7. Il PR dagli anni del centrismo agli albori del centrosinistra
Il Partito Radicale comparve ufficialmente sulla scena politica italiana l’11 dicembre 1955. Così Pannunzio, Carandini, Libonati e altri uomini appartenenti alla cosiddetta "Sinistra Liberale" avevano deciso di fare il grande passo e scindersi dal PLI che avevano rifondato durante la resistenza e che ormai era sempre più incline a una politica conservatrice. Era la logica conseguenza di anni di contrasti e momentanee riappacificazioni. I primi importanti dissidi infatti tra Sinistra e partito si erano già manifestati tra l’inizio della segreteria Cassandro (III Congresso liberale nell’aprile 1946) e l’esito del IV Congresso del PLI (30 novembre 3 dicembre 1947), che vide l’uscita di numerosi esponenti della sinistra sia dal partito stesso che dal suo quotidiano "Risorgimento Liberale". La segreteria Cassandro assorbì nel partito i "democratici italiani" che annoveravano tra le loro file esponenti della destra monarchica come Lucifero e Selvaggi. Una volta entrati nel PLI si prodigarono per portare il partito su posizioni sempre più conservatrici. Ciò emergerà nel IV Congresso liberale (Roma 1947) in cui, nonostante l’opera mediatrice di Cassandro e l’intervento di Croce, i contrasti tra le due opposte correnti del liberalismo si fecero insostenibili: da un lato gli elementi conservatori, appoggiati se non finanziati dagli ambienti della Confindustria, volevano fare del partito un paladino degli interessi padronali e contenitore di tutte le forze a destra della DC; dall’altro gli elementi liberaldemocratici che propugnavano un partito laico e riformatore, libero da poteri forti. La svolta a destra ad opera della segreteria Lucifero si concretizzò nella elezioni politiche del ‘48 nel Blocco Nazionale, che vide accanto ai liberali l’Unione per la Ricostruzione Nazionale di Nitti e il Partito dell’Uomo Qualunque. La sinistra liberale con alcuni esponenti del partito criticò in maniera netta la decisione della segreteria e come risposta lo staff dirigente di Risorgimento Liberale abbandonò prima il giornale, e poi anche il partito. La sinistra liberale, dopo l’ uscita dal partito costituirà un movimento liberal-indipendente che porterà alla formazione de "Il Mondo". Lucifero tirò dritto per la sua strada e l’alleanza con i qualunquisti non salvò il PLI dalla sconfitta elettorale del 18 aprile: i voti moderati infatti andarono alla DC, mentre i reazionari più accaniti preferirono i partiti della destra monarchica e il neonato MSI.
La disfatta elettorale provocò un ripensamento sulla politica conservatrice del partito e i maggiori esponenti di centro tra cui Einaudi e Croce, si mossero per allontanare Lucifero dalla segreteria. Dal V Congresso liberale (Roma, luglio 1949) in cui fu eletto nuovo segretario Villabruna, uscì una programma di ritorno alla concezione centrista del partito e questo cambiamento favorì la breve riunificazione delle forze liberali avvenuta a Torino nel dicembre 1951. L’unificazione fu concepita dal gruppo del Mondo in funzione chiaramente laica e progressista. Questa riunificazione assunse un significato specifico nel clima di quegli anni: alla vigilia delle amministrative del ‘51 il quadripartito voluto da De Gasperi non esisteva più, e i partiti laici si accorsero della pesante ipoteca pagata alla DC in nome dell’anticomunismo. Specchio di questa crisi furono i risultati elettorali del ‘51 in cui la DC perse rispetto al ‘48 quattro milioni di voti, il PCI ebbe una leggera perdita e il PSI ottenne un notevole successo. In questo nuovo clima si pose in termini concreti l’unificazione di tutte le forze liberali e si aprì il dibattito sul problema della terza forza. Nel ‘51 l’esigenza di un fronte laico anti DC era più pressante; La Malfa stesso al congresso nazionale del PRI (Roma ottobre 1951), sostenne la necessità di indire una "Costituente programmatica tra i partiti democratici laici" per preparare una base elettorale per le politiche del ‘55. La sinistra liberale reagì con cautela a questa proposta: Cattani infatti aveva sostenuto sul "Mondo" che ormai il PLI doveva decidere se essere un partito conservatore o progressista. Croce invece ribadì l’assurdità della divisione del partito in destra e sinistra. Dal convegno dell’unificazione uscirono solo mediazioni e compromessi tra le diverse anime del PLI, che si scontreranno definitivamente tre anni più tardi con l’avvento di Malagodi alla segreteria del partito nell’aprile del ‘54. Nel frattempo le elezioni amministrative del ‘52 che avevano evidenziato la crisi del quadripartito e soprattutto della DC, e la "legge truffa" per le politiche del ‘53 e la relativa sconfitta dei partiti laici, delusero i liberali del Mondo, i quali continuarono ostinatamente a sperare nel progetto di servirsi del PLI come strumento di terze forza, fino a quando questo progetto non fu ostacolato dall’ avvento della segreteria Malagodi. Il nuovo segretario di cui erano note le sue simpatie confindustriali e conservatrici decise infatti di ripercorrere la strada di Lucifero. Il contrasto tra la sinistra liberale e la gestione Malagodi si acuì progressivamente a causa del comportamento del segretario liberale di fronte ai problemi politici più spinosi del tempo. Uno dei punti più salienti della polemica fu la questione dello sganciamento delle aziende IRI dalla Confindustria: Il Mondo già lo aveva accusato di muoversi "sul filo del rasoio". Nei primi di agosto del ‘54, alla Camera, l’ex segretario Villabruna come Ministro dell’Industria votò l’ordine del giorno Pastore che prevedeva lo sgancio. Al contrario Malagodi e tutto il gruppo liberale votarono contro, allineandosi con i monarchici e il MSI. Secondo le sinistre, la vera pratica liberale consisteva nell’attrarre il consenso dei ceti medi, mentre l’accusa principale rivolta a Malagodi era di avere fatto assumere al PLI toni e posizioni tali da assicurargli le simpatie dei ceti padronali: "Il nobile partito di Croce e di Einaudi è stato affittato (neppure comprato) dall’Assolombarda". Le divergenze raggiunsero il loro apice nel febbraio 1955 quando riesplose la questione dei patti agrari e Malagodi sconfessò l’azione dei due ministri liberali Martino e Villabruna. Le critiche della sinistra si fecero aspre: Carandini accusò Malagodi di aver rovesciato la politica del partito e di averlo fatto passare da partito di centrosinistra a partito di centrodestra, e aveva fatto intendere il proposito di un nuovo partito: "O il PLI tornerà alla sua autentica funzione di avanguardia o altre formazioni politiche, fondate su una nuova leva di uomini accomunati da più forti aspirazioni e da più sincere affinità, sorgeranno a raccogliere quella eredità e ad assumere quell’impegno per l’avvenire". Mario Paggi constatava che il PLI era divenuto un semplice partito di destra11. Il 30 giugno 1955 la sinistra si convocò a Roma per organizzarsi in corrente all’interno del PLI, per combatterne la svolta a destra. In un documento politico della fine di Luglio del ‘55 venivano esaminati dettagliatamente tutti gli strumenti organizzativi necessari per incidere più a fondo sulla situazione: una fitta serie di rapporti con le situazioni locali, l’appoggio di riviste quali Il Mondo, Nord e Sud, Critica Liberale e l’eventualità di "un’associazione di azione politica...che prescindendo dall’esistenza del PLI e contemplando la possibilità dell’adesione di organismi (circoli, giornali), si presenti come "lega o unione" potendo così definire esplicitamente una propria piattaforma politica"12. Nella polemica il centro del partito cercò di mediare evitando la rottura: il 31 luglio ‘55 a Palazzo Carignano a Torino il centro e la sinistra tennero il loro convegno in cui gli esponenti della sinistra criticarono duramente Malagodi e l’evoluzione del PLI. Le reazioni del segretario furono fredde: per lui il convegno di Torino non avrebbe mutato la sua politica e il partito liberale non si sarebbe prestato alla manovre per farne "...una foglia di fico per aperture a sinistra più o meno dissimulate...". La situazione precipitò rapidamente e così il 10 dicembre 1955 a Palazzo Bancani a Roma si tenne il convegno costitutivo del Partito Radicale dei Liberali e Democratici Italiani. Quattro giorni prima un taccuino de Il Mondo aveva preannunciato la nascita del partito: "Gli uomini che fondarono il Partito liberale nella resistenza...si accingono a costituire una nuova larga formazione politica che si ispiri a una concezione moderna e civile del liberalismo... in questo campo i "padroni del vapore" non troveranno certo mercenari e staffieri pronti a vendere le idee per un assegno mensile. Dirà l’avvenire se i promotori del nuovo partito hanno avuto torto a non disperare"14. L’ annuncio ufficiale fu dato l’11 al Teatro Cola Di Rienzo di Roma nel corso di un comizio che aveva come slogan "Un partito nuovo per una politica nuova". Il nuovo partito il cui nome fu presto ridotto a Partito Radicale si prefisse come finalità " ...di operare il rinnovamento della vita morale, politica ed economica del paese, per rendere libera, giusta e sicura la democrazia italiana ed inserita in un sistema politico ed economico europeo, e prese come simbolo l’immagine della dea libertà col berretto frigio, lo stesso emblema che i rivoluzionari napoletani avevano reso popolare nel 1799. Aderirono al partito uomini politici provenienti da altre correnti democratiche come gli ex azionisti Leo Valiani, Ernesto Rossi, il repubblicano Mario Boneschi e Leopoldo Piccardi di Unità Popolare e esponenti dell’intelligenza laica come Benedetti, Antoni. Accanto a nomi prestigiosi dentro al nuovo partito confluì anche un numeroso gruppo di giovani appartenenti alle organizzazioni democratiche universitarie: Giovanni Ferrara in un suo articolo afferma che il Pr era un partito di giovani. Una gran parte proveniva dalla Gioventù liberale, accanto a questa c’erano i giovani di Unità Popolare che si battevano per l’unità delle sinistre laiche. Inoltre c’era una terza componente giovanile particolare per la sua concezione dell’autonomia della politica, della militanza e della libertà: l’Unione Goliardica Italiana da cui provenivano Marco Pannella e Franco Roccella. I giovani ugini conducevano una grossa polemica con il modo di far politica dei partiti tradizionali; alla milizia del partito opponevano la responsabilità personale, la chiarezza culturale, l’amore per la libertà. Il partito poteva inoltre contare anche su due prestigiosi giornali come Il Mondo e L’Espresso e su riviste autorevoli come La Riforma e Nord e Sud. Il nuovo partito radicale nacque in un momento particolare e instabile della vita politica italiana. Caduta, con le elezioni del ‘53 la leadership di De Gasperi, anche la formula centrista a lui cara stava entrando in crisi. La DC aveva perso la maggioranza assoluta e all’estrema sinistra i comunisti si erano molto rafforzati, i partiti minori avevano un maggior peso che nella precedente legislatura. Quindi tutto lo schieramento politico sembrava in movimento e il Partito Radicale nacque proprio per dare al Paese un adeguato rinnovamento politico e per costituire quel fronte laico in grado di trattare con le forze democratiche della DC e della sinistra. Le linee programmatiche venivano riassunte in un manifesto approvato il 10 dicembre 1955: "La condizione in cui è caduta la vita politica italiana a dieci anni dalle grandi promesse della liberazione riempie di scontento e di inquietudine la coscienza liberale e democratica del paese. La vita del pensiero e del lavoro è profondamente turbata dalla constatazione che al crollo della dittatura è succeduta una democrazia timida ed impacciata dall’eredità di un corrotto costume, debole nel difendere dalle penetrazioni confessionali e dall’impeto degli estremisti l’autorità dello stato, incapace, infine, di esprimere nelle sue istituzioni lo spirito della nuova costituzione repubblicana. E’ tempo però che sorga dagli animi una ferma volontà riparatrice e che si raccolga la dispersa forza morale che ha sorretto il Paese negli anni della resistenza al fascismo e della lotta di liberazione. Ed è il tempo di dedicare ogni intento alla creazione di una formazione politica, capace di provare finalmente che l’impegno di uomini aperti e consapevoli, uniti nella volontà di affrontare alcuni problemi fondamentali della vita del nostro paese e di additarne le soluzioni secondo lo spirito innovatore della civiltà moderna e i progressi prodigiosi della scienza, può dare un nuovo vigore e una nuova speranza per lo sviluppo della società italiana". La dichiarazione programmatica trattava poi più in concreto i punti fondamentali. Prima di tutto i radicali volevano battersi per l’eliminazione di tutte le leggi ereditate dallo stato fascista, e per l’attuazione della costituzione e la effettiva instaurazione dello stato laico e liberale, di quello stato di diritto che rende tutti i cittadini uguali davanti alla legge, senza discriminazioni politiche e religiose. In campo economico il programma si articolava in tre punti: lotta ai monopoli, riforma tributaria rendendo le imposte chiare, intervento dello stato in economia. Migliorando il tenore di vita dei ceti meno abbienti, era per i radicali condizione essenziale per sottrarre masse popolari alla suggestione di gruppi e partiti antidemocratici e per costruire così, attraverso il loro progressivo sviluppo democratico, una società più liberale e civile integrata nelle nell’economia e nella cultura occidentale. La via per realizzare questa visione illuministica della società italiana era una burocrazia efficiente e incorrotta in grado di mettere in atto una serie di riforme che una nuova classe politica aveva il dovere morale di compiere. Una riforma scolastica era inoltre la premessa necessaria per formare una coscienza civile: "Una riforma diceva il manifesto che rinnovi profondamente la scuola italiana... che metta fine all’invadenza del confessionalismo e restituisca dignità e primato alla scuola di stato". Il manifesto concludeva con speranza e ottimismo: "i promotori del Partito Radicale convinti che tutto lo schieramento politico del paese è in crisi e che nuovi sentimenti, nuovi stimoli, nuovi fermenti stanno lievitando nel seno della nostra società, indicano questi temi come punto d’incontro e di convergenza di tutte le forze politiche affini e di quelle tuttora disperse, che concordano nella necessità di una tempestiva, appassionata iniziativa, che sollevi finalmente il nostro paese alle condizioni delle moderne democrazie occidentali". La nascita del nuovo partito fu accolta con simpatia dai socialisti e dal repubblicano Ugo La Malfa che giudicò positivamente la scissione e la nascita del PR che rappresentava "... Un passo avanti verso quel lento e graduale processo di chiarificazione politica che, dal 7 giugno 1953, è diretto preparare situazioni e schieramenti politici più adeguati alle condizioni reali del paese e ai suoi problemi". Il Partito Radicale, secondo La Malfa, si collocava in quell’ampio spazio compreso fra la DC e il PSI apportando " nuove energie e nuove possibilità e strumenti di lotta nel campo della sinistra democratica". I giornali della destra invece lanciarono accuse roventi: dal "Tempo" alle agenzie clericali i radicali vennero definiti "velleitari e demagogici", "puritani cinici ed economici", "falliti in cerca di rivincita". Al coro di critiche proveniente da destra si aggiunse anche l’organo socialdemocratico "Giustizia" riluttante ad un raggruppamento laico, che accusò i radicali di frontismo. Il Mondo reagì con durezza: "E’ l’accusa più velenosa e quella che meglio lascia trasparire le preoccupazioni di quanti hanno legato le loro fortune all’immobilità del vecchio schieramento. Essi desiderano, in effetti, che i radicali scompaiano presto dalla vita politica confondendosi nel calderone degli utili idioti comunisti.... Non vediamo quale vantaggio ricaverebbe la difesa della democrazia il giorno in cui tutti i democratici, che ritengono vi possa essere un margine per far valere le loro istanze senza affidarle ai portavoce della Confindustria o del Partito Comunista, dovessero davvero gravitare verso il frontismo... E’ malinconico constatare che in questo coro di accuse si sia trovata la socialdemocratica giustizia... Dobbiamo con questo concludere che il PSDI intende estraniarsi dal movimento di riorganizzazione dello schieramento democratico di centro sinistra? Non vogliamo ancora crederlo. Quel giorno i radicali si troverebbero a dover risolvere una difficoltà in più. Ma non solo i radicali". Sulla stampa della sinistra laica e specialmente sulle pagine del Mondo si svolse un dibattito sul ruolo e sulla collocazione politica del nuovo partito: per le sue caratteristiche con cui era nato e in mancanza di una formazione di sinistra democratica e progressista, il PR andava a collocarsi nello spazio politico fra DC e socialisti. Tutti i suoi membri erano concordi nel rivendicare al proprio partito un ruolo autonomo sia dalla DC che dal PSI, e si ponevano non come partito minore, ma come importante punto di riferimento per la sinistra laica nell’incontro tra cattolici e comunisti. Mario Paggi in un importante articolo presentava il PR come partito interclassista e antidogmatico che si rivolgeva anche agli operai e ai contadini proponendo loro una via di liberazione diversa da quella dei partiti della sinistra storica. Il 24 gennaio uscì sul settimanale di Pannunzio il comunicato del comitato esecutivo provvisorio del PRLDI che avendo esaurito il mandato di dare una prima organizzazione al partito, ravvisava l’urgenza di investire in piena responsabilità un organo rappresentativo del partito. Perciò venne convocato il primo convegno nazionale del partito il 4 e 5 febbraio 1956. Tale convegno avrebbe dovuto approvare lo statuto, designare gli organi dirigenti e approvare un immediato piano di lavoro. Il primo consiglio nazionale si tenne a Roma nella nuova sede del partito in via della Colonna Antonina, all’ordine del giorno furono posti alcuni punti fondamentali quali lo statuto provvisorio del partito, l’elezione degli organi direttivi ed esecutivi del partito e il perfezionamento dell’organizzazione interna e la definizione della linea politica. Il PR sin dall’inizio si era dato una sede centrale e un ufficio di segreteria che aveva la funzione di diffondere il programma e coordinare il rapporto tra sede centrale e sezioni locali, e la relazione del comitato esecutivo provvisorio nel corso del convegno esprimeva soddisfazione per il lavoro svolto: "... Si può affermare che, grazie al generoso e al vivo affiatamento tra centro e periferia... una fitta rete d’intese e di attive collaborazioni è stata stabilita su base nazionale... sedi si sono aperte da Torino a Milano...". La relazione del comitato esprimeva chiaramente la concezione non burocratica del partito e concludeva legittimando la sua definizione politica: "Le stesse origini del nostro partito vogliono che la sua attività non si concentri chiusa in uno schermo rigido, ma si diffonda in un vivo ricambio delle strutture collaterali ed affini, nei Circoli della Cultura, nei convegni dedicati a particolari problemi, nei Centri di studio e di lavoro... Lo stato di scoraggiamento per cui il paese si va distaccando dalla affezione alle istituzioni democratiche, dipende dal fatto che nessuna delle forze politiche esistenti intermedie fra i due blocchi del comunismo e della democrazia cristiana, ha dimostrato di sapere prendere l’iniziativa per una raccolta di tutte le energie della sinistra democratica e laica... E’ nel vuoto creato dalla frantumazione di queste forze... è in questa vacanza di un nucleo compatto e autonomo di centro sinistra che l’iniziativa radicale è chiamata ad inserirsi...noi vogliamo evitare la polarizzazione della lotta tra comunismo e clericalismo che costituisce da anni il ricatto alla vita politica italiana ed impedisce di fatto la possibilità di quel ricambio democratico che è l’essenza di un regime di libertà nella vita pubblica". Il primo convegno da cui uscirono principi molto simili a quelli espressi nel promemoria della sinistra liberale nel luglio 1955, si chiuse con una mozione politica che confermava la scelta radicale per il sistema proporzionale e l’impegno di partecipare alle prossime elezioni amministrative con una lista propria; il convegno approvò inoltre lo statuto provvisorio che era stato stilato dal 10 dicembre ‘55, ed elesse gli organi del partito. Per la Giunta esecutiva, guida del partito, furono eletti: Carandini, Pannunzio, Valiani, Villabruna: Per il comitato centrale che doveva fissare le direttive della Giunta: Capobianco, Cavallera, Cattani, Ferrara, Leone, Libonati, Olivetti, Oneto, Paggi, Salza, Serini, Veneziati, Letizia Fondo Savio. Per il Comitato Nazionale di studi, che doveva affrontare i vari problemi del paese per permettere al partito di presentare soluzioni adeguate, furono eletti: Boneschi, Calogero, Campagna, Messineo (colui che aveva redatto lo statuto), Rossi, Scalfari. Lo statuto provvisorio, che constava solo di 9 articoli e di 4 disposizioni transitorie, era molto sintetico e dopo una dichiarazione di principio nella quale si enunciava la volontà del PR di rinnovare la vita politica, elencava gli articoli che stabilivano gli organi del partito: le sezioni comunali, le federazioni provinciali, il Consiglio nazionale provvisorio, il Comitato centrale, la Giunta esecutiva e il Comitato nazionale di studi. Esaminata la struttura centrale del partito, lo statuto regolava anche la vita periferica del partito, che era articolata nelle sezioni e nelle federazioni regionali, ed agevolata dalla strutturazione di gruppi di studio, nei circoli di iscritti al partito. L’attività delle varie sezioni periferiche veniva coordinata inoltre dalle federazioni regionali, in accordo con la giunta esecutiva che però poteva anche corrispondere direttamente con le sezioni stesse. In definitiva lo statuto pur evidenziando la volontà di costituire un partito agile e snello, diverso dalle burocrazie degli altri partiti di sinistra, ricadeva, specialmente nei suoi organi principali, nelle strutture dei partiti tradizionali. Il Pr così si presentava alle elezioni amministrative del maggio 1956, un occasione per il nuovo partito di "contarsi" e di qualificarsi di fronte all’opinione pubblica: Carandini scrisse: "In questa estrema vigilia elettorale il Partito Radicale segna un primo successo. Presentandosi alla prova nella fase più delicata della sua prima organizzazione, esso ha voluto essenzialmente compiere un atto di coraggio. E’ sceso in questa battaglia perchè sentiva che i motivi che lo avevano suscitato erano maturi...". Il partito condusse la campagna elettorale secondo la linea uscita dal primo convegno, e si presentò con liste proprie nelle situazioni in cui la sua presenza e la sua organizzazione erano adeguate e con accordi, sottoposti all’approvazione degli organi del partito, con forze politiche che avessero gli stessi principi dei radicali: antifascismo, opposizione al confessionalismo, difesa delle istituzioni democratiche. I radicali aspiravano infatti a una collaborazione con le correnti di sinistra della socialdemocrazia e a un’unificazione socialista indipendente dal PCI: Il Mondo scriveva: " Il problema dei socialisti non riguarda solo il PSI, ma tutta la democrazia ...se si arriverà alla unificazione socialista (prima tappa per la collaborazione del PSI per la formazione di una nuova maggioranza) vi si dovrà arrivare per dare una spinta decisa alla situazione...". I risultati non furono favorevoli sotto il profilo numerico per i radicali: il solo risultato apprezzabile, dovuto al maggiore radicamento politico, fu registrato a Roma dove ottennero 12000 voti e Cattani fu eletto consigliere comunale.
Un’analisi positiva della prova elettorale venne data dalla relazione politica della giunta Esecutiva, durante il 2° consiglio nazionale del partito, svoltosi a Roma il 23 e il 24 giugno 1956: "questo II consiglio nazionale risponde a un’esigenza: quella di esaminare insieme la nostra esperienza elettorale...Quando ci trovammo riuniti per il I consiglio nazionale le elezioni amministrative erano prossime e costituivano una scadenza che ci imponeva gravi e non facili decisioni. Prevalse la decisione di prendere parte alla lotta elettorale, perchè sentimmo che un partito, fin dalla sua nascita, si trova di fronte a impegni improrogabili... La Giunta Nazionale del Partito crede di potere dire che oggi l’esperienza ha confermato la saggezza della nostra decisione e ha premiato la generosità dei nostri propositi...il Partito ha superato la prova, dimostrando una saldezza di compagine e una vitalità che sono di buon auspicio per l’avvenire...". La via tracciata dal partito radicale quindi continuava senza ripensamenti: secondo Piccardi esistevano in Italia forze politiche non rappresentate, forze democratiche nemiche del confessionalismo, disposte a trasformazioni sociali nel rispetto della libertà. Compito dei radicali era quindi quello di offrire a queste istanze una piattaforma politica in cui esprimersi: "Le immunità da schemi ideologici concludeva Piccardi e un certo distacco da miraggi di futuri e lontani sviluppi impongono al Partito Radicale e gli rendono più agevole l’impegno di una iniziativa vigile e tenace. In questa loro funzione i radicali, pur non essendo malati di sinistrismo verbale e velleitario, si troveranno spesso a sinistra di partiti ai quali spetta tradizionalmente il posto d’onore in questo settore della topografia politica". Il partito assunse da questo momento una esplicita posizione di sinistra che affrontò con spregiudicatezza argomenti ignorati dai partiti tradizionali, quali i rapporti fra stato e chiesa, il problema dei diritti civili, casi di corruzione e le connessioni fra Vaticano e speculazioni edilizie, come per esempio nel caso clamoroso della campagna lanciata del settimanale "L’Espresso" contro la malefatte della Società generale immobiliare rea di grosse speculazioni nella Capitale grazie ad appoggi vaticani.
Il III consiglio nazionale del partito radicale svoltosi a Roma il 9 e 10 marzo 1957, analizzò l’attività politica del partito a un anno dalla sua fondazione. Nonostante le difficoltà iniziali derivanti soprattutto dal finanziamento che si basava solo sui contributi degli iscritti e dei simpatizzanti, si vedevano segnali positivi soprattutto perché in quasi tutte le grandi città erano state aperte sezioni radicali, segnali che erano interpretati come un possibile cambiamento della situazione italiana: "...Il duro colpo ricevuto dal comunismo italiano con la caduta del mito di Stalin e la rivolta popolare ungherese, il progressivo sfaldamento dei partiti dell’estrema destra...il ripudio del frontismo e l’esplicita accettazione del metodo democratico da parte del partito socialista... sono altrettanti indici rivelatori di una profonda trasformazione che si sta maturando nel paese, destinata a sboccare, a scadenza più o meno prossima, in un nuovo assetto politico". La giunta esecutiva risaltò in particolare uno degli aspetti salienti della linea politica radicale: la lotta ai monopoli. La politica economica dei radicali infatti sosteneva l’intervento dello stato dello stato, limitato a situazioni di interesse generale: "... Uno dei punti che meglio caratterizzano il nostro partito è quello della lotta contro i monopoli, lotta diretta a non ricattare gli industriali per ottenere che una maggior parte del sopraprofitto vada alle maestranze: ma per ridurre il prezzo dei beni nell’interesse dei consumatori... noi intendiamo contenere l’intervento dello Stato nel campo economico entro i limiti stabiliti dall’art. 43 della Costituzione... intendiamo tracciare una netta distinzione fra il settore pubblico e il settore privato... e sottoporre il settore pubblico ad una efficace vigilanza da parte del Parlamento". La situazione sembrava volgere nella direzione sperata dai radicali: nel maggio 1957 la caduta del gabinetto segni, indebolito dall’uscita dalla maggioranza dei repubblicani e dei socialdemocratici, segnò la fine del centrismo. L’avvento del monocolore DC Zoli non riuscì a cambiare il clima di incertezza che regnava nel Paese. Di fronte a questi eventi il disegno radicale di uno schieramento democratico di sinistra prendeva corpo. A dare concretezza al progetto radicale contribuiva anche la modificazioni interne al PSI ritenuto un partito essenziale nello schieramento di alternativa democratica alla DC. I radicali e Il Mondo si impegnarono illusoriamente per ridurre la forza del PCI mediante un grande partito socialista, sostenendo con fermezza la vocazione democratica del Partito Socialista considerato colonna di uno schieramento in grado di mutare in senso progressista il Paese. Infatti mentre lo sganciamento dai comunisti, era riuscito sul piano ideologico, per il PSI non era riuscito sul piano reale poichè le basi dei due partiti per anni avevano convissuto per anni nell’agone politico e lo strappo sembrava una follia.
La linea politica del partito fu confermata nel IV consiglio nazionale tenutosi a Roma il 6 e 7 luglio 1957: mentre la situazione organizzativa sembrava in via di positiva evoluzione, problemi di ordine politico si presentavano al partito in vista della consultazione elettorale del ‘58: i radicali pensarono perciò di allearsi con il partito politicamente più vicino: il PRI. L’accordo tra il PR e i repubblicani si basava su un’identità di intenti e di vedute quali la separazione dei poteri dello stato e nessuna interferenza della Chiesa e la riaffermazione della volontà del Parlamento. Un articolo su Il Mondo sanciva questa alleanza: "L’accordo tra il Partito Radicale e il Partito repubblicano... va molto al di là della contingenza elettorale in vista della quale si è concluso. Esso costituisce l’ultimo momento di un processo politico ormai in corso da alcuni anni... esso apre una fase politica nuova, quella in cui la sinistra democratica passa da un ruolo critico e di denunzia, proprio di una élite, a un ruolo fortemente costruttivo."
L’alleanza repubblicana suscitò molto entusiasmo e speranze nel partito: Pavolini sul settimanale pannunziano espresse la sua fiducia nell’alleanza e nel suo buon esito elettorale. Il risultato elettorale, negativo per l’alleanza spense le speranze del PR. Molte furono le valutazioni per giustificare la causa della sconfitta: Pavolini che era stato uno dei più ottimisti, giustificò la debacle con il fatto che gli elettori fossero immaturi: "Il nostro popolo vota per i preti che afferma di detestare, per i padroni che odia, per i fascisti che teme... vota per gli imbrogli, per le violenze... Saremmo davvero tentati di dire che questo popolo ha proprio ciò che si merita. Se non giungiamo a queste conclusioni è perché pensiamo ad un’Italia diversa...un’ Italia fatta di minoranze ardenti...". Il consiglio nazionale (Roma, 1415 giugno 1958) cercò di vedere gli aspetti positivi delle elezioni evidenziando il fatto che la vitalità del partito e il suo seguito fra l’elettorato, seppur scarso, costituivano una garanzia per il futuro. Carandini in un articolo sul Mondo confermò questa analisi commentando che la DC e il PCI con questa sconfitta dei radicali e repubblicani vedevano raggiunto il loro principale obiettivo.
Il 27 febbraio 1959 si aprì il I Congresso nazionale del PR. La relazione programmatica risaltò il carattere nuovo del PR e la sua capacità di affrontare i numerosi problemi. I temi da affrontare, in un paese dove le strutture dello stato mostravano segni di invecchiamento, andavano dalla riforma della burocrazia, l’istituzione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione alla difesa delle libertà politiche e civili dei cittadini come l’attuazione della Costituzione, la riforma del testo di legge di Pubblica Sicurezza e una maggiore libertà di stampa. In politica economica la relazione proponeva una lotta ai monopoli, la nazionalizzazione di alcuni settori come le fonti di energia e una politica di investimenti per ridurre i dislivelli economici esistenti nel Paese e per creare nuova occupazione. Due punti fondamentali erano toccati inoltre dalla relazione che per il Congresso fu tenuta da Mario Boneschi: la riforma della scuola e i rapporti tra stato e Chiesa e la conseguente denuncia dell’invadenza clericale nella vita italiana. In politica estera vi erano dissensi all’interno del PR diviso fra sostenitori del filoatlantismo come il gruppo del Mondo e fautori dell’antimilitarismo e del disarmo come i larghi strati della gioventù radicale.
Il congresso approvò inoltre lo statuto definitivo del partito, sostituendo così quello provvisorio del 1956. Il nuovo statuto confermava la sua caratteristica di organizzazione di partito tradizionale, gli organi centrali infatti erano sei: il Congresso Nazionale, il Consiglio nazionale, la Direzione Centrale, la Segreteria, il Comitato Nazionale di studi e il Collegio Centrale di arbitrato e disciplina. Nel nuovo statuto oltre a essere più burocratiche le modalità di iscrizione, appariva un organo: il Collegio Centrale di arbitrato e disciplina, preposto "... al compito di decidere sui provvedimenti di carattere disciplinare e sugli eventuali conflitti tra gli organi del partito". La minoranza di sinistra sempre più in disaccordo con la direzione del partito sollevò molte critiche allo statuto, considerato scarsamente sensibile alle esigenze delle associazioni di base.
Il quadro politico dopo il ‘58 con il fallimento del primo governo Fanfani e l’avvento del monocolore Segni sostenuto dalle destre fu esposto dalla relazione della Giunta esecutiva che ribadì la necessità di creare un’alternativa di sinistra laica: necessità confermata dal Mondo.
Agli inizi degli anni ‘60 il tema centrale del dibattito politico è l’apertura a sinistra. L’esperienza del governo Tambroni e i tragici fatti di Genova sembrano accelerare la spinta di un governo di centrosinistra, cui anche i socialisti si erano dichiarati disponibili. Il PR di fronte a queste nuove prospettive cominciò seppur tra mille dubbi e polemiche a cambiare posizione: la contrarietà a una collaborazione con la DC che era sempre stata netta fino al primo congresso adesso era più attenuata. All’interno del partito inoltre si stavano facendo sempre più nette le differenze tra l’ala moderata filorepubblicana e una filosocialista facente capo a Scalfari e Piccardi.
Il buon successo alle amministrative del ‘60 ottenuto dai radicali che si erano presentati insieme con i socialisti placò temporaneamente i dissidi. Dissidi che venivano accentuati invece dalla forte componente giovanile all’interno del PR facente capo a Pannella, Rendi e Rocella i quali portarono avanti una polemica sul ruolo del PR e sul suo modo di fare politica. La prima uscita della sinistra radicale fu un articolo di Marco Pannella sul Paese nel Marzo 1959. Sul quotidiano comunista Pannella sosteneva la necessità di un’alleanza di tutte le sinistre e l’ipotesi di un loro governo compreso il PCI. I dirigenti del partito considerarono questa proposta come una condanna dell’alternativa democratica e una riconferma della tradizionale divisione tra blocco DC e blocco comunista.
Il tema centrale del secondo congresso radicale, svoltosi a Roma il 2628 maggio 1959, fu l’apertura a sinistra. La direzione centrale del partito fu bersaglio di molte critiche che rimproveravano al partito di avere deviato dalla linea iniziale di lotta alla DC e di alternativa democratica. I contrasti all’interno del PR si acuirono. Il gruppo di Piccardi e Scalfari premeva per un maggior avvicinamento ai socialisti, mentre l’altra parte facente capo a Cattani sosteneva l’autonomia del partito e la sua alleanza con la sinistra democratica. Nel Consiglio nazionale nel gennaio 1962 si cercò di raggiungere una mediazione fra le diverse correnti, ma invano: la Segreteria composta da Libonati, Olivetti e Piccardi (coinvolto nelle polemiche scaturite dal cosiddetto caso Piccardi) dette le dimissioni e venne nominato segretario Cattani che segnò gli ultimi mesi di vita del partito. Oltre alle divergenze politiche la stabilità del partito fu compromessa dalle polemiche derivate dal Caso Piccardi: scoppiato nel dicembre 1961, il caso riguardò la partecipazione (svelata dal libro di R. De Felice "Storia degli ebrei sotto il fascismo") di Piccardi a due convegni italo-tedeschi sulla questione della razza nel 1939. Il caso inevitabilmente spaccò ancora di più il partito: da un lato Cattani e gli "Amici del Mondo" sostenevano l’impossibilità per un partito antifascista di avere nelle sue file uomini compromessi con il fascismo; dall’altra Ernesto Rossi difese Piccardi e giunse a dare le dimissioni dal Mondo, e la sinistra radicale che vide nel caso una manovra per eliminare la corrente filosocialista. L’ultimo atto del Partito Radicale ormai giunto alla fine della sua avventura si svolse il 24 e 25 marzo del 1962, quando Cattani convocò il Consiglio Nazionale. Le dimissioni del segretario stesso e del gruppo del Mondo tra dissidi politici e polemiche sancirono la fine del Partito Radicale; rimase nel partito solo la giovane corrente di Sinistra Radicale che negli anni seguenti riprenderà il cammino. Così commentò il Mondo: "così un piccolo ma nobile partito, ridotto ormai a un’ etichetta, scompare di fatto dalla scena politica italiana; e i suoi superstiti iscritti, avviati sulla strada del nichilismo morale, del realismo elettoralistico e del disprezzo verso "i gruppi intellettuali", non avranno che da cercare altrove più fruttiferi impegni". Nella frantumazione del partito l’ex segretario Leone Cattani, seguito dal gruppo del Mondo, tenterà l’organizzazione di una "Unione radicale degli Amici del Mondo", rimasta senza seguito concreto, mentre stessa sorte avrà l’iniziativa di Ernesto Rossi che costituì il Movimento Gaetano Salvemini.
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