Federalismo e nazionalità, di Olivier Dupuis

1.3. Lo Stato dei cittadini ed i diritti delle minoranze

Se deve essere ben chiaro che l'approccio alle nuove-vecchie questioni nazionali non può non essere quello dello stato dei cittadini, ovvero quello democratico che garantisce a tutti i cittadini gli stessi ed identici diritti, rimane da affrontare la questione dei diritti la cui applicazione, il cui esercizio (ma non la cui sostanza) va diversificato in funzione dell'appartenenza ad una comunità etnica piuttosto che ad un'altra.

1.3.1. Federalismo non territoriale

Questi diritti comprendono quelli chiamati "personalizzabili" (vedere la Costituzione belga modificata) e quelli detti "culturali". I primi implicano un rapporto diretto tra il cittadino con le istituzioni e le amministrazioni statali (la giustizia per esempio, ma anche la sanità, ...). I secondi riguardano da una parte la facolta' per il cittadino di poter intendere ed esprimersi nella propria lingua materna (educazione, informazione radio-televisiva, ...) e, dall'altra, la possibilità di poter "vivere" la propria cultura, riconducibile all'autonomia culturale propriamente detta (cultura, e quindi anche i rapporti - internazionali o non - con le altre culture o con le comunità di stessa cultura viventi in altri paesi).

Deformato dal culto dell'autodeterminazione, il concetto di autogoverno per l'esercizio di questi diritti non e' stato quasi mai dissociato da quello di autogoverno territoriale. Finora in effetti il federalismo democratico, ovvero il federalismo infranazionale, si e' sempre concretizzato con la delega da parte dello stato di alcune delle sue prerogative (non solo amministrative) a delle sue entità federate, le cui realtà e tangibilità, come per lo stato, erano fondate su, e riconducibili ad un territorio.

Solo nella tradizione austro-asburgica (Otto Bauer e Karl Renner tra gli altri), si possono individuare alcuni primi sviluppi di una teoria dell'autogoverno per quelle comunità etniche non riconducibili ad un preciso territorio. Nella storia più recente, i legislatori belgi hanno tentato di ri-attualizzare questo concetto, dando origine ad una organizzazione federale dello stato fondata su due pilastri: le comunità (per le materie "personalizzabili" e quelle culturali in senso lato) e le regioni (per le altre materie delegate). Purtroppo fecero corrispondere, ad eccezione della regione di Bruxelles-Capitale (sul territorio della quale le due comunità possono esercitare le loro competenze), l'appartenenza comunitaria con l'appartenenza regionale, vanificando la possibilita' per le minoranze in seno alle regioni di poter "vivere" le loro peculiarità di minoranza "etnico-linguistica" nelle istituzioni di un'altra comunità etnico-linguistica.

1.3.2. Autogoverno e integrazione

Questa intuizione - con le sue parziali realizzazioni -, sebbene seducente sotto molti aspetti, non è però priva di interrogativi. Ed in particolare quello che riguarda la necessaria integrazione senza la quale difficilmente una comunità umana e più specificamente una entità statuale può sopravvivere. A questo si può rispondere, senza pretendere per questo di esaurire tutta la problematica, che nell'organizzazione statuale dove vige l'autonomia o l'autogoverno "comunitario" dovrebbe esistere anche una organizzazione federale di tipo classico o territoriale, al fine questo, anche, di "costringere" le diverse comunità a lavorare e decidere insieme sulle materie (la maggiore parte) che le riguardano indistintamente o indipendentemente dalla loro appartenenza "etnica"; ci riferiamo a quelle riconducibili al "territorio" (politiche economica, ambientale, urbanistica, dell'alloggio, dei trasporti, ..., nei loro aspetti pertinenti con la dimensione regionale) e non all'appartenenza "etnico-comunitaria".

1.3.3. Integrazione e democrazia linguistica

Integrazione vuole dire anche capacità di comunicare e quindi di comprendersi. Una questione molto sensibile. La lingua, in effetti, riporta direttamente all'identità nazionale. E, molto spesso, una sia pure minima messa in discussione della sua valenza in quanto mezzo unico di comunicazione "nazionale" viene subito risentita dalla nazione "maggioritaria" come una minaccia alla sua esistenza stessa. Allo stesso modo, la lingua, la possibilità di poterla praticare, rappresenta per le "nazioni" minoritarie il segno più tangibile della loro diversità e quindi della loro esistenza in quanto gruppo distinto.

La questione della comunicazione, riconducibile al concetto di democrazia linguistica, va affrontata sia all'interno degli stati in cui vengano usate diverse lingue materne, sia nelle federazioni tra stati linguisticamente diversi (e, di riflesso, anche per la questione della comunicazione mondiale) cercando di superare o, quanto meno, di limitare le situazioni, i comportamenti, i rapporti pubblici, "statuali" (o "federali") di tipo "imperiale" derivanti da una disuguaglianza di fronte alla conoscenza di una lingua. Il problema non e' di poco conto. In effetti e' la democrazia stessa che viene a mancare se, per una mancata padronanza di una lingua, una persona viene discriminata. Cosa che puo' succedere, per esempio, quando un imputato viene giudicato in una lingua che non e' la sua lingua-madre.

Storicamente tale questione della lingua di comunicazione è stata affrontata e "risolta" (anche se spesso solo per un periodo) con l'imposizione come lingua di comunicazione della lingua del più forte. Gli esempi di questo tipo sono pressoché infiniti: dal latino nell'impero romano al russo nell'impero sovietico passando all'inglese, al francese, allo spagnolo, al portoghese in moltissimi paesi del cosiddetto terzo mondo. D'altra parte, si sono affermati, più recentemente, anche in seguito ai processi di "emancipazione nazionale", dei sistemi statuali dove due o più lingue hanno conseguito lo status di lingua nazionale (bilinguismo o plurilinguismo), come in Canada, in India, in Belgio, in molti paesi africani ... o nella Comunità europea. Un approccio che, oltre a comportare dei costi non indifferenti, non risolve la questione della comunicazione tra i più, essendo limitato ad alcuni momenti istituzionali ed amministrativi. Un approccio inoltre che, per ovvie ragioni tecniche e finanziarie, difficilmente potrebbe funzionare in strutture statuali dove convivrebbero un alto numero di lingue, come viene già dimostrato da una Comunità europea che conta, allo stato, nove lingue ufficiali.

A meno quindi di rassegnarsi al prevalere di lingue "imperiali", che esse lo siano soltanto regionalmente o nazionalmente nei confronti di lingue "minoritarie", o che lo siano universalmente, come sta accadendo per l'inglese, l'unica strada alternativa che ci sembra percorribile e' portare sul terreno politico la questione della scelta di una lingua franca, neutrale, di comunicazione tra le persone (e quindi non più soltanto tra gli esperti e le "élites") di madre-lingua diversa. Una riflessione questa, avviata solo di recente e, purtroppo, ancora marginalmente da una Comunità europea confrontata a problemi, già enormi, risultanti della convivenza di nove lingue ufficiali.

1.3.4. Autogoverno e democrazia

All'ipotesi di un ordinamento istituzionale di tipo federale-non territoriale, viene spesso contestato la sua non-applicabilità, la sua non realizzabilità, in forma democratica. Una critica che ci sembra infondata in quanto non si capisce perche' una comunità etnica non potrebbe eleggere, in modo democratico, un suo proprio "parlamento comunitario" dal quale emanerebbe un "governo comunitario", responsabile della conduzione delle politiche proprie della comunità etnica in questione. Ovviamente non si tratta - e non e' certo l'obiettivo di questi spunti - di creare in astratto l'elenco mondiale di tutti i gruppi che dovrebbero poter usufruire di un ordinamento istituzionale piuttosto che di un altro. Deve vigere su tale questione il principio di realtà, ovvero deve esserci, in questo caso, la coscienza del gruppo etnico di esistere in quanto comunità a sé e la volontà di assumere, in quanto comunità distinta, la gestione degli "affari" che ritiene proprie.

Certo, una tale opzione comporterebbe alcuni problemi per quanto riguarda i metodi di rappresentanza e di elezioni. Non ci sembra, pero', che essi siano insormontabili. La definizione delle circoscrizioni, per esempio, potrebbe essere affrontata del tutto normalmente, grazie ai censimenti che, nella maggiore parte dei casi, gia' prevedono la specificazione della nazionalità di appartenenza. Oppure, e forse meglio, su base della scelta dell'elettore, quindi volontaria e segreta, che, al momento del voto e con il suo stesso voto sceglierebbe la sua Comunità etnica di appartenenza. Appartenenza quindi che oltre ad essere segreta, potrebbe essere modificata in occasione di un ulteriore voto.

Semmai il problema è più generale, ovvero riguarda il sistema politico ed, in particolare, i meccanismi di elezione e di formazione e funzionamento della o delle assemblee elettive e di governo. Non c'è ragione in effetti che non si manifestino per delle assemblee regionali, comunitarie od altre, gli stessi effetti indotti dalla partitocrazia manifestatisi, o in corso di manifestarsi, nella maggiore parte degli Stati di vecchia o nuova democrazia del Continente europeo a tutti i livelli di rappresentanza (parlamentari e comunali in particolare). C'è da notare, però, che nel caso del sistema di scelta della comunita' di appartenenza tramite il voto, si impone la circoscrizione "comunitaria" unica, e quindi, conseguentemente il sistema elettorale proporzionale.

1.3.5. Federalismo, democrazia e sistema elettorale

Ci sembra quindi pertinente legare alla questione dell'articolazione istituzionale delle minoranze nei loro stati di appartenenza, quella che riguarda la natura del sistema istituzionale-elettorale vigente all'interno di queste strutture "federate". In altre parole, ci sembra che anche qui l'alternativa sia tra democrazia di governo (anglosassone) e quella rappresentativa (proporzionalista).

E la connessione è più diretta di quanto possa apparire. In effetti se per le ragioni che abbiamo visto sopra, e' auspicabile accoppiare alla dimensione federale comunitaria quella federale regionale, l'esistenza anche in questa seconda dimensione di un sistema maggioritario diventa una garanzia (benché certamente non assoluta) perché gli schieramenti non avvengano su base etnica (magari anche in netta contrapposizione) ma su base inter-etnica creando quindi le condizioni per una effettiva collaborazione tra le varie etnie.

Per quanto riguarda la ripartizione delle risorse finanziarie fra le varie comunità etnico-linguistiche, anche essa potrebbe essere calcolata sia su base del censimento sia su base dei risultati elettorali, ovvero con l'attribuzione a ciascuna comunità di una soglia di finanziamento (eventualmente anche in qualche modo corretta o ponderata) in rapporto al numero di "appartenenti alla Comunità".

In alternativa, o in modo complementare, si possono attribuire - come per i Laender tedeschi - alle varie entità autonome poteri di autofinanziamento tramite imposte e tasse autonome. In questo caso, però, l'appartenenza "comunitaria" dei cittadini dovrebbe essere palese, ufficiale.

Sempre sulla questione del finanziamento, il sistema di perequazione fiscale in vigore nella Germania Federale, che prevede meccanismi automatici di redistribuzione di risorse tra Laender ricchi e quelli poveri, puo' costituire un importante fattore di solidarietà e di coesione al livello nazionale tra le varie comunità.

Tornando alla "critica" di cui sopra, ovvero alla non o poca democraticità di tali istituzioni, ci sembra invece che sia proprio l'assenza di tali istituzioni ad essere una delle cause principali del rafforzamento delle caratteristiche "totalizzanti" e del debole "tasso" di dialettica democratica di molti dei partiti delle minoranze nazionali oggi esistenti. In effetti, in assenza di tali strutture federali-comunitarie democratiche, prevale la logica della difesa "sindacale" degli interessi della "comunità minoritaria" nei confronti della maggioranza, la chiusura su se stessa, e non il confronto delle idee, la dialettica democratica all'interno della minoranza stessa e tra la o le minoranze e la maggioranza. Per non parlare degli effetti piu' generali indotti dall'assenza di queste istituzioni: in primo luogo il rafforzamento dei sentimenti di diffidenza reciproca tra "maggioranza" e "minoranze", spesso nutriti da contrapposizione secolare, dovuti all'assenza di chiarezza e di definizione dei rapporti reciproci.

1.3.6. Comunita' etnica, minoranza nazionale, co-nazione

Un altro interrogativo riguarda la definizione stessa di "comunità etnica" e/o di "minoranza nazionale". Questione, questa, delicatissima per varie ragioni. Prima di tutto in quanto si scontra direttamente con il sentimento nazionale dell'etnia dominante, ovvero del suo monopolio al diritto di corrispondere in quanto nazione al territorio nazionale nel suo insieme.

Una questione che non si pone soltanto nel caso dei serbi della Krajina (o delle Krajine), degli armeni dell'Alto Karabach o degli ungheresi del Paese dei Siculi ("Szekely Fold"), minoranze etniche nazionali, ma regionalmente maggioranze, che vivono da secoli su queste terre, ma anche nel caso delle comunita' turche, marocchine, algerine, per fare solo alcuni esempi, che vivono da alcuni decenni, numerose, spesso concentrate e con volonta' di mantenere delle proprie e forti caratteristiche culturali, in vari paesi dell'Europa Occidentale.

A questo proposito si e' proceduto in alcuni casi concreti (ma finora solo nei casi di "vecchi insediamenti"), attraverso "leggi sui diritti delle minoranze", a stabilire delle "soglie", delle percentuali minime, che una volta raggiunte facevano automaticamente scattare, per le comunità etniche minoritarie, la possibilità di usufruire di una serie di diritti. Se l'aspetto numerico, in rapporto alla popolazione totale del paese e/o in rapporto a quello di una regione data, rappresenta senz'altro un dato significato, pensiamo che il dato fondamentale sia la coscienza stessa della popolazione di costituire una "minoranza" ovvero una comunita' distinta. Un dato pero' che non puo' avere significato al di fuori di una sua espressione democratica, ovvero tramite elezioni, referendum.

Sempre su questo aspetto, può essere utile un approfondimento della riflessione avviata da alcune minoranze nazionali sul concetto di "co-nazione". Non solo nel senso di "con-partecipazione" piena alla vita del paese ma anche nel senso che il riconoscimento della sua esistenza non dovrebbe costituire una "discriminazione positiva" nei confronti della maggioranza, bensì una divisione funzionale tra "maggioranza" e "minoranze" di alcuni compiti e delle responsabilità. Apparentemente "semantica", tale questione viene avvertita molto spesso come sostanziale da queste comunita' etniche che, benché "minoritarie" e desiderose di auto-governare i momenti della loro peculiarità etnica, vogliono concorrere, a tutti gli effetti, alla vita del paese in cui vivono. In questo senso al termine "minoranza" che viene da loro risentito come peggiorativo perché percepito come sinonimo di "categoria secondaria", vengono preferiti i termini "co-nazione", "comunità" o "comunità etnica", che, benché marcando la specificità, non comprendono questo aspetto peggiorativo.

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