Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.6. Minoranze transnazionali

Questa "categoria" comprende quelle minoranze che vivono fra più stati ma non hanno né stato né territorio di riferimento in qualche modo "istituzionalmente riconosciuto". Si tratta di "popoli" insieme fortemente inseriti nel tessuto sociale dei paesi nei quali si trovano (ne parlano la lingua, contribuiscono spesso in modo cospicuo alla sua "caratterizzazione" culturale, ...) ed insieme hanno una vita fortemente "parallela", distinta della popolazione nazionale del paese in questione. I casi più emblematici di questa "categoria" sono rappresentati dagli zingari e dagli ebrei (ci sono ovviamente, al di fuori d'Europa, altri casi di questo tipo. I Tuareg per esempio). Senza entrare nel merito dell'analisi rispetto agli ebrei, pensiamo che sarebbe interessante capire come l'avere ottenuto uno stato nazionale ha influito sulla loro percezione di costituire un popolo transnazionale e come l'esistenza di questo stato ha influito e influisce sul loro rapporto con le culture degli stati-nazione in cui vivono oggi.

Questi popoli transnazionali trovano la loro coesione intorno a fattori linguistici. Fattori non univoci ma spesso riconducibili alla presenza territoriale. Questo è vero sia per gli zingari di oggi sia per gli ebrei di ieri, che non possono comprendersi tramite la loro lingua. Non per questo pero', gli zingari ritengono di non costituire un solo popolo. Sia per l'uno, sia per l'altro esempio, il sentimento di appartenenza "nazionale" si fonda su elementi culturali e sociali comuni, ma anche, per i due esempi dati, intorno ad un fattore di "comunanza etnica" (non e' rilevante, ci sembra, che la "continuita' etnica" esista "geneticamente" o meno).

Allargando i termini dell'analisi ci si puo' chiedere se altre comunita' umane, benche' non unite dal fattore etnico, non siano da considerare come "popoli transnazionali". Così, per esempio, delle comunità cristiane dei primi secoli dopo Cristo, non certo "etnicamente omogenee", che vivevano, anche loro, una doppia integrazione: all'interno del paese di residenza o di "cittadinanza" e all'interno della loro comunita' (transnazionale) religiosa. Un simile ragionamento potrebbe essere sviluppato, oggi, nei confronti di comunità religiose come quella dei "Testimoni di Geova" o di numerose chiese protestanti. Sempre in questa chiave si potrebbe leggere il caso delle chiese anabattiste del Medioevo e quello di molte delle chiese "comuniste" di questo secolo. In questi casi, però, le opposizioni e le contraddizioni tra i due ambiti di integrazione, hanno portato a privilegiare l'appartenenza "comunitaria", e quindi, a scontrarsi con lo stato di appartenenza, facendosi distruggere (anabattisti) o, invece, sottomettendolo (comunisti).

Ma ritorniamo alla questione "zingara", la più pertinente con questi spunti che vogliamo, al momento, circoscrivere al contesto europeo. Se, come viene affermato dal leader dei Rom di Romania, Gheorghe Nicolae, e' necessario che venga riconosciuta la "legittimità della (loro) differenza" insieme con "l'uguaglianza della (loro) cittadinanza", ci sembra necessario che vengano trovate formule politiche ed istituzionali affinché questa particolare legittimità possa articolarsi con quella dello stato-nazione nel suo insieme e, conseguentemente, perche' una partnership vera possa essere instaurata con la popolazione maggioritaria.

Non si tratta, in questo caso, di immaginare proposte di autonomia territoriale, o addirittura di indipendenza territoriale e/o nazionale. Anche se a questo proposito, si sente a volte parlare di dare, al popolo rom, una terra, uno stato-nazione così come e' stato fatto con Israele per gli ebrei. Recentemente si parlava in modo esplicito di una loro collocazione sul territorio di Konigsberg, attualmente enclave russa tra la Polonia e la Lituania. E questo, non per cosiddette caratteristiche proprie del popolo zingaro, ma perché i rom stessi non lo vogliono: "i Rom, popolo europeo senza stato-nazione, non scelgono altra patria che la democrazia".

Se non sembra pertinente quindi soffermarsi su una ipotesi di "stato-rom", non per questo ci sembra da escludere la creazione di una forma di rappresentanza e di autogoverno comunitario del popolo rom (o, in un primo tempo dei popoli rom). Al contrario, una riflessione in questa direzione ci sembra non solo auspicabile ma anche urgente. Per diverse ragioni. Prima di tutto perché ci sembra impossibile che la lotta per l'"emancipazione" che sta perseguendo il popolo rom possa essere raggiunta grazie a sole organizzazioni non-governative e/o rappresentanza parlamentare "etniche" di tipo sindacale. Crediamo, invece, che una tale emancipazione passa anche attraverso la riforma (non la cancellazione o la distruzione) di strutture istituzionali di rappresentanza e di autogoverno oggi completamente interne al o ai popoli rom, ovvero senza nessuna esistenza legale né per gli stati né per i cittadini (rom e non), e quindi slegate per lo più dai criteri della democrazia.

In questo senso la forma "comunitaria" di rappresentanza e di autogoverno, nel senso visto precedentemente, potrebbe costituire un importante elemento di riconoscimento della loro esistenza e quindi di responsabilizzazione sia dei rom rispetto a loro stessi e rispetto all'intera società, sia della società stessa nei confronti della comunità rom. Potrebbe, inoltre, contribuire al rafforzamento di una classe politica dirigente e alla sua autonomizzazione rispetto ai ceti "ricchi" ed "integrati" del popolo rom. Potrebbe infine, e principalmente, facilitare la conoscenza e quindi il rispetto reciproco, e conseguentemente costituire un rimedio contro le crescenti incomprensioni e tendenze all'intolleranza di cui i rom sono vittime.

Si tratterebbe certo di definire gli ambiti di competenza di questa "comunità". Definizione che non può essere meccanicamente copiata da quella delle comunità etniche nazionali di cui abbiamo parlato prima, visto il particolare rapporto che intercorre tra i popoli rom ed gli stati ed i popoli degli stati in cui vivono. Ci sembra pero' che debbano essere organizzati sia l'autogoverno di alcune materie riconducibili all'educazione, ed in particolare l'insegnamento della lingua e della storia rom, sia l'autogoverno della cultura specificamente rom.

Con questo arriviamo ad un aspetto fondamentale della "questione rom": la sua caratteristica transnazionale. Aspetto questo di approccio particolarmente difficile per diverse ragioni. Prima di tutto per l'assenza di istituzioni europee nelle quali la questione rom possa essere globalmente ricondotta e quindi affrontata. In effetti, le uniche istituzioni "pan-europee" in cui la questione rom puo', oggi, essere affrontata, se non nella sua globalita' quanto meno su scala rilevante, sono il Consiglio d'Europa e la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), istituzioni intergovernative con una capacità di incidenza politica pressoché nulla, con la relativa eccezione del Consiglio d'Europa in materia di diritti umani.

Senza aspettare quindi la nascita di una unione federale degli stati e delle regioni europee (Stati Uniti d'Europa) che, come vedremo successivamente, sembra piu' allontanarsi che avvicinarsi, ci sembra che possano essere perseguiti alcuni obiettivi puntuali, ed in qualche modo intermedi, rispetto a questo obiettivo federale e federalista europeo. All'interno della CE e delle sue istituzioni, nei cui paesi membri vivono minoranze rom piu' o meno numerose, potrebbe essere previsto per la "comunità rom" uno status di minoranza transnazionale. Status che potrebbe, di riflesso, servire da modello per i paesi del Centro e dell'Est Europa, e, addirittura essere integrato negli accordi di associazione che la CE sta man mano stipulando con questi paesi.

Sempre in seno alla CE, ma in collegamento con il Consiglio d'Europa, si potrebbe immaginare una serie di meccanismi tendenti ad incoraggiare i tentativi, finora ancora marginali, ad opera di alcuni studiosi rom, di codificazione-unificazione della lingua rom. Infine, e sempre nella CE, andrebbe sviluppata una riflessione sul come associare le comunità non territoriali e transnazionali (e quindi quella rom) al Consiglio Consultivo delle regioni, previsto dal trattato di Maastricht (articolo 198).

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