Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

2.01. La crisi della Comunità europea

Che la C.E. stia attraversando una gravissima crisi non è più un mistero per nessuno. Più incerta è invece la consapevolezza della natura di questa crisi. Un certo atteggiamento, fatto di mistificazione e di disinformazione, ad opera dei governi e delle burocrazie nazionali da una parte, e dalla stragrande maggioranza dei mass-media dall'altra, rende oggi molto difficile, se non impossibile, all'opinione pubblica della C.E. e degli altri paesi europei capire la natura e l'ampiezza di questa crisi.

Per di più un succedersi di avvenimenti, dall'unificazione tedesca alla crisi monetaria che ha coinvolto Inghilterra, Spagna e Italia, dal "no" al referendum danese al piccolo "si" al referendum francese per il Trattato di Maastricht, dalla recessione mondiale alla "riforma" dell'agricoltura europea e alla dimissione al GATT, dagli enormi, dolorosi, e spesso sottovalutati, processi di mutazione dei paesi ex-comunisti alla tremenda guerra di aggressione del regime serbo nell'ex-Yugoslavia e la non meno tremenda dimissione dell'Europa, dal rinascere, ovunque nel mondo, delle questioni nazionali al moltiplicarsi, in Occidente, degli atteggiamenti di intolleranza nei confronti dello straniero, del diverso, hanno reso ulteriormente difficile la comprensione della crisi che stava - logicamente però - avvenendo nel processo di costruzione dell'Europa.

Una crisi che non è, quindi, congiunturale, ma che è iscritta nel modello stesso alla base dell'insieme del processo di costruzione "comunitaria", ovvero quello fondato sul postulato del primato dell'economia sulla politica, sul dogma che voleva - e vuole tuttora - che la convergenza delle economie dei paesi occidentali avrebbe portato, quasi naturalmente all'unificazione politica del continente.

Quarant'anni di lavoro in questa direzione non sono stati privi di successi rispetto ad uno degli obiettivi iniziali, quello della convergenza delle varie economie. Oggi, però, vengono alla luce, "grazie" anche ai formidabili fattori esterni di cui abbiamo parlato, i limiti di una tale costruzione. La sua incapacità - appunto - di affrontare con serietà e tempestività le nuove problematiche - o addirittura catastrofi, perfino sullo stesso continente europeo.

Dalla guerra del Golfo a quella nell'ex-Yugoslavia, dalla Somalia al Caucaso, l'Europa si trova, nel migliore dei casi, al rimorchio degli Stati Uniti d'America.

Parallelamente, la prassi - ormai consolidata - da parte delle classi dirigenti dei vari Paesi della Comunità europea di nascondersi dietro direttive o pseudo direttive di Bruxelles per far passare misure di razionalizzazione o di ristrutturazione all'interno del proprio paese, ha progressivamente indotto i cittadini, in particolare quelli di categorie più a rischio come gli agricoltori o i lavoratori dei settori "vecchi" dell'industria a vedere nella Commissione europea il responsabile "de tous les maux".

Da parte loro, le istanze esecutive di Bruxelles, non affatto insensibili al canto delle sirene "tecnocratiche" e "burocratiche" hanno capito con molto - troppo - ritardo i richiami provenienti dal Parlamento europeo e, soprattutto da alcuni gruppi federalisti, non ultimo il Partito radicale, per un drastico cambiamento di strategia, per l'attuazione, quindi, di una riforma che dia alla costruzione comunitaria solide basi democratiche, incluso una architettura chiara, intellegibile a tutti i cittadini europei.

In particolare si proponeva di cominciare a riportare l'edificio comunitario alle regole della democrazia e del federalismo classico, ovvero alla divisione dei poteri, alla trasparenza ed al controllo di questi, nonch‚ al ruolo imprescindibile del cittadino.

Il ritardo della Commissione, la pressione del tutto insufficiente del Parlamento europeo, la mancanza o l'inadeguatezza di partiti e movimenti federalisti europei hanno quindi lasciato spazio libero ai Governi nazionali, ovvero al Consiglio europeo ed alle sue consuete pratiche fondate sui "do ut des" nazionali, lontani se non estranei - per natura oltrech‚ per scelta ed interesse di potere - alla questione della democratizzazione della costruzione europea, a quella del suo deficit democratico.

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