Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 8

IL REGIME DELLE TANGENTI

Nelle pagine che precedono e, più ancora, in quelle che seguiranno, spesso ritorna il termine "regime".
E' un termine che ha perduto, nell'uso corrente, il significato neutro che aveva originariamente, quello cioè di indicare la specie, il tipo di governo, di costituzione, di ordinamento dello Stato. E da quando a tale termine ha cominciato ad aggiungersi un aggettivo riferibile ad un partito, esso ha finito per mutare il significato, che è divenuto quello di deformazione arbitraria, più o meno coperta e dissimulata, del sistema costituzionale: il sistema reale contrapposto a quello formale, lo stato che si identifica con un partito anziché con le proprie strutture istituzionali e con la generalità degli interessi e delle componenti della società civile.
Questo significato negativo del termine "regime" è oggi quello corrente, tanto che ad esso e non ad altro si fa riferimento quando la parola è usata senza aggiunta di alcun aggettivo. Frasi come "si va verso il regime" (chi non ricorda il convegno radicale su questo tema?), "siamo al regime", esprimono tutto l'allarme ed il pessimismo legato ai contenuti così attribuiti a questo termine.
Parlare di "regime" oggi esistente in Italia, significa dunque formulare un giudizio negativo sulla situazione, sulla classe politica, sui detentori del potere. E perciò l'uso di tale termine è contestato, considerato espressione di corrività e di approssimazione da quanti sostengono o approvano, appunto, il regime, o semplicemente da quanti fanno professione di insofferenza anche nei confronti delle reazioni troppo "pessimiste" e troppo poco genericamente insofferenti.
Oggi, che parlare di partitocrazia è divenuto di moda anche in casa democristiana, per non parlare di altri partiti, il termine "regime" è tuttavia evitato da molti che pure non osano mettere in dubbio la degenerazione partitocratica, clientelare, corrotta e corruttrice del sistema politico e che anzi sembrano rivendicare il merito ed il monopolio di questa "scoperta".
Che non parlino di "regime" è comprensibile. Essi sono, in genere, i sostenitori della "moralizzazione" come problema dei partiti e non dell'elettorato e della gente e quindi come una questione di panni sporchi da lavare, più o meno, in famiglia, una questione di autoepurazione e non di sostituzione delle forze politiche. Nessun "regime" nel senso sopra enunciato, si è mai autoepurato, normalizzato, cioè autosoppresso. Lo ha tentato Gorbaciov, ma è stato sopraffatto e scavalcato dalla realtà dell'evoluzione in atto.
Ma torniano all'interrogativo se possa o debba parlarsi di "regime" nel nostro Paese.
L'argomento può offrire lo spunto per discussioni a non finire tra i politologi e tra i costituzionalisti di un certo tipo. Ma ogni discussione sull'adeguatezza e al puntualità del termine è certamente oziosa, se i fatti e la situazione sono quelli che sono e se non c'è altro termine per definirli e riassumerli che possa apparire più appropriato.
Un dato di fatto balza agli occhi di chiunque voglia fare una sintesi della situazione italiana: dal 1944 la Democrazia Cristiana è al governo, ed, anche se sono cambiato i suoi alleati nelle coalizioni, essa rimane al centro di esse, è il partito di maggioranza relativa in Parlamento e costituisce la maggioranza assoluta nelle coalizioni di governo, anche se negli ultimi anni si sono avuti Presidenti del Consiglio appartenenti ad altri partiti suoi alleati.
Giulio Andreotti è stato definito il simbolo dell'immutabilità della classe politica italiana, del sistema politico. Certo la sua carriera di ministro pressoché a vita e di Presidente del Consiglio per sette volte con un totale di molti anni (battuto solo da Mussolini, ma solo quale Primo Ministro, non per la sua permanenza al governo, che è senza paragoni la più lunga nella storia del nostro Paese) può essere considerata sintomatica di una situazione politica senza mutamenti e ricambi. Ma se il primato di Andreotti ha pure questi significati, ben più significativa è la costante permanenza al potere della DC, anzi è essa il vero dato anomalo della situazione italiana.
Se oggi Andreotti sembra emarginato (ma non è detta l'ultima parola) come pure se qualche volto nuovo si inserisce negli organigrammi governativi, regionali e comunali dei vari partiti, il sistema politico non cambia granché.
Le alternative, il ricambio necessario per un andamento fisiologico della democrazia e delle libere istituzioni non possono essere rappresentati solo da una riduzione della durata della carriera degli esponenti dei partiti nelle cariche istituzionali, o, per meglio dire, della permanenza nelle varie cariche.
Nel momento attuale, poi, cambiare qualche personaggio di questo o quel partito può significare soltanto il tentativo di dare un po' di polvere negli occhi alla pubblica opinione e di ricondurre il "rinnovamento" ad un fatto interno del meccanismo partitocratico.
Anche la permanenza ininterrotta al potere della DC per quasi mezzo secolo di per sé non comporta l'esistenza di un "regime", ma la sua spiegazione la presuppone. Affermare che se la DC è al potere da decenni ciò è semplicemente la conseguenza della mancanza di alternative a tale suo ruolo, significa ben poco, perché le alternative difficilmente maturano quando si creano tutti i presupposti perché "il potere logori chi non ce l'ha" secondo la famosa battuta di Andreotti.
Del resto questo regime, nato dalla paura del comunismo e dalla rassegnazione alla sua esistenza come il minor male, ha sempre saputo utilizzare lo spauracchio di alternative a se stesso di mero comodo, elevando al rango di antagonisti, di volta in volta, realtà e fantasmi, benché essi fossero il prodotto, se non di manipolazioni propagandistiche o peggio, di inconfessabili manovre, quanto meno delle inefficienze, delle tolleranze, delle ambiguità del regime stesso.
Così le trame nere ed il terrorismo, le Brigate Rosse e la P2, lo stragismo e la mafia ed i "poteri occulti" sono stati fatti assurgere a questo ruolo, lasciando intuire che tra questi "nemici" ed il potere così come detenuto e gestito fosse l’alterativa reale, così da rendere non solo ineluttabile la scelta, ma anche più tollerabile, al paragone, il potere e le sue prassi. Non solo, ma di fronte a queste alterative l'unità e l'omologazione, tipica del regime, delle forze politiche poteva essere rappresentata come una ovvia necessità.
Paradossalmente i comunisti, che avevano rappresentato il primo, più genuino e meno irreale spauracchio, divennero poi, una volta cooptati nel regime o nel loro lungo catecumenato, i maestri indiscussi, se non i registi accorti, di questa politica, assecondati da una parte della Magistratura ad essi legata, così inserita nei più delicati ingranaggi delle manovre di regime.
Nelle pagine che precedono abbiamo visto che il regime nasce con una scelta di campo negli anni della guerra fredda, con il convincimento che la democrazia potesse affermarsi e sopravvivere nel nostro Paese solo a condizione che non producesse alternativa delle forze al potere e che la libertà possibile fosse quella da usare per compiere e confermare scelte obbligate. Dobbiamo aggiungere che tale convincimento di fondo produsse strumenti ed espedienti utilizzabili per garantire il risultato "necessario", ma tale armamentario si è andato via via sviluppando ed affermando proprio in coincidenza con l'attenuarsi ed il venir meno del pericolo di cadere in un regime d'oltrecortina, cioè man mano che crescevano le condizioni, almeno in astratto, perché un’alterativa si realizzasse e fosse accettabile.
Non è in queste pagine che possa trovar posto una storia della formazione del regime, dei suoi strumenti, della macchina di potere della partitocrazia.
Quel che qui conta ripetere è che questa macchina ha raggiunto una eccezionale complessità ed un peso enorme. Essa abbraccia gli aspetti più disparati della vita sociale del paese ed utilizza strumenti forse mai prima d'ora messi in campo tutti insieme per ottenere potere e consenso.
Si può dire che dalla culla alla tomba, nei suoi mille incontri con il potere e le funzioni pubbliche, anche quelli istituiti per assicurargli servizi e garantirgli diritti, il cittadino è in qualche modo indotto o costretto ad invocare protezione politica, a farsi raccomandare, a stringere o rinnovare, così, patti di gratitudine e di vassallaggio verso chi lo raccomanda, lo presenta a chi potrà raccomandarlo, riceva e tenga conto della raccomandazione. Per l'imprenditore, il fornitore, il concessionario, il beneficiario di sovvenzioni e contributi, il concorrente, il postulante di esenzioni ed abbuoni, il patto di vassallaggio comporterà poi la tangente, il tributo.
Non vi è carica, impiego, posto di lavoro il cui conferimento non venga lottizzato, o dei quali la maggior parte non venga conferita per lottizzazioni o per alchimie di partito e di corrente.
Soggetta a controllo ed utilizzazione politico - clientelare è l'attività del credito e delle banche, i cui organigrammi sono manipolati sapientemente dai partiti.
Un discorso a parte meriterebbe l'informazione. Qui la lottizzazione ha avuto persino l'avallo della Corte Costituzionale, con la famosa sentenza sulla diversificazione delle reti secondo le correnti ideologiche.
Qualcuno ha sottolineato che con quell'avallo si è giunti a lottizzare e diversificare ideologicamente persino i bollettini meteorologici. Né la lottizzazione della RAI si arresta alla spartizione delle reti. Così come la rottura del monopolio della concessionaria e la creazione di un'emittenza privata, soggetta peraltro a contingentamenti e concessioni, non ha sottratto nulla alla disponibilità dell'informazione radiotelevisiva da parte della partitocrazia, in grado di inserirsi anche nei giuochi dell'emittenza privata.
La situazione è ovviamente un po’ diversa per quel che riguarda l'editoria e l'informazione scritta, ma anche in questo settore l'intreccio degli interessi, delle partecipazioni di enti pubblici nella proprietà delle testate, il controllo e la spartizione della pubblicità e i condizionamenti sulla classe dei giornalisti, rende l'influenza dei partiti di potere non meno rilevante.
Ma lo strumento tipico del regime è il denaro. Il denaro ottenuto con la corruzione e la concussione. Il denaro che occorre per tenere in piedi le organizzazioni di partiti, federazioni, sezioni, circoli e associazioni fiancheggiatosi, per pagare funzionari, condurre campagne elettorali di partiti e di candidati.
Il finanziamento pubblico dei partiti rappresentati in Parlamento, varato con l'alibi della necessità di sottrarre i partiti stessi alle tentazioni e dai condizionamenti della corruzione e dei finanziamenti occulti, ha in realtà rappresentato e rappresenta un privilegio per le vecchie formazioni politiche a svantaggio delle nuove e, per di più, ha funzionato come una sorta di ricapitalizzazione e di sovvenzione statale alle macchine di corruzione dei partiti, che hanno continuato più di prima a riscuotere ed imporre tangenti.
Ma quello che meglio caratterizza il rapporto tra i partiti e tra questi e le istituzioni, si da renderli un tutto unico qualificabile inequivocabilmente come "regime", è la tendenza sempre più accentuata al consociativismo, di cui la lottizzazione è l’espressione più dolente, per il suo innesto diretto nel malcostume e nell'occupazione partitica di cariche e non solo di cariche. Un consociativismo che si esprime persino nella lottizzazione e spartizione delle stesse tangenti, di cui Milano ci ha dato un tipico esempio.
Attingere "paritariamente" alle tangenti ed alle lottizzazioni sembra costituisca l'unico riconoscimento di quella parità avanti alle regole del giuoco che dovrebbe essere alla base della democrazia.
Ma il consociativismo si manifesta anche sul piano più propriamente politico, con la vanificazione della dialettica democratica e con assai gravi ripercussioni sulla funzionalità delle istituzioni, paralizzate dal sistema dei veti incrociati, cui di fatto si riduce la contrapposizione dei partiti, altrimenti solo apparente e superficiale. Nel complesso assetto delle maggioranze per il governo nazionale, per le giunte nelle regioni, provincie, comuni, enti le cui competenze sono talmente intrecciate da risultare spesso indefinite ed indefinibili, per non parlare delle USL, dei consorzi, comunità montane, IPAB etc. etc., in cui si suddivide e si articola il potere, le diversificazioni delle posizioni dei partiti sempre più hanno assunto il carattere di mera facciata, in una sorta di giuoco delle parti la cui credibilità è andata sempre più scemando.
La deformazione del ruolo dei partiti e delle istituzioni, la creazione dei vari spazi di illegalità istituzionalizzata, di prevaricazione scontata e pianificata, di ruberie, di tangenti, da una parte ha creato un ceto di parassiti e di specialisti di questi metodi e di queste operazioni che inquina la classe politica che sempre più condiziona e domina, dall'altra incide pesantemente sull'economia del Paese e sulle sue stesse strutture e sui suoi equilibri.
Se è attendibile la stima del CENSIS, secondo cui ogni anno in Italia sarebbero distribuiti dai dieci ai quindicimila miliardi di tangenti e se è vero che oltre all'effetto immediato del passaggio della relativa somma, la tangente ha effetti indotti per l'incidenza del conseguente comportamento deviato della pubblica amministrazione, allora è d'obbligo dedurne che il meccanismo delle tangenti, che Craxi ha affermato essere essenziale e necessario per i partiti, non solo giustifica l'affermazione circa l'esistenza nel nostro Paese di un "regime" che condiziona e congela l'assetto politico, ma determina altresì un particolare modo di essere del sistema economico e dell'assetto sociale, oltreché, naturalmente, della macchina amministrativa.
Tale considerazione porta necessariamente a formulare un altro interrogativo: può il nostro Paese permettersi, può la sua economia permettersi il peso di una tale bardatura, di un tale salasso, delle spreco che ne è la conseguenza?
Certo, in alcuni settori produttivi la tangente incide più del Fisco, anche se offre ai singoli "contribuenti" "servizi" che il Fisco certamente non assicura, come è certo che il sistema delle tangenti comporta una lievitazione di ogni spesa per lavori pubblici, forniture etc. anche per gli espedienti inventati per incrementare occasioni ed entità delle riscossioni, oltre che per compensare i corruttori.
Nei momenti di recessione e di ristagno dell'economia tutto ciò diventa di certo più difficilmente tollerabile, ma il limite di tollerabilità è difficilmente individuabile, sia in teoria che in pratica, come lo è ogni valutazione di effetti ed incidenze di fenomeni sommersi. Proprio nelle regioni e nei settori economici in cui la macchina di depredazione ha inciso di più sulle strutture stesse dell’economia e della classe imprenditoriale, è poi più difficile parlare di tollerabilità di meccanismi e bardature che sono un tutt'uno con l'economia con la quale si identificano.
Parlare di "questione morale" di fronte a fenomeni di tale portata è comunque un modo per porre subito la questione in termini riduttivi e devianti, così come lo è parlare di politici corrotti invece che di regime di corruzione.
Di questo si tratta infatti: quando la corruzione assicura ai corrotti ed ai prevaricatori vantaggi tali, da rappresentare se non l'unico, certo un essenziale titolo di prelazione sul potere ed un ostacolo pressoché insormontabile alla loro rimozione da tale posizione di privilegio, allora non solo è lecito parlare di regime e di corruzione, ma di regime di corruzione.

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