AUTOBIOGRAFIA DI ROBERTO GRANZOTTO: 1966-75
Nel 1966 non accadde alcunché. Nel 1967 ci trasferimmo con la famiglia a Pordenone, l’antica Portus Naonis e moderna Porno Eden, per la precisione in viale Michelangelo Grigoletti, il pittore nato a Rorai Grande di Pordenone il 29 agosto 1801 da Teresa de Michieli ed Osvaldo Grigoletti.
La sua è una famiglia rurale e numerosa, legata in modo particolare al clero medio. Vista la sua inclinazione alla pittura, negli anni '20, con l'aiuto di uno zio parroco, si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Venezia. A quei tempi l'accademia era diretta da Leopoldo Cicognara, teorico e convinto assertore delle idee neoclassiche e molto amico di Antonio Canova. Grigoletti, quindi, compie gli studi in un momento in cui Venezia è in crisi per la fine della Repubblica, e questa crisi si fa sentire anche nel campo artistico in cui le teorie neoclassiche non riescono ad affermarsi, visto l'indirizzo pittorico che la città aveva avuto nel corso dei secoli. Comunque, nei disegni del Grigoletti, queste nuove teorie sono ben visibili, basti guardare gli studi di nudo e i particolari anatomici, eseguiti in modo "accademico" per vari anni, e la neoclassica opera d'esordio "Giove che accarezza Amore" del 1824. Grigoletti contemporaneamente si avvicina anche alla pittura romantica che sente più congeniale nella manifestazione di sentimenti interiori, colori più tenui, paesaggi più dolci, chiaroscuri più delicati, sguardi languidi. Per la sua formazione pittorica romantica concorrono più fattori: l'incontro con alcuni maestri dell'epoca, tra cui Hayez, ed i suoi viaggi. Quello compiuto a Roma, come studio, gli serve per conoscere l'opera degli artisti romani e per completare la sua cultura pittorica. Da questo momento, gli anni trenta, le committenze si susseguono in modo vertiginoso, sia dalle città italiane che dall'estero. Dipinge di tutto: dalle Pale d'altare, come l'assunta nella cattedrale di Esztergom in Ungheria, del 1854, sette volte più grande di quella di Tiziano, ai ritratti di nobili, ai paesaggi. Diventa famoso e in circa quarant'anni di attività dà vita ad alcuni dei ritratti più splendidi dell'Ottocento italiano: Il ritratto dei Genitori, La famiglia Fossati, Andrea Galvani, Virginia Saltorelli, I due Foscari, la Signora Bianca F., non sono che una piccola parte della produzione pittorica in cui il maestro è riuscito a cogliere psicologicamente l'espressione e le caratteristiche di ogni singolo personaggio. Suoi allievi dell'Accademia sono stati Giacomo Favretto, Federico Zandomeneghi e Tranquillo Cremona. Muore a Venezia l'11 febbraio 1870. Tuttavia, quella in viale Michelangelo Grigoletti si rivelerà solo una sistemazione provvisoria in attesa di quella stabile in via Damiano Chiesa, sempre a Pordenone.
Fra i molti eroi della primavera e dell'estate del 1916 spiccano le nobilissime figure di cinque martiri che con il loro sacrificio legarono maggiormente alla madre Patria la sorti delle terre irredente: Francesco Rismondo, Fabio Filzi, Cesare Battisti, Nazario Sauro e Damiano Chiesa. Damiano Chiesa era di Rovereto. Allo scoppiar della guerra si trovava a Torino, dove studiava ingegneria. Arruolatosi volontario, presto si guadagnò il grado di sottotenente d'artiglieria e mentre il padre veniva internato a Katzenau Damiano veniva ricercato dall'autorità militare che contro di lui aveva spiccato mandato di cattura per tradimento e diserzione. Fatto prigioniero a Castel Dante il 18 maggio del 1916, quattro giorni dopo che era stata sferrata l'offensiva Strafexpedition, e riconosciuto da alcuni soldati austriaci, fu immediatamente dal tribunale da campo condannato a morte per impiccagione ai sensi dell'art. 334 del codice penale militare, ma la sua giovane età - 23 anni fece sì che la richiesta del Chiesa di aver commutata la pena in quella della fucilazione fosse accettata. La sentenza fu eseguita il 19 maggio nella fortezza di Trento. Un anno dopo Benito Mussolini, che - quando visse a Trento - era stato redattore del giornale di Cesare Battisti, commemorando lo stesso Cesare Battisti così scriveva: [color=brown]"Dopo un anno - e questi anni sembrano lunghi come secoli - basta ritornare col pensiero a quell'episodio di gloria imperitura e d'infamia senza nome, per sentire ancora in tutte le fibre più profonde dell'essere un brivido d'angoscia. Nell'illusione cui si abbandona qualche volta lo spirito viene fatto di domandarsi: E' storia o leggenda ? È storia. Di ieri, di oggi e sarà di domani, se l'impero degli Absburgo non sarà fatto saltare come un anacronismo tirannico cui è venuta a mancare ogni giustificazione di vita. Bisogna accostarsi alla guerra con purità di pensieri e di opere. La guerra per tutto lo strazio che impone ai popoli, non deve essere oggetto della bandiera che essi fanno sventolare e non può essere motivo di esibizione letteraria. Bisogna accostarsi al martirio con devozione raccolta e pensosa, come il credente che si genuflette dinanzi all'altare di un Dio. Commemorare significa entrare in quella comunione di spiriti che lega i morti ai vivi, le generazioni che furono a quelle che saranno, il dolore aspro di ieri al dovere ancora più aspro di domani. Commemorare significa fare un esame di coscienza, scandagliare fino all'ultimo l'anima nostra e poi chiedere a noi stessi: "Saremmo noi, che pure lo indichiamo agli altri, capaci di seguire quell'esempio? Saremmo noi pronti ad affrontare liberamente e deliberatamente il sacrificio estremo, pur di contribuire al trionfo di un ideale". Questo esame ci dà tutta la bellezza, l'altezza morale, sovrumana quasi, attinta da Cesare Battisti, il giorno in cui lui decise - conscio di ciò che l'attendeva - di andare incontro, con il passo fermo e pesante dell'Alpino, ai carnefici di Vienna. E costoro non lo risparmiarono. Non ebbero, per lui, nessuna pietà. Né Egli la sollecitò, né l'avrebbe accettata. Ferito in combattimento poteva salvarsi, e non volle! Prima di cadere prigioniero, poteva sopprimersi, e non volle! Poteva chiedere di essere giustiziato in un altro modo, meno barbaro. Non volle. Ma quale idea lo esaltava, quale forza lo sosteneva? A suggello di quale apostolato lui sorrideva tranquillo al patibolo? Il Cristianesimo, che ha visto in questa guerra il fallimento del precetto evangelico della fraternità fra tutti gli uomini, non ha dato al mondo nessuno dei suoi adepti che abbia avuto il coraggio di un gesto di negazione e di rivolta. Il socialismo meno ancora. Queste idee non hanno spinto nessuno al sacrificio. Hanno subito la tempesta in stato di rassegnazione e di impotenza. Nessun cristiano, nessun socialista è andato alla morte in nome del cristianesimo e del socialismo. Spettacolosa aridità, morale e storica, del misticismo cattolicizzato e del materialismo storico dogmatizzato. Un'idea è al tramonto, quando non trova più nessuno capace di difenderla anche a prezzo della vita. Cesare Battisti non è morto nel nome del cristianesimo o in nome del socialismo qual è comunemente inteso e praticato: è morto in nome della Patria. L'internazionalismo degli ultimi cinquant'anni di storia europea aveva ormai cacciato fra le anticaglie ideologiche la nozione di Patria. Il socialismo tedesco aveva dilatata artificiosamente la classe al disopra delle frontiere e non era che una manovra pangermanista. Ma la patria viveva. Quando nell'agosto del 1914 la Germania iniziò la sua impresa di saccheggio e di crimini le patrie minacciate si raccolsero in se stesse, tesero tutte le loro energie, centuplicarono la loro capacità di lotta; milioni di uomini, che avevano creduto e giurato nella classe, andarono ai confini; la classe fu sommersa nella Nazione, la Patria tornò ad essere una realtà insopprimibile ed eterna. Non si spiega diversamente il fatto che milioni di uomini siano corsi a combattere e a morire, se non spinti da qualche cosa di superiore, che ha fatto tacere tutte le altre voci, tutti gli altri interessi, tutti gli altri amori, tutti gli altri istinti, compreso quello primordiale della conservazione. Non basta un regolamento di disciplina o un articolo del Codice Militare a determinare un fenomeno così grandioso! E l'idea di Patria che ha avuto i suoi soldati e i suoi martiri, la sua consacrazione di sangue, il suo suggello di gloria. Guglielmo Oberdan offerse all'Italia la sua giovinezza per dare all'Italia Trieste. Cesare Battisti, dopo venticinque anni, rinuncia con ferreo stoicismo, alla sua forte virilità per dare Trento all'Italia. Ora o non più. Cogliere l'attimo storico, o morire. Ma dalle Alpi bianche di neve e vermiglie di sangue, dalle rive dell'Isonzo che assiste alla rinascita dell'Italia, dalle pietraie orride del Carso, dal petto dei vivi, dalle fosse innumerevoli dei morti, il grido di Cesare Battisti è stato udito, è stato raccolto, è diventato battaglia. Ora o non più .... Il tragico dilemma è inciso a caratteri indelebili nel cuore del popolo italiano .... La forca di Battisti come la Croce del Golgota è alta sull'orizzonte, mentre tutto intorno la tempesta infuria. Ma il sereno verrà. Già qualche spiraglio di azzurro s'intravede tra le nuvole. Il meriggio solatìo non è lontano. Presto, le nuove generazioni d'Italia andranno al Colle di San Giusto e al Castello di Trento per compiervi il rito della ricordanza e della purificazione".[/color]
Crebbi, direbbe Mauro Suttora all’uopo (direbbe Gaetano Dentamaro), felice a Torre di Pordenone. Il ricordo del mio primo giorno di scuola sono i lucidi stivali neri coi tacchi alti della giovanissima maestra. Frequentavo come compagni di giochi i fratelli Claudio e Fabio Casetta, uno dei quali su punto da un’ape in un occhio mentre andava in bicicletta. Andare in bicicletta era considerata l’attività più pericolosa nel tranquillo quartiere situato tra il neo capoluogo di provincia e il maggiore comune satellite, Cordenons, quasi quasi Torre aveva più l’aria di frazione di campagna. Andando in bicicletta dal tabaccaio a prendere i toscani per mio padre, incozzai nel baule di un’auto e mi ruppi un incisivo a metà. Altri fatti traumatici furono la morte di un compagno di classe che si era arrampicato su un traliccio e rimase fulminato, e vedere una vecchia grassona pisciare in piedi come una mucca sul sagrato della chiesa dei santi Ilario e Cosma, se si chiamavano così. La tv in bianco e nero aveva solo tre canali: primo, secondo e capodistria. I primi giochi del dottore furono con una bambina vicina di casa, Roberta, e giocavo anche con la nostra prima gatta, Sofia. Nel 1975 la famiglia si trasferì dalla destra Tagliamento alla sinistra Piave imboccando la statale napoleonica 13 pontebbana, una delle più importanti arterie mitteleuropee, io ignaro che proprio lì dall’altra parte della strada, a poche centinaia di metri da dove avevo abitato il primo decennio della mia vita, si stabiliva in quel periodo con le figlie la donna con la quale sarei andato a convivere 13 anni più tardi: Dora Pezzilli era arrivata per darmi il cambio a Pordenone.
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