Dupuis e i delitti della
rue Morgue
(liberamente ispirato a
Edgar Allan Poe)
Nella primavera e in
parte dell’estate del 1813 Monsieur Lucio Bertè abitava a Parigi e vi fece la
conoscenza di un tale Monsieur Olivier Auguste Dupuis. Il giovane gentiluomo apparteneva
a un’ottima famiglia, una famiglia anzi illustre ma, per una serie di
accadimenti malaugurati, si era ridotto in una tale povertà che l’energia del
suo carattere cedette ed egli rinunciò a farsi avanti nel mondo e a cercare di
rimettere in sesto le sue fortune. La generosità dei suoi creditori gli permise
di restare in possesso di un piccolo residuo del suo patrimonio; con la rendita
che ne ricavava poteva far fronte, grazie a rigide economie, alle necessità
della vita, senza darsi pena per il superfluo. I libri erano il suo vero ed
unico lusso, e a Parigi non è difficile procurarseli.
La prima volta si
incontrarono in un’oscura libreria della Rue Montmartre, dove la coincidenza di
essere entrambi alla ricerca dello stesso libro, molto curioso e raro, fece
nascere tra loro una stretta amicizia. Cominciarono a incontrarsi spesso. Bertè
era molto interessato alla storia della sua piccola famiglia, che egli gli
raccontò minuziosamente con tutto il candore cui indulgono i belgi quando
parlano di sé. Fu sorpreso dalla vastità delle sue letture e soprattutto fu
conquistato dallo strano calore de dalla vivida freschezza della sua
immaginazione.
Date le ricerche che
Bertè svolgeva a Parigi, egli sentì che la compagnia di un uomo simile sarebbe
stata un tesoro inestimabile per lui e gli confidò francamente quel che
pensava. Decisero di vivere insieme durante tutto il suo soggiorno in città.
Poiché le finanze di Bertè erano un po’ meno compromesse di quelle di Dupuis,
egli poté affittare e ammobiliare a sue spese, in uno stile che corrispondeva
alla malinconia alquanto fantastica che era comune ai loro due caratteri, una
casa fatiscente e stravagante, rimasta abbandonata da anni per via di certe
superstizioni sulle quali non indagarono, che cadeva quasi a pezzi in un angolo
nascosto e desolato del Faubourg St. Germain.
Se la gente avesse saputo
che tipo di vita conducevano in questo luogo sarebbero passati per pazzi, anche
se forse inoffensivi. Il loro isolamento era totale; non ricevevano mai visite.
In realtà il luogo del loro ritiro era stato accuratamente nascosto ai vecchi
amici milanesi di Bertè; e Dupuis, da molti anni ormai, aveva smesso di vedere
gente e girare per Parigi. Vivevano chiusi tra di loro. Una delle bizzarrie del
carattere di Dupuis (e come definirla altrimenti?) era di amare la Notte per
amore della notte; e Bertè si lasciò andare tranquillamente a questa sua
eccentricità, come a tutte le altre sue, arrendendosi con completo abbandono a
questo suo capriccio. La nera divinità non poteva restare sempre con loro; ma
loro potevano simularne la presenza.
Al primo albeggiare,
chiudevano tutte le pesanti imposte del vecchio edificio, accendevano due
candele molto profumate che spandevano una luce fioca e spettrale. Immersi in
questo debole chiarore, abbandonavano le loro anime ai sogni; leggevano,
scrivevano, conversavano finché il pendolo non ricordava loro l’arrivo della
vera Oscurità. Allora se ne andavano in strada, sottobraccio, continuando la
conversazione del giorno, girovagando a caso fino a ore molto tarde e cercando
tra le vivide luci e le tenebre dell’affollata città quelle innumerevoli
eccitazioni mentali che la quieta osservazione può offrire. In simili
circostanze Bertè non poteva fare a meno di notare e ammirare una particolare
capacità analitica in Dupuis (sebbene potesse aspettarsela data la sua ricca
idealità).
Sembrava, inoltre,
provare un vivo diletto ad esercitarla – se non a ostentarla – e non esitava a
confessare il piacere che ne ricavava. Gli diceva con un risolino che molti
uomini avevano per lui una finestra spalancata al posto del cuore, accompagnava
questa affermazione con prove immediate, e più sorprendenti, di quanto
profondamente lo conoscesse. In quei momenti i suoi modi si facevano glaciali e
distratti; i suoi occhi fissavano il vuoto e la sua voce – una voce calda di
tenore, per solito – diventava acuta; poteva sembrare petulanza, non fosse
stato per la determinazione nel parlare e la ricchezza di argomentazioni.
Osservandolo in quegli stati d’animo, Bertè rifletteva spesso sull’antica
filosofia dell’anima e del suo doppio: lo divertiva l’idea di un doppio Dupuis,
il creativo e l’analista.
Ciò che Bertè pensava di
questo Belga era semplicemente il risultato di una intelligenza eccitata o
forse malata. Un esempio potrà dare un’idea migliore del carattere delle sue
osservazioni all’epoca di cui si tratta. Una sera, passeggiavano a caso per una
lunga via sudicia, nei pressi del Palais Royal. Ognuno era immerso nei propri
pensieri, almeno apparentemente, e da circa un quarto d’ora non avevano
pronunciato una sola parola. D’improvviso Dupuis ruppe il silenzio:
“È proprio un ragazzo
molto piccolo, è vero, sarebbe più adatto al Théatre des Variétés”.
“Non c’è ombra di dubbio”
– replicò Bertè senza pensarci e senza accorgersi subito, tanto era assorto,
dello strano modo in cui questa affermazione dava voce alle sue fantasticherie.
Un minuto dopo tornò in sé e il suo stupore fu profondo.
[1 di 12. continua]
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