IL KOSOVO DI UN ITALIANO IN BULGARIA

[da ITALIANI IN BULGARIA numero 14 del 16 marzo 1998]

IL 1° AGOSTO 1992 parto da Sofia su una vecchia Lada alla volta del confine bulgaro-serbo di Kalotina, con poche speranze di riuscire a passarlo, invece mi lasciano entrare e va tutto bene fino a Poduevo, la prima cittadina del Kosovo sulla stra Nis-Pristina. Qui mi fermano a un posto di blocco che è una vera frontiera e trovano nella mia borsa un centinaio di copie di un giornale radicale in albanese che sto portando al nostro punto di riferimento a Pristina per gli iscritti kosovari, visto che per posta non arrivava mai niente (salvo le raccomandate r/r e a volte neanche quelle) a causa della censura del regime fascista serbo. Questo giornale non è precisamente un ottimo biglietto di visita per me: nel paginone centrale titola Milosevic killer e ne chiede l’incriminazione internazionale per il genocidio in Bosnia. Nella caserma dove mi portano (parcheggiati cannoni e autoblindo), un collaborazionista albanese traduce zelantemente il giornale mentre io in una cella con un indimenticabile, fortissimo puzzo di piscio, comincio a sospettare di essermi cacciato in un pasticcio: “a quelli come te – mi spiegano a gesti gli sbirri serbi – tagliamo tutte le dita una per una”.

NEL POMERIGGIO vengo trasferito al comando centrale di Pristina scortato da otto uomini con kalashnikov a doppio caricatore. Un funzionario di grado più alto, con l’aiuto di un interprete d’inglese, vuole sapere dove stavo portando i giornali. “In Albania – rispondo io l’unica balla che posso inventarmi – non vede che sono scritti in albanese?” Certo non suona molto verosimile che un giornale stampato a Roma per andare in Albania passi da Sofia e dalla Serbia, né giova spiegargli che qusti giornali hanno viaggiato via Londra e Budapest (il che è strano ma vero): il poliziotto pensa che lo stia prendendo per i fondelli, e non ha tutti i torti… Sono otto ore di interrogatori abbastanza corretti, senza violenze fisiche ma solo intimidazioni per farmi cantare. In effetti mi sto cagando sotto dalla paura, ma riesco a non darlo a vedere e la mia apparente tranquillità si dimostra una buona tecnica. Capiscono che potrebbero andare avanti ancora a lungo ma non rivelerò a chi stavo portando i giornali, a meno che non comincino veramente a tagliarmi le dita. Per fortuna non arrivano a tanto. A salvarmi però non è il passaporto occidentale quanto piuttosto il tesserino di giornalista parlamentare: è rilasciato dal ministero degli esteri bulgaro, scritto in cirillico.

VENGO RILASCIATO e mi vengono perfino restituiti i giornali: vogliono pedinarmi per vedere a chi li porto. Fossi scemo. Dico che ormai è tardi per andare in Albania e dirigo la Lada verso il confine bulgaro, dove non sono mai stato più contento di pagare 30 dollari di visto. Missione incompiuta; cono tornato a Sofia con le pive (anzi i giornali) nel sacco, ma almeno ho salvato le chiappe, anzi le dita. Da allora non sono più rientrato in Serbia: anche se nel frattempo ho cambiato il passaporto, la milizia è rimasta la stessa ed anche peggio. Come ha scritto The Economist, gli sbirri serbi non sono altro che dei mafiosi e terroristi in divisa.

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