ l'unico politico di sinistra dotato di un'indiscussa capacità legittimatrice" (15).
A considerare le cose a posteriori, quella stagione rappresentò l’ultima occasione per il Marco nazionale di divenire un leader del rinnovamento prima che la Repubblica venisse sommersa da Tangentopoli. Infatti l'influenza esercitata sulla classe politica e il consenso popolare, espresso dalle quarantamila adesioni al Partito Radicale, ebbero una brusca caduta non appena, nell'estate di quell'anno, prese l'iniziativa dei cosiddetti "autoconvocati". Accadde che, con la moltiplicazione dei parlamentari inquisiti, tutto il Parlamento e i singoli eletti fossero progressivamente delegittimati e quindi crescesse nell'opinione pubblica la richiesta del suo scioglimento per arrivare subito a nuove elezioni. A quel punto Pannella assunse invece il ruolo di difensore delle Camere, da lui definite senza mezzi termini "le migliori", divenendo in sostanza una specie di protettore dei parlamentari in carica, la maggior parte dei quali inquisiti. Questi, su iniziativa di Pannella, cominciarono a riunirsi a Montecitorio, autoconvocandosi per contrastare lo scioglimento delle Camere.
E’ utile per capire l'atmosfera di quei giorni e il ruolo di Pannella, far parlare Filippo Ceccarelli, attento cronista del Palazzo: "Adesso i diversi, i reietti stanno a Montecitorio. Fanno anche pena. Bisognava vedere l'ardore spaventato con cui il DC Culicchia uno che l'hanno accusato di omicidio, s'avvicina a Pannella: Marco! Marco! Bisognava saperlo leggere il sorriso di gratitudine di Bonsignore... l'entusiasmo perduto di un Del Pennino; quel lampo di speranza a rischiarare di Pillitteri, Marco lo sa. Marco è pulito, Marco è stato sempre d'altra parte. Però Marco ci aiuta. C'è una nobile coerenza, in questa difesa di gente spaventata, che fino all'altro giorno era più potente di lui, e non gli si mostrava amica. Moltissimi dei 217 appena lo salutavano, ma in cuor loro lo ritenevano un pagliaccio. Poco o nulla ha avuto Pannella dalla partitocrazia. Si può permettere anche questo lusso cavalleresco, non privo di pietas" (16).
Quale fosse la logica di quella iniziativa che raccoglieva i parlamentari che si opponevano allo scioglimento delle Camere, in ragione della loro posizione di fronte alla giustizia, Pannella non è mai riuscito a spiegarlo convincentemente. Al di là delle interpretazioni psicopolitiche, certo è che nel mettere insieme tanti parlamentari del vecchio regime, Pannella doveva pensare che potessero in qualche modo essere utilizzati come una riserva di frammenti dei partiti – dalla DC al PSI, al PLI al PSDI- da cui attingere per tentare un qualche rassemblement sotto la sua direzione. Probabilmente nella convinzione che ancora una volta sarebbe stato possibile, pur nella fase più avanzata della decomposizione del sistema servirsi di una parte dei vecchi quadri partitocratici per una futura operazione politica. E con la presunzione di poter fare opera di redenzione e salvataggio politici anche dei più controversi personaggi, purché si ponessero sotto la protezione dell'immacolata e inattaccabile leadership pannelliana.
Il disegno pero poggiava sul vuoto. E la leadership pannelliana finì per scapitarne e moltissimo perdendo d'un colpo il credito, l'influenza e il potenziale consenso che aveva in precedenza raccolto. Dopo quella spregiudicata iniziativa Pannella, come ha scritto Pierluigi Battista, doveva ancora una volta "ricominciare da zero... Di nuovo al via con pochi mezzi a elemosinare soldi e iscrizioni, firme per i referendum, adesioni alla lista che porta il suo nome" (17). Perciò, quando si presentò all'appuntamento elettorale del 27 marzo 1994 in cui tutte le carte erano radicalmente rimescolate e gli schieramenti totalmente nuovi, Pannella si trovò nudo. Ma, forse, aveva da tempo inconsapevolmente scontato la sua fisiologica incapacità di attrezzarsi adeguatamente per i nuovi tempi.
Note:
(1) Randolfo Pacciardi fonda nel '64 il Movimento per una nuova Repubblica che propone un modello presidenzialista. Negli anni successivi Giuseppe Maranini, insieme a Luigi Astuti, Serio Galeotti, Silvano Tosi e Salvatore Valitutti costituiscono l'Alleanza Costituzionale. Nel '69 il gruppo Europa 70 del DC Bartolo Ciccardini si dichiara favorevole alle elezioni presidenziali dirette e alla riforma elettorale maggioritaria.
(2) Proposta di legge, 2 luglio 1987, a firiììa Pannella, Aglietta, D'Amato, Faccio, Mellini, Modugno, Stanzani Ghedini, Teodori, Vesce e Zevi.
(3) Tra gli originali promotori si annoveravano nove DC (Segni, Ciccardini, Diana, Gottardo, Lipari, Michelini, Riggio, Rivera, Zamberletti), sei radicali (Pannella, Spadaccia, Negri, Calderisi, Rutelli, Teodori), tre verdi (Ceruti, Lanzinger, Scalia), tre indipendenti di sinistra (Bassanini, Gramaglia, Pasquino), due liberali (Biondi, Valitutti), due comunisti (Barbera, Bordon), due repubblicani (Dutto, Gavronsky), esponenti della FUCI e delle ACLI (Ceccanti, Tonini, De Matteo), intellettuali (Scoppola, Galli della Loggia, Monticone, Panebianco, Veca), giuristi (Giannini, Barile, Chimenti) e imprenditori (Baslini, Morganti, Usiglio).
(4) M. Segni, La rivoluzione interrotta, pp. 44-45.
(5) Quando sarò deputato, intervista a Leonardo Sciascia di Paolo Guzzanti, "La Repubblica", 18 maggio 1979.
(6) deputato radicale Gianluigi Melega, in un intervento parlamentare dell'autunno 1979, definisce la DC "associazione a delinquere".
(7) Le Camere processano Andreotti. Solo Teodori è riuscito a farlo adorare. Titolo di prima pagina a sei colonne, "Il Giomale", 22 novembre 1989.
(8) Nella discussione sulle conclusioni della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona tenutasi alla Camera il 4 ottobre 1984, la mozione presentata dai radicali fu respinta solo per il voto di astensione dei deputati del PCI.
(9) Renato Farina a proposito dello sciopero della fame e della sete di Pannella, "Il Giornale", lo ottobre 1995.
(10) Segni, La rivoluzione interrotta, cit., p 68.
(11) Il referendum del CORFL (Comitato per le riforme elettorali Segni) per 1) l'introduzione del sistema maggioritario nell'elezione dei senatori; quelli del CORID (Comitato per le riforme democraticheGiannini) per 2) l'abolizione del potere di nomina del ministro del Tesoro dei vertici bancari, 3) l'abolizione dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, e 4) l'abolizione del ministero delle PPSS; quelli dei Partito Radicale per 5) la legalizzazione delle droghe leggere, 6) l'abrogazione del finanziamento pubblico e, insieme con gli Amici della terra, per 7) la sottrazione alle USL della tutela dell'ambiente; e inoltre altri 5 referendum dei consigli regionali per l'abolizione di alcuni ministeri.
(12) Un'alleanza all'inglese, intervista di Paolo Pagliaro, "L'Espresso" I , 3 5 marzo 1989.
(13) Marco Pannella, Caro Occhetto, io penso a una federazione democratica, "L'Unità", 15 novembre 1989.
(14) "L'Unità", 13 giugno 1990.
(15) Ernesto Galli della Loggia, "Corriere della Sera", 16 gennaio 19 93.
(16) Filippo Ceccarelli, La vendetta di Marco - Gli ex nemici lo amano, "La Stampa", 24 giugno 1993.
(17) Pierluigi Battista, La rivincita di Marco dal Palazzo alle piazze, "La Stampa", 13 novembre 1993.
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