Conegliano, 3 settembre 2002.

La foschia ritardava a rintanarsi nelle valli tra le dolci colline del coneglianese, sfumando i contorni del castello di Collalto là oltre la scuola di enologia fuori dalla finestra dell’ufficio del capitano De Stefano, sul cui umore quelle languide mattinate di mezza stagione producevano l’effetto di una struggente malinconia e lo inducevano a meditare sulla vacuità della natura umana.
“Eh sì, caro Roberto, così è la vita. Essere o non essere?, scriveva Shakespeare, essere o avere?, gli replicava Fromm, che rispondeva sempre con una domanda. E io qui ed oggi ti dico, caro Roberto: avere o non essere? Interisti o milanisti? Democratici o nonviolenti? Bisessuali o transessuali? Cappato o Capezzone?”
Con una mano grattandosi il pizzetto ingrigito, il capitano posò l’altra sulla spalla dell’amico seduto al centro della stanza nella spasmodica ma contenuta attesa di Polesel coi risultati del laboratorio. Neanche la mente più maliziosa avrebbe potuto vedere in quel gesto niente di più che una mutua forma di conforto contro la solitudine dell’individuo nell’universo. Non sempre Granzotto capiva di cosa De Stefano gli parlasse in quei suoi cronici momenti di abbandono alla filosofite maniaco-depressiva. Il capitano possedeva l’intelligenza riflessiva del consumato giocatore di scacchi, deformata per di più da un’esperienza professionale che lo aveva portato a vederne di tutti i colori. Il detective Granzotto era invece più dotato dell’intelligenza dinamica dell’uomo d’azione. Così come la mano del capitano era posata sulla spalla di Granzotto, sulla spalla del capitano venne a posarsi un piccione entrato dalla finestra, proprio sulla mostrina di quella divisa che incuteva timore agli uomini ma non all’innocente uccelletto, rassicurato dal percepirvi battere sotto il cuore di un San Francesco contemporaneo.
“Porc!..” inveì De Stefano riavendosi improvvisamente dalla meditazione nel tentativo di agguantare l’irrispettoso volatile che gli aveva scacazzato sulla giacca scura una sbrodolata di guano in biancastro contrasto. Non era dunque un piccione qualsiasi: si trattava più probabilmente di un riuscito travestimento del dispettoso tenente Colombo.

Polesel entrò con i risultati del laboratorio. Li lessero insieme in silenzio. Purtroppo sancivano la correttezza della teoria granzottiana. Lo Sherlock Holmes di Santa Lucia di Piave aveva risolto un altro caso, il più difficile, ma questa volta non ne era per niente contento. De Stefano comprese la sua amarezza e lo congratulò senza eccessi di gioia.

“E così Dreon era davvero la vittima...”
“Sì. Era facile prevedere i suoi spostamenti perché le assemblee radicali sono annunciate pubblicamente. Quindi bastava piantare le bombette nei supermercati delle località dove Dreon si sarebbe recato, per aumentare la probabilità che esplodessero nelle mani dell’Armando”
“Un metodo un po’ contorto per eliminarlo...”
“Maldestro, Adriano, maldestro” - rispose l’enciclopedico Granzotto lasciando poi intendere la sua dimestichezza con l’esperanto – “e anche sinistro”
“Perciò si diede tanto da fare per ottenerne la scarcerazione?”
“Già, finché era dentro non poteva farlo fuori”

Non restava che procedere alla mesta incombenza dell’arresto. Sul sedile posteriore dell’Alfa guidata da Polesel, fu Granzotto a rompere il silenzio sulla domanda che aleggiava nell’aria: il movente, il perché.
“Ho una mia teoria: i suoi film pornografici. Guardandoli, non c’è maschio che non si senta umiliato dalle dimensioni del pene di Dreon, perfino io che sono superdotato”
“E’ davvero così spaventoso?” indagò il capitano.
“Una rarissima, patologica combinazione di lunghezza equina e diametro elefantiaco. Ti basti pensare che perfino Cicciolina si è sempre rifiutata di girare film porno con lui”

Varcando il ponte sul Piave si trovarono fuori dalla giurisdizione della pretura coneglianese, con parziale sollievo del capitano che avrebbe così risparmiato una brutta grana al pretore, la quale se ne sarebbe dimostrata grata continuando a fare la spesa nel negozio della moglie del capitano. Giunti sul posto, Polesel parcheggiò in una stradina laterale e si rivolse al superiore con una mano eloquentemente posata ad accarezzare la fondina della pistola:
“Capità, vulite che venco angh’io?”
“Non occorre, Polesel, sono certo che il reo non opporrà resistenza”

E non ci fu neppure bisogno di dire alcunché, quando questi aprì la porta di casa: dalle facce da funerale dei due vecchi amici, espressioni che trasudavano pena, incredulità e delusione, l’Ignazio La Russa di Carità di Villorba intuì che era tutto finito.

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