Bob Granzotto PI e il caso Unabomber

Roberto Granzotto PI e il caso Unabomber - Il capitano De Stefano era un cinquantenne asciutto che si teneva in forma amando la natura. Acuto osservatore della realtà sociale del territorio, con un po’ più d’ambizione avrebbe potuto diventare comandante della legione di Padova, ma si trovava meglio nella tranquilla cittadina di campagna, dove sapeva risolvere col buon senso molte dispute di recinzione o di campanile che avrebbero altrimenti fatto perdere tempo al pretore De Rigo, la quale se ne dimostrava grata facendo sempre la spesa nel negozio gestito dalla moglie del capitano. Proveniente da una famiglia che serviva l’Arma da due secoli, il comandante dei carabinieri di Conegliano si era però adeguato ai tempi con uno spirito liberale che non mancava mai di lasciare stupefatti i benpensanti perbenisti della bigotta cittadina veneta. De Stefano aveva istruito i suoi uomini a non perdere tempo con gli innocui fumatori di spinelli per concentrarsi invece sulla gente che andava in giro pericolosamente armata. Mai si erano visti prima, infatti, cacciatori ammanettati e scortati nel cellulare, i fucili sequestrati, per essere stati colti in flagranza di reato con delle specie protette nel carniere. Né si era mai vista così tanta gente di tutte le età oziare sulla gradinata degli Alpini che conduceva nella centrale piazza Cima, fumando tranquillamente cannabis senza essere arrestata e condotta a far perdere tempo al pretore De Rigo, la quale se ne dimostrava grata facendo sempre la spesa nel negozio gestito dalla moglie del capitano.

Toc toc. Il brigadiere Polesel fece capolino nell’ufficio sobriamente arredato del capitano, che se ne stava spaparanzato in poltrona, sorseggiando un digestivo, intento a godere la siesta e la vista di un magnifico albero dalla finestra aperta su un soleggiato ma fresco pomeriggio settembrino senza crimini.
“Capità, ce sta er su’ amico infesticatore vibrato, Granzuto”.
“Chi? Ah, l’investigatore privato Granzotto! Lo faccia passare, lo faccia passare!” sorrise De Stefano pregustando il supplemento di buonumore che gli avrebbe portato il vecchio amico, e aggiunse prontamente:
“Polesel, mi dica, abbiamo mica sequestrato della cannabis recentemente?”
“Capità, avete dato voi dispusiziuni di nun seguestrare ‘a canna... ‘a canna bis, como dite voi”
“Vabbe’, ma non ne teniamo una piccola riserva per gli ospiti?” si adombrò De Stefano irrigidendosi sulla sedia in un aspetto minacciosamente marziale.
“Capità, ma pe’ voi sempre!” sorrise Polesel da un’orecchio all’altro, felice di poter rendere un servigio all’ufficiale, e scomparve nella camerata a rintracciare un partita di erba che era la fine del mondo. Nello stesso istante, con un fruscìo di mantello degno di un supereroe, si stagliò nella cornice della porta la figura elegante e imponente di Roberto Granzotto, la tesa del cappello Borsalino ad attenuarne l’intensità dello sguardo e le braccia già generosamente protese verso l’abbraccio del compagno di tante avventure, di tante indagini dai metodi talvolta poco ortodossi per non far perdere tempo al pretore De Rigo, la quale se ne dimostrava grata facendo sempre la spesa nel negozio gestito dalla moglie del capitano.

Roberto Granzotto era un aitante giovanotto che somigliava straordinariamente, nell’aspetto fisico e nella velocità di pensiero, all’esponente radicale Marco Cappato, tanto che questi era ormai più noto come il Roberto Granzotto di Vedàno al Lambro. Contrariamente a quanto molti supponevano, il titolo “PI” di cui si fregiava con orgoglio non stava a significare “Private Investigator” come il Magnum o altri detective televisivi, ma più semplicemente “Perito Industriale”. Impegnato però a dividere il suo tempo tra il paracadutismo e l’epistemologia, di perizie Granzotto ne aveva fatte ben poche in vita sua, e quando ne aveva bisogno una, come quel giorno, la chiedeva per favore al nucleo scientifico comandato da De Stefano, che stavolta era veramente meravigliato.
“Roberto, che cosa ti ha indotto a riaprire l’indagine dopo sette anni?”
“Un terribile sospetto, Adriano. Una folgorazione totalmente inaspettata, che non riesco a scacciare dalla mente finché non l’avrò appurata, anche se preferirei di no”.
“In pratica hai solo bisogno di sapere dal laboratorio se le impronte digitali su questo bicchiere corrispondono a quelle rinvenute sulle bombe inesplose. Ma se Unabomber avesse usato dei guanti, come è probabile, nel confezionarle?”
“Allora fai fare il DNA. Ci dovranno pur essere tracce di saliva, sul bordo del bicchiere, forse anche una piccolissima pellicina del labbro screpolato. E poi qui, vedi dove è appiccicoso, una striscia di cappero quando ha ripreso il bicchiere dopo essersi messo le dita nel naso”.
“Va bene, ma se non c’è DNA sulle bombe inesplose, come lo confrontiamo?” De Stefano giocava all’avvocato del diavolo. Avrebbe certamente aiutato Granzotto, ma cercava di capire di chi sospettasse e perché non volesse confidarglielo.
“Dobbiamo provare, Adriano, dobbiamo assolutamente dissipare ogni dubbio”.
“La richiesta di riesame dei reperti insospettirà il magistrato” insistette sulla stessa linea il capitano, blandamente infastidito dal non venire messo a parte di quanto frullava nella testa dell’amico.
“Andiamo Adriano, sappiamo bene entrambi che puoi usare qualche scorciatoia - sorrise Granzotto maliziosamente - inutile far perdere tempo al pretore De Rigo, la quale se ne dimostrerà grata facendo sempre la spesa nel negozio...”
“Va bene, va bene, ho capito” lo interruppe bruscamente De Stefano abbandonando lo spinellone ad estinguersi nel portacenere con un gesto rassegnato che rappresentava l’averla data vinta a Granzotto senza essere riuscito a tirargli fuori niente in cambio, e convocò Polesel per fargli portare il bicchiere al laboratorio.

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