Mauro Mellini

Il Partito che non c'era

CAPITOLO 7

COME SI DIVENTA UN PARTITO CHE NON C'E'

Alla fine del 1987 il Partito Radicale si trovava dunque in una situazione difficile, con un senso di precarietà della sua esistenza assai diffuso al suo interno ed al suo esterno, anche se le ragioni di tale sensazione erano in parte artificiose e diverse ed opposte tra loro e non sempre fondate su dati reali né percepite nella loro giusta dimensione.
Ciò che assai pesava sul partito nel giudizio dei più, era il fatto in sé meno rilevante, quello che avrebbe dovuto, al più, considerarsi un grottesco incidente di percorso: l'elezione di Cicciolina, con l'appendice del suo comportamento parlamentare insulso, che la pornodiva non seppe nemmeno colorare con qualche sprazzo autenticamente e spiritosamente scandaloso. Ad indignarsi perché i radicali avevano portato Cicciolina in Parlamento furono probabilmente anche molti che le avevano dato la preferenza. Certamente lo furono giornali che avevano determinato la sua elezione dedicandole tanto spazio quanto non ne avevano mai dedicato, tutto assieme, al Partito Radicale in tanti anni di battaglie anche di grande momento. Ma, al di là del "fatto del giorno" e delle valutazioni che potevano esserne date, ciò che realmente pesava negativamente era proprio il tentativo di Pannella di "mettere una toppa" all'incidente che andava profilandosi durante la campagna elettorale, invitando invano gli elettori radicali a non dare la preferenza ad una candidata che si era rivelata allo stesso tempo imbarazzante e troppo popolare. Ancora una volta una candidatura "scandalosa" era scoppiata tra le mani di Pannella e dei radicali e questo sottolineava il carattere d'azzardo, di scena per la scena del metodo, ahimè, radicale di far politica. Dato di fatto non facilmente contestabile, specie se riferito a momenti più recenti e meno felici nelle iniziative di Pannella e del partito, ma non certo tale da poter obiettivamente far dimenticare altri e certamente positivi aspetti della "diversità" radicale.
Certo è che lo sberleffo che con il voto a Cicciolina tanti elettori di Roma e del Lazio avevano inteso fare al regime, ai partiti ed alla classe politica, si era tradotto in uno sberleffo al partito radicale.
La questione Cicciolina pare che sia stato il pretesto usato da Craxi per liquidare la richiesta di Pannella di ottenere, attraverso la sua nomina a ministro, una contropartita della politica di sostanziale appoggio al PSI e di inserimento nell’"area socialista" da lui perseguita, in buona sostanza, almeno dal 1983. Craxi avrebbe sostenuto che non c'era alcun modo, di convincere la DC ad una apertura al partito di Cicciolina. L'atmosfera del momento rendeva il pretesto plausibile, ma esso rimaneva pur sempre un pretesto. Successivamente doveva naufragare pure il, tentativo, compiuto con diverso metodo, attraverso la raccolta di firme di parlamentari di ogni parte politica, di ottenere la nomina di Pannella a Commissario CEE al posto attribuito invece a Ripa di Meana.
I veti cui era andato incontro avrebbero potuto rappresentare una fortuna per il Partito Radicale, se esso avesse voluto e saputo riprendere il ruolo che gli era proprio e che molti continuavano, malgrado tutto, a riconoscergli, di partito antiregime e di alternativa al regime, primogenitura da non svendere per il piatto di lenticchie di un riconoscimento (assai poco credibile, stante la provenienza) di una capacità di governo, che del resto, sarebbe rimasta, a nomina ottenuta, tutta da dimostrare.
Quegli eventi segnavano comunque il fallimento di una fase della politica radicale, portata avanti senza che il partito ne avesse potuto effettuare una chiara e cosciente scelta e quindi senza un approfondimento, una prudenza ed una stabilità di indirizzi che tale scelta avrebbe necessariamente comportato.
Alla delusione fece seguito una virata di centottanta gradi. Il PSI diveniva il nemico da combattere, e, mentre non venivano cercate e perseguite nuove alleanze, ci si rifugiava nella trasversalità ambigua del partito "transpartitico", che alla lotta al regime sostituiva la lotta per la "riforma della politica". E' da parte radicale che incominciarono, più o meno in quell'epoca, le proposte di riforma della legge elettorale in senso uninominale (e Pannella insisteva: "all'inglese" cioè senza doppio turno) per favorire i grandi schieramenti. Quello che dopo qualche anno doveva diventare il grande diversivo del regime, oltre che il tentativo di fronteggiare con nuove norme il calo dei suffragi, la riforma delle istituzioni e del sistema elettorale, trovava i primi sostenitori proprio nel partito antiregime che si accingeva a togliersi di mezzo.
D’altro canto la "trasversalità" che Pannella voleva imporre quale carattere del nuovo strumento politico di cui era alla ricerca, malamente veniva fatta coincidere con quella di schieramenti promossi ed animati dai radicali nella prima fase della loro esistenza, primo (e forse unico) tra tutti, quello divorziata. Altra cosa infatti è il determinarsi di un partito trasversale su di uno specifico tema politico, assurto a dato discriminante al di là ed al di sopra delle formule, altra cosa la pretesa di un partito di divenire esso stesso "trasversale", istituzionalmente e programmaticamente promotore di trasversalità da inventare, affidate non già all'affacciarsi di determinati grandi problemi, bensì alla dispersione dei suoi iscritti negli altri partiti.
Se a questo si aggiunge che una tale trasversalità avrebbe dovuto essere affidata non ad una comune, forte caratterizzazione culturale, ideologica, progettuale dei radicali, bensì ad un sempre più esclusivo ruolo carismatico del leader del partito interpartitico, tale progetto assumeva chiaramente un carattere irreale, se non fosse stato semplicemente la dissimulazione dello scioglimento, che il "popolo radicale" aveva rifiutato un anno prima. Considerazioni analoghe ed ancor più gravi ed ineludibili potevano e dovevano essere fatte per ciò che riguarda la cosiddetta "scelta transnazionale", nella quale ambiguità e megalomania, dissimulazione e ricerca di un alibi e di un diversivo per la perdita di ogni fede nella realizzazione del partito d'opposizione al regime e nel suo ruolo nella crisi del regime stesso, si fondevano e si sommavano in modi fin troppi evidenti.
Oramai, proprio perché la liquidazione del partito radicale non veniva più rappresentata crudamente come nelle precedenti occasioni in cui era stata posta la questione del suo scioglimento, o "cessazione di attività", proprio perché la liquidazione veniva ripresentata con un arzigogolo così elaborato ed ad un tempo privo di senso, essa era una prospettiva reale e le intenzioni di Pannella erano trasparenti. Trasparenti, ovviamente, per chi non si rifiutava di guardare la realtà e non aveva perso la capacità di autonomo giudizio. Ma su questo punto dovremo tornare più avanti.
Che il congresso da tenersi a Bologna avesse uno sbocco prestabilito, quello lasciato intravedere dalla assai fredda reazione di Pannella al raggiungimento della "condizione" dei diecimila iscritti alla seconda sessione del congresso dei 1986 - 1987 e dall'imposizione della nuova "condizione" dei tremila iscritti stranieri (peraltro non raggiunta) fu subito evidente, quando ne venne lanciato il tema: "Attraverso le frontiere, i partiti, gli stati nazionali un partito per l'Europa del diritto e della non violenza".
A Bologna il cosiddetto "gruppo dirigente" del partito si presentò compatto, preoccupato soltanto di interpretare puntualmente gli intendimenti di Pannella, che, con un procedimento che di solito usava quando voleva spingere l'imposizione delle sue volontà fino all'inverosimile, si tenne lontano dalle riunioni nelle quali quel gruppo andava preparando i deliberati e gli scenari del congresso, tenendolo però sotto stretto controllo.
Una riflessione sull'atteggiamento di tante persone, molte delle quali non prive di intelligenza ed esperienza politica, che non capirono o si comportarono come se non capissero (dovendo alcune di esse poi pentirsene amaramente) che il Partito Radicale veniva liquidato, pur lasciandolo in piedi formalmente come supporto essenzialmente finanziario di altre iniziative ed attività più congeniali a Pannella, dovrebbe pur essere fatta e porterebbe a conclusioni sconcertanti.
Responsabilità per la fine del Partito Radicale ne hanno un po' tutti, chi più chi meno, a cominciare da chi scrive. Aver evitato la rottura con Pannella ed aver ritenuto che si dovesse cercare di farlo uscire, salvandogli in qualche modo la faccia, da operazioni politiche senza sbocco, come quella sulla fame nel mondo o quelle paradossali sfide che gli erano e gli sono congeniali, era un atteggiamento rischioso e deprimente, ma poteva trovare una giustificazione nell'assoluta impossibilità di portare avanti il partito senza o contro Pannella. Ma spingere l'acquiescenza fino all’accettazione della liquidazione del partito era incredibile. Se non avessi mai combattuto una battaglia contro il reato di plagio, sarei portato a far ricorso a questa torbida e semplicistica spiegazione di rapporti umani. Ma un fenomeno collettivo, destinato ad avere conseguenze, grandi o piccole che siano, sulla vita sociale e politica di un paese è esso stesso storia e va discusso e giudicato con metro a ciò adeguato. Ed allora occorre dire che l'acquiescenza del cosiddetto gruppo dirigente radicale (sempre assai poco, ed, in quel caso, per nulla dirigente) dava la misura della fragilità, anche sul piano intellettuale e morale, cui si era ridotta quell'esperienza politica, della mancanza di un autentico sviluppo come forza aderente alla realtà.
La "svolta transnazionale e transpartitica" fu resa ancor più drasticamente efficiente, come mezzo di liquidazione del partito, con la deliberazione che il partito radicale "come tale" non avrebbe più presentato liste alle elezioni. In più venne deliberato il cambiamento del simbolo del partito, la rosa nel pugno, con un bruttissimo sgorbio raffigurante la testa di Gandhi formata da un formicaio di minutissime scritte "partito radicale" in centinaia di lingue. Uno sgorbio, sia detto per inciso, costato trenta milioni di onorario ad un designer. Per dare un volto transnazionale al partito (basti pensare al costo dei viaggi) Pannella non ha mai badato a spese.
Solo Enzo Tortora mi fu a fianco nel contrastare quelle decisioni. Con una felicissima battuta Enzo definì il "partito transnazionale" il nuovo "Cacao Meravigliao", il prodotto inesistente pubblicizzato nella trasmissione satirica di Arbore "Quelli della notte", che allora aveva grande successo.
Tranne Tortora, non uno di coloro che avevano o avevano avuto posizioni di rilievo nel partito si oppose alle proposte liquidatorie.
Bruno Zevi, in verità, votò a favore di un emendamento da me proposto che sopprimeva il punto della mozione della maggioranza relativo alla decisione di non partecipare più ad elezioni.
La massa degli iscritti sembrò ad un certo punto tutt'altro che docile e rassegnata e sembrò aver capito la sostanza di quanto le si andava ammannendo, assai meglio di quanto non mostrassero di averlo capito quanti, a vario titolo, erano investiti di particolari responsabilità.
I regolamenti del congresso non consentivano un confronto ad armi pari. Salvo il segretario ed il tesoriere e, al di sopra di ogni regola, Pannella, nei congressi radicali gli iscritti avevano dieci minuti per i loro interventi, che, ovviamente non potevano esprimere compiutamente una linea politica ed una critica serrata, specie da parte di chi non potesse contare su di un giuoco di squadra.
Scese in campo Pannella, per dire, in buona sostanza "o con me o contro di me", non risparmiando l'attacco personale ed i toni sprezzanti nei miei confronti, come del resto aveva fatto anche al congresso del novembre 1986.
Negri, segretario uscente, ci mise del suo, dicendo al congresso che io non riuscivo a capire la necessità dei grandi schieramenti e che ero attaccato all'idea del "partitino del 3%". Un'idea che egli stesso, di li a poco più di quattro anni, avrebbe dovuto inseguire come un miraggio non raggiunto e presto dissolto.
A rendere praticamente irreversibile il consenso bene o male ottenuto dal congresso, Pannella fece deliberare che il prossimo congresso sarebbe stato tenuto a Budapest. Così diveniva impossibile che si potesse tornare sulla questione del partito transnazionale e di un partito che fosse un partito e non un'agenzia turistica, quale quella che avrebbe organizzato i voli charter e distribuito i biglietti ferroviari scontati. Ben presto si sarebbe potuto fare a meno anche del voto dei congressi, domandando ogni potere ad un quadrunvirato. Dalla Convenzione si era passati al Consolato, saltando il Direttorio. Il Primo Console, del resto, c'era sempre stato.
La storia del Partito Radicale del dopo Bologna è la storia di un fantasma. Consigli federali tenuti a Gerusalemme o a Madrid con esibizione di consiglieri africani o russi o francesi, iscrizioni di qualche radicale ad altri partiti (ma, in pratica quelli noti furono accolti solo nel PSDI, che aveva bisogno di rifarsi un'immagine e di turare le falle di una scissione, né vi ebbero vita facile).
Poi nella primavera del 1989 le elezioni europee. Sembrò un successo della politica "transpartitica" del "nuovo" Partito Radicale. In realtà ne segnò allo stesso tempo l'inizio e la chiusura. Furono eletti tre radicali: uno, nelle liste verdi-arcobaleno, uno nelle liste antiproibizioniste e Pannella nelle liste liberali-repubblicane. Ma l'unificazione dei Verdi doveva segnare, di lì a poco, l'emarginazione di tutti i radicali di quell'area, tranne Rutelli, che aveva fatto la sua scelta, che con il "transpartitico" aveva chiaramente poco a che fare. Malumore, e peggio nei confronti di Pannella anche tra repubblicani e liberali. Restava lo spezzone antiproibizionista. Rotto il giocattolo considerato troppo piccolo, ma soprattutto non di suo gusto, Pannella avrebbe potuto continuare a giuocare con i pezzi di quello rotto.
Ma tutto ciò non è più storia del partito che aveva sfidato il regime, che lo aveva costretto a ripiegarsi su se stesso, svuotandolo di credibilità e di ideali, che poteva attendere il suo momento quando la crisi fosse divenuta totale e definitiva.
D'altro canto la scelta di Bologna, se così la si può definire, arrivava nel momento sbagliato anche sotto altro aspetto e dal punto di vista dei risultati che con quella scelta forse ci si ripromettevano.
Era proprio allora fallito il tentativo, portato avanti in modo strisciante, di fare del partito radicale un elemento importante di una rinnovata "area socialista". Il PCI, occupato fin da allora a cambiare pelle, non aveva affatto dismesso le antiche diffidenze nei confronti di Pannella e perseguiva l'obiettivo di non perdere pezzi per strada piuttosto che quello di aggregare nuovi carichi. I verdi sembravano sempre più preoccupati di difendere il loro ambiente da inquinamenti di ecologisti non integrali e puri. Il "transpartito" si riduceva dunque ad una sorta di angusta manovra con i quadri, priva di ogni supporto di idee e di programmi.
Ma sbagliato era anche il momento per una qualche credibile strategia "transnazionale".
Negli anni precedenti il Partito Radicale aveva accolto e dato voce a numerosi dissidenti sovietici e compiuto azioni dimostrative nell’URSS. Ora erano state raccolte adesioni in quel Paese ed istituito poi un ufficio di rappresentanza radicale. Se il tramonto del regime comunista fosse andato per le lunghe, con quella sorta di limbo tra legalità ed illegalità riservato all'opposizione, il partito radicale avrebbe potuto avere, se non un ruolo di rilievo nel passaggio alla democrazia, certo almeno occasioni di far notare la sua presenza e di sottolineare l'aiuto diretto esterno alla trasformazione in atto. Ma il 1989 segnò una accelerazione dei processo di democratizzazione tale da rendere del tutto insignificante l'impegno radicale che forniva oramai solo l'occasione ed il denaro per qualche viaggio in occidente di alcuni più o meno noti e credibili "radicali" di quel paese.
La trasformazione del Partito radicale si rivelava appieno per quello che era in realtà: la liquidazione di ogni prospettiva e di ogni funzione politica, oltre che di ogni personale politico, che non fossero quelli del mero supporto ai virtuosismi personali di Pannella.
Ben presto si sarebbe arrivati alla falange, o almeno al plotone o alla squadra delle "Teste di Cuoio" (o magari guardia pretoriana) di cui egli aveva parlato già nell'ottantuno. Ma nemmeno più delle "teste di cuoio" delle iniziative nonviolente, visto che, malgrado il simbolo con l’effigie di Gandhi ed il preambolo dello statuto con il rifiuto persino della legittima difesa adottato nel 1980, anche questa peculiarità radicale era stata disinvoltamente messa da parte in occasione del voto sulla partecipazione italiana alla guerra del Golfo.
Anche l'idea di lanciare una grande campagna antiproibizionista quale supporto della nuova presenza elettorale e di uno schieramento trasversale tra i partiti si è rivelata ben presto del tutto inadeguata, se non a soddisfare ambizioni assai più modeste. L'antiproibizionismo non ha la benché minima possibilità di divenire l'equivalente di quello che fu la questione del divorzio.
La libertà dalle "pastoie" di un partito, sia pure come quello radicale, potrà consentire qualche brillante spregiudicatezza e qualche più rapida evoluzione, ma nulla che abbia a che vedere con l'aggregazione di una forza politica capace di rispondere alle attese ed alle necessità nascenti dal tramonto di ideologie, dal corrompimento della classe politica e dei sistemi di potere, dall'inesorabile disfacimento del regime.
I funambolismi più abili ed arditi non potranno nascondere la realtà: il Partito Radicale è un partito che non c'è.

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