Amnesty international conquista l'Africa

di Jonathan Power

Introduzione. Jonathan Power e' autore del libro Like Water on Stone, una storia di Amnesty international che uscira' nell'aprile 2001. In questo articolo per il periodico Prospect accompagna in Nigeria il presidente dell'organizzazione Pierre Sane' in una recente missione di confronto con il presidente Obasanjo, un tempo prigioniero politico sostenuto da Amnesty stessa.

Non e' difficile riconoscere Pierre Sane', il segretario generale di Amnesty international, tra i quattrocento passeggeri in attesa di imbarcarsi sul 747 per la Nigeria. E' seduto su una panca dell'aeroporto di Heathrow mentre parla al telefono cellulare, con delle carte sul grembo, elegante in una camicia blu, cravatta giallo pallido , giacca scura, scarpe immacolate, borsa di pelle marrone e un orologio d'oro piuttosto costoso che sbuca dal polsino. Mi chiedo se questo aspetto resistera' nel caldo e alla polvere della mezza estate equatoriale. Mi allunga un documento sulla missione di Amnesty in Nigeria. La sezione sulle precauzioni per il viaggio non e' rassicurante: "Le linee aeree interne hanno un alto tasso di incidenti... Per la strada sono comuni le rapine a mano armata". Lavoriamo entrambi per gran parte del volo. Seduto nella fila di poltrone davanti alla sua, volto la testa quando mi vengono in mente domande.

"Vedo dal tuo programma che parlerai solo per un'ora con Obasanjo. E' normale con i capi di governo?" "Un'ora va abbastanza bene" - replica - "altrimenti la discussione divaga. Ho molti punti qui" - dice tamburellando i fasci di carte - "e la sezione nigeriana avra' i suoi, ma dobbiamo selezionare i principali tre e concentrare la sua attenzione su quelli, altrimenti diventa una lista della spesa". "Obasanjo e' informato dei punti che solleverete?" chiedo. "Abbiamo scritto a lui e ai ministri che visiteremo". Mi mostra la lettera al ministro degli esteri. Una buona lettera, dura ma educata. "Mi concentrero' sull'impunita'. La sua commissione investigativa sugli abusi dei diritti umani sotto Abacha (il presidente militare della Nigeria dal 1993 al 1998) si e' arenata. Non hanno risorse o forse Obasanjo non vuole andare troppo lontano. Probabilmente pensa che questo aiuti la riconciliazione".

Mi passa un'altra carta, datata 15 giugno, un comunicato stampa di Amnesty sulle esecuzioni di stranieri, specialmente nigeriani, in Arabia saudita, che "Ha uno dei piu' alti tassi di pena capitale nel mondo, e per il dieci per cento sono nigeriani. La pena di morte puo' essere usata per un largo spettro di reati, compresi la sodomia e la stregoneria". Ma la gran parte dei nigeriani sulla lista di Amnesty sono stati decapitati per traffico di droga o rapina a mano armata. "La stampa nigeriana ha dato molto spazio a questo comunicato" dice Pierre. "Allora l'avete emesso alla vigilia di questa missione per riscaldarli?" "Certo" - risponde sorridendo - "E' bene avere la stampa locale in un umore amichevole quando arriviamo". La nostra delegazione e' composta da altri due che sono gia' la' - Stephane Mikala dal Gabon e Sarah Pennington, un'americana specialista di Amnesty sulla Nigeria. "Non avete un avvocato" noto. "Avevamo programmato di portarne uno. Volevamo anche un portavoce. Ma abbiamo dovuto tagliarli. Niente soldi". Pierre, che svolge queste missioni una volta al mese, vola in classe turistica.

Chiedo "Trovate che semplicemente recandosi in un paese per chiaccherare con i funzionari e i gruppi di pressione abbia un effetto catalitico?" "Oh si', spesso porta le cose in superficie. O dei prigionieri vengono rilasciati. Ma puo' funzionare al contrario. Sono appena stato in missione in Nepal e il primo giorno la guerriglia pro-cinese ha attaccato la polizia, uccidendo quindici agenti, e questa ha effettuato una rappresaglia. Pare che questo sia stato fatto come una segnale per noi".

Comiciamo la discesa su Lagos, volando sopra grandi distese di campi punteggiate di piccoli villaggi tra i quali serpeggia un fiume. Ma in pochi attimi comincia l'estrema periferia di Lagos. Dall'alto sembra dapprima ordinata e ben proporzionata; case dall'apparenza solida si affacciano su strade diritte.. Poi l'aereo perde improvvisamente quota e vola basso. Vedo il ferro arrugginito dei tetti, gli affollati balconi dei casermoni e il traffico che vi si versa attraverso, una folla fuori da una moschea, lunghe code per gli autobus gialli. Da qui non posso annusare la spazzatura o toccare la violenza. Ma so che e' li', luccicante sulla quieta superficie della luce serale. Presto saro' a terra, in mezzo ad essa.

Una efficente signora del ministero degli esteri ci incontra appena scesi dall'aereo. Pierre rifiuta la sua offerta di accomodarci nella sala VIP mentre lei ritira i nostri bagagli. E' quasi tranquillo nell'aeroporto a paragone della mia ultima visita 16 mesi fa, quando Obasanjo era stato appena eletto presidente dopo la morte di Abacha. Fuori e' lo stesso. La folla in attesa sta bene indietro, ma ci sono sempre un paio di poliziotti in giro. Due uomini avanzano presentandosi come come il presidente e il direttore di Amnesty Nigeria, poi si ritirano per permettere a un gruppo di una ventina di sostenitori di stringerci le mani, scattarci fotografie e condurci verso una bella auto rossa.

TRE LUGLIO
A colazione Sarah Pennington riassume succintamente a Pierre lo stato della Nigeria dal ritorno di Obasanjo al potere. E' un mondo diverso. La gente si sente libera. La paura se n'e' andata. Pero', ed e' un grosso pero', quando scoppiano problemi di dispute etniche ci sono frequenti rapporti di abusi da parte dell'esercito e della polizia. "Obasanjo ha detto 'sparate per uccidere'?" chiede Pierre. "Si', piuttosto apertamente" risponde Sarah. Guidiamo verso quella che sembra l'altra estremita' di questa citta' di otto milioni di abitanti, verso un'intervista del mattino presto per una delle nuove televisioni private. "Perche' sto facendo questo alle otto del mattino?" brontola Pierre a Sarah. L'intervistatrice si e' preparata bene. Inchioda Pierre su tutto dai diamanti della Sierra Leone alle guerre angolana e congolese, alle uccisioni liberiane, alla piaga dei bambini nelle guerre africane e alla situazione locale. Pierre conosce ogni situazione nei particolari, e come esse si collegano tra loro. Ha fatto la stessa cosa in Asia il mese scorso e in America latina il mese prima.

Ripartiamo meravigliati dalla televisione, funzionante con un bilancio esiguo ma veloce e professionale. "C'e' questa enorme energia in Nigeria" - dice Pierre scuotendo la testa - "Se solo avessero le istituzioni giuste potrebbero veramente andare lontano". Scendiamo lungo una strada trasandata e un edificio ancora piu' trasandato, sede nigeriana di Amnesty. E' circondata da negozi e uffici altrettanto scalcagnati, molti dei quali, con mia sorpresa, risultano essere negozi di computer o scuole di internet.

Amnesty Nigeria fu fondata nel 1968 da missionari nella citta' orientale di Calabar. Negli anni ottanta era diventata abbastanza grande da impiegare del personale e ora ha 5.600 iscritti in 32 gruppi in tutto il paese. Pierre presiede una riunione di comitato formale. Un generatore di corrente stride rumorosamente in sottofondo, procurandomi un mal di testa. Il loro principale problema e', ovviamente, il denaro. Stanno arrivando alla fine di un programma speciale dopo il quale si suppone siano diventati autosufficienti. Tra un mese un team di Amnesty verra' da Londra per due mesi per spiegare loro come reggersi sui loro piedi. "Tutte quelle chiese e moschee che vedo" - chiede Pierre - "dove trovano il denaro?" "Facendo impegnare la gente a versare parte dei loro guadagni" - risponde Simeon Aina, il presidente. Pierre dice che anche loro devono fare lo stesso. Due questioni saltano fuori nella discussione: il commercio di armi (chiedono come possono acquisire l'esperienza per trattarlo) e l'istituzione del Tribunale internazionale. Simeon dice che la spinta sembra essersi affievolita in Amnesty dopo l'approvazione degli statuti l'anno scorso a Roma. "Stiamo spingendo per la ratificazione" - dice Pierre - "Solo 14 paesi hanno ratificato e ne occorrono 60 affinche' possa decollare. Abbiamo una nuova campagna che comincia tra due settimane. Dovete fare in modo che la Nigeria ratifichi al piu' presto possibile".

Nel pomeriggio incontriamo le altre NGO nigeriane sui diritti umani. Tutti cantano la stessa canzone: di' a Obasanjo, quando lo incontri, che nonostance ci abbia dato liberta' politica viviamo ancora sotto la tirannia della polizia. "Ieri stavo facendo la spesa nel mio mercato locale" - dice un funzionario - "Improvvisamente dei giovani hanno cominciato a rovesciare i tavoli e a rubare il denaro delle donne del mercato. La polizia e' arrivata quando i giovani erano scappati e ha semplicemente arrestato le prime persone sulle quali e' riuscita a mettere le mani". E cosi' continuano i racconti: sulla nuova Forza anti-rapina che getta semplici indiziati in prigioni speciali dalle quali non riemergono mai; sui magistrati che sono ignoranti e prevenuti.

Il sole comincia a tramontare e il traffico ad accumularsi mentre attraversiamo Lagos per dirigerci verso l'inclassificabile sobborgo di Ikejin. Abbiamo un appuntamento con la figlia di uno degli uomini piu' ricchi che la Nigeria abbia mai prodotto, il politico e uomo d'affari Moshood Abiola, vincitore delle elezioni nogeriane del 1993. Abacha lo confino' a languire in una casa isolata dove divenne sempre piu' malato, senza aiuto medico ne' contatti con la sua famiglia. Dopo la morte di Abacha nel 1998 si vociferava di un suo rilascio se avesse rinunciato a pretendere la presidenza. Il segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan cerco' di mediare un compromesso con il presidente militare ad interim, generale Abubakar, ma Abiola ebbe un ultimo infarto e mori'. Sua moglie Kudirat era stata assassinata nel 1996 e suo figlio Mohammed e' in prigione in attesa del processo dove e' accusato di essere il mandante dell'omicidio. Amnesty ha lottato duramente per Abiola e Pierre ha voluto rendere omaggio alla sua figlia maggiore, Hafsat. Vagabondiamo intorno alla dimora, le cui stanze sono arredate con pesanti tappeti e mobili imitazione dello stile Luigi XIV. Hafsat e' una donna energica e affascinante, educata a Harvard, con una mente lucida di cui ha spesso fatto buon uso nel programma della BBC Newsnight durante gli anni di Abacha. Ci mostra le tombe di famiglia in un angolo del cortile.

QUATTRO LUGLIO
Chiamo Obasanjo da una cabina dell'aeroporto non appena sbarchiamo ad Abuja, la capitale politica. L'ho conosciuto per la prima volta come un amico quasi vent'anni fa, subito dopo il suo primo periodo come presidente, e ho recentemente rinnovato la conoscenza dopo la sua elezione alla successione di Abacha l'anno scorso. Mi dice di chiamarlo dall'albergo e mandera' qualcuno a prendermi. Alle 7.30 entro per la la prima volta nel raffinato complesso presidenziale. Costruito da uno dei suoi predecessori militari, ha l'aspetto di un campus delle ricche universita' private americane: edifici bassi sparsi su ampi prati interrotti dagli alberi. E' pulitissima, come mi capita di constatare con un crescente numero di edifici pubblici al giorno d'oggi in Nigeria. Vengo condotto nella sala da pranzo arredata col gusto nouveau riche dei dittatori militari, e trovo Obasanjo seduto a capotavola circondato dal suo entourage. Sta leggendo un Financial Times di cinque giorni prima e gli chiedo se questa e' la sua abitudine. "No, qualcuno me l'ha appena portato". Guarda a che cosa sto portando con me, Prospect e il nuovo romanzo di Ondaatje, e alza un sopracciglio come per dire "Sono per me?" Poiche' non ho portato regali, glieli offro. Obasanjo e' un lettore, e scrittore, vorace. Uno dei tre libri che ha scritto in prigione, This Animal called Man, e' un'erudita esposizione del credo cristiano, molto ben scritta. Parliamo spesso di religione: io il dubbioso che non vorrebbe esserlo, e lui levangelista che gli anni della prigione hanno fatto ancor piu' fervente.

"Cosi' stati viaggiando con Amnesty. Che cosa vogliono? Non ho niente da dire loro" - dice nella maniera militare che usa per intimidire -"E' per Odi?" "Penso che sia sulla loro lista" rispondo (Odi e' una citta' nel delta del Niger dove Amnesty dice che ci sono state esecuzioni militari extra-giudiziali nel settembre 1999). Scuote la testa. "Sembra che le esecuzioni continuino ancora qua e la'" dico. "Amnesty non sa niente di quel che succede" dice. "Allora perche' c'e' un'inchiesta?" insisto chiedendomi quanto posso continuare senza fargli perdere la pazienza. Cambio argomento. "Penso che l'altra cosa che solleveranno riguardi la commissione che investiga gli abusi dei diritti umani sotto i governi militari. sembra essere lenta" dico. "Dovrebbero andare a parlare al giudice Oputa, il suo presidente". "Lo faranno, ma mi avevi detto l'anno scorso che avresti fatto schioccare la frusta" replico. "E' quel che sto facendo". Si gira per parlare a un altro ospite, l'ex governatore dello stato di Lagos sotto Abacha. Poi se ne va. Quando torna gli chiedo quale effetto abbia avuto Amnesty nell'aiutare a minare Abacha. "Difficile determinarlo" - replica - "All'apparenza sembrava che niente potesse muoverlo. Ma tutte quelle pressioni dall'esterno hanno avuto un effetto. Ci sono molte teorie su che cosa abbia causato la morte di Abacha ad una cosi' giovane eta'. Un fattore e' stato lo stress dalla presione esterna" - fa una pausa - "Amnesty fa bene, il mondo ne ha bisogno, ma non hanno sempre ragione" (Lo stesso Obasanjo e' stato per tre anni uno dei piu' conosciuti prigionieri adottati da Amnesty, dopo essere stato imprigionato da Abacha nel 1995).

Lo avverto che Sane' e' un osso duro, ma non apprezza: "Me ne andro', lo sai, se non mi piace". La sua rabbia scintilla, si placa e la conversazione cambia.. Sparisce e ritorna in pantaloni corti. "Vieni a vedermi giocare. Lo faccio due volte al giorno". Camminiamo verso il cmapo di squash e lui gioca una partita veloce e vittoriosa contro uno dei suoi collaboratori. "Lo indimidisci" dico. "Sono bravo" sogghigna.

CINQUE LUGLIO
Alle 11 Pierre ed io entriamo nell'edificio del parlamento, una distinta cupola verde, e saliamo molte scale in cerca dell'ufficio del senatore Sogangi, presidente del comitato diritti umani del senato. Senza fiato e di cattivo umore quando finalmente lo troviamo, ci viene detto che ha cancellato l'incontro tra Amnesty e il suo comitato a favore di un altro con Jimmy Carter, ex presidente degli Stati uniti. Pierre e' incavolato , rigetta l'offerta di una quieta chiccherata piu' tardi nell'ufficio di Sodangi e decide di scrivere una lettera forte. Alle tre del pomeriggio attraversiamo verso il complesso presidenziale. Stanze pannellate di mogano, scale e pavimenti di marmo: mi chiedo quanti villaggi avrebbero potuto avere l'acqua corrente o una scuola elementare con i soldi spesi in questo. Sediamo in una sala piuttosto formale e siamo invitati ad alzarci quando entra Obasanjo, che si siede a capotavola con quattro consiglieri. Dall'altro lato del tavolo siedono Pierre e Sarah e Simeon Aina e Eke Ubiji della sezione nigeriana. Io mi siedo da parte. Simeon presenta tutti e poi Pierre fornisce un'introduzione avendo cura di sottolineare come il paese ora si senta aperto, come il senso di paura sia passato. "Mi rendo conto" - dice - "che la democrazia non risolve tutti i problemi dalla sera alla mattina: avete ereditato enormi abusi dei diritti umani. Siamo qui per parlare sia degli abiusi del passato sia di quelli che continuano sotto un sistema giudiziario che non e' cambiato molto". Scorre quindi la lista delle prove delle continue esecuzioni extra-giudiziali, le torture, l'abuso delle donne nelle prigioni e il comportamento della polizia. Obasanjo comincia "Non abbiamo molto tempo, ma voglio dire che ho un'alta opinione di Amnesty, ho sempre lodato il vostro lavoro". Prende la palla e la gioca per quasi un'ora: abbassa la voce, l'alza, racconta aneddoti, respinge fermamente la maggior parte delle proposte di Amnesty, ma dice che se hanno prove di tortura nelle prigioni di fornirgliele. E' essenzialmente irremovibile, sia pure con grande fascino. Sulla questione cruciale del comportamento dell'esercito Obasanjo ragiona come un soldato. "Bisogna pensare al morale dell'esercito, certo, ma anche alla cose cattive che fa l'esercito" dice Pierre. "Ti hanno mai sparato, Pierre?" ribatte Obasanjo, che fu preso di mira molte volte durante la guerra in Biafra. Pierre scuote la testa modestamente, nonostante la sua vita sia stata minacciata piu' volte. "Sfortunatamente" - aggiunge Obasanjo sorridendo - "non c'e' alcun luogo qui dove possiamo spedire Pierre a farsi sparare!" Solo alla fine, quando Pierre solleva la questione della pensa di morte, sembra esserci un modesto incontro di idee. "Non spingermi, io mi trascino a carponi, a volte cammino. E' cosi' che voglio". No, non dichiarera' una moratoria. "Il problema con le moratorie e' che finiscono. Ed e' un'opportunita' buttata via se uno deve tornare indietro. Io voglio abolire la pena di morte. Vado in quella direzione, ma c'e' molto lavoro educativo da fare. Non ho firmato condanne a morte e non le firmero' ora. Ma ogni governatore puo' prendere questa decisione e io non posso interferire. Ma voi di Amnesty dovete lavorare per scoprire le ingiustizie, cosi' la gente puo' essere istruita sui difetti della pena di capitale".

Pierre e Sarah hanno fatto del loro meglio. Conoscevano i loro argomenti e nessuno si e' impaperato. Guardo verso Pierre. Ha le ciglia appesantite, quasi chiuse. Questo contrasta col tipo. Non ha vinto un punto e si vede. Ma camminando lungo il corridoio dopo l'incontro, vogliono credere che qualcosa di buono ne sia scaturito. "L'abbiamo visto, e la porta e' aperta" - dice Pierre - "possiamo scrivergli e seguirlo. Abbiamo costruito un rapporto" - dice Sarah - "non c'era ostilita'". Sono caduti nella stessa fascinazione che io ebbi anni fa. Obasanjo e' cosi' diretto, con dei modi cosi' autorevoli che anche i critici cominciano a vedere le cose dal suo punto di vista. Ma Obasanjo, per quanto sia un vecchio soldato, ha un lato vulnerabile. Alla fine dell'incontro mi e' passato accanto e gli ho detto "Buona prestazione" "Lo pensi davvero?" ha chiesto incontrando i miei occhi coi suoi in cerca di approvazione. "Si', hai presentato bene il tuo caso, ma non posso dire di essere d'accordo su tutto" "Lo so che non lo sei, Jonathan" - risponde prendendomi per un braccio - "Vieni a cena con Pierre stasera. C'e' molto di cui parlare". E ce ne fu davvero. Dopo una giornata cosi' intensa fu un sollievo parlare di cose personali: il bisogno di Pierre di tornare a lavorare in Africa e il mio intramontabile dibattito con Obasanjo sulla moralita' cristiana e l'adulterio.

SEI LUGLIO
Oggi abbiamo appuntamenti con i ministri dell'interno e della difesa. Nessuno dei due c'e' quando arriviamo. Quello dell'interno offre un altro orario, che si scontra con quello del supposto incontro con quello della difesa. Alla fine non vediamo nessuno. Pierre e Sarah concludono che incontrare Amnesty non e' un'alta priorita'. "Forse abbiamo fatto uno sbaglio" - confida Pierre - "Non avremmo dovuto aspettare cosi' a lungo. Qui l'aria e' uscita dalla mongolfiera dei diritti umani. Avremmo dovuto venire sei mesi dopo le elezioni, quando le cose erano fresche. L'abbiamo fatto in Brasile e in Corea del sud e ha funzionato e tutti volevano vederci, a tutti i livelli. E i media ci seguivano dappertutto".

Guidiamo a nord verso la capitale dello stato islamico di Kaduna. La Nigeria ha una rete di buone arterie stradali e copriamo rapidamente i 180 chilometri su una doppia carreggiata, passando attraverso un'Africa cambiata pochissimo in centinaia di anni: semplici case di fango, alcune col tetto di latta, altre di paglia, nessun segno di elettricita' e neppure di scuole per gran parte del viaggio. Arriviamo alla casa del vice-presidente di Obasanjo dell'epoca quando lui era presidente militare. Erano amici e furono arrestati nello stesso periodo. Ma lui mori' in prigione e si sospetta che sia stato avvelenato. La vedova ci racconta dei recenti disordini religiosi tra cristiani e musulmani (duemila persone furono uccise nel febbraio scorso e altre 300 in maggio). "Non sapevo da dove questi scontri fossero saltati fuori. Kaduna e' sempre stata una citta' tranquilla. Cristiani e nusulmani hanno vissuto fianco a fianco per decenni. Parti della legge Sharia sono state praticate a lungo in Nigeria; ha un posto nella costituzione. Abbiamo sempre avuto tribunali Sharia per i musulmani come sistema alternativo di giurisprudenza. Gli sconvolgimenti sono avvenuti quando alcuni membri della nostra assemblea statale hanno cominciato a spingere per le pene Sharia: amputazioni e cose del genere. Non penso che il governatore abbia spiegato al pubblico che cio' non si sarebbe applicato ai cristiani.

SETTE LUGLIO
Guidiamo lungo una strada distrutta con piccole officine, chiese e moschee situate quasi fianco a fianco, smantellate e carbonizzate. Scaliamo i gradini di un altro edificio decrepito, sede della sezione di Amnesty di Kaduna. Fuori pende uno striscione con lo slogan Kaduna da' il benvenuto a Pierre Sane'. Una signora anziana mi accompagna al balcone. "Vede quelle grandi bruciature di asfalto scolorito sulla strada? E' li' dove hanno fatto i roghi e bruciata viva la gente". Dovetti stare a guardare. Non avrei potuto uscire. Non osavo andare giu' in strada".

Pierre, ora vestito in una lunga tunica da deserto nigeriano settentrionale, parla a un incontro della sezione locale di Amnesty e un grande numero di rappresentanti delle NGO. La stanza e' affollata e ognuno vuole avere la possibilita' di parlare. Sorprendentemente, quasi tutti sono brevi e precisi. Noto che non c'e' quasi nessuno nella stanza sopra i 40 anni. Ma non sono neppure studenti. In Nigeria la politica sembra essere cosa per la vecchia scuola, e l'attivita' delle NGO per i giovani professionisti istruiti. "Lo scopo di questo incontro e' abbastanza enorme" - dichiara il presidente nella pesante cadenza dell'inglese nigeriano. "La gente e' stata distrutta e non ha di che ricostruire le loro attivita' e le loro case. Lo stato dovrebbe compensarle" dice il primo oratore. Un importante musulmano locale dice: "Noi nigeriani siamo notoriamente religiosi. Il piu' delle volte ci rispettiamo reciprocamente. Poche persone hanno abusato della loro liberta' per fomentare l'odio". "Perche' il governo non spazza via le armi dalla citta'?" - dice un altro - "Dopo la guerra del Biafra perquisirono le case e confiscarono ogni arma e ogni proiettile". Pierre conclude l'incontro dicendo loro: "Le NGO devono coninuare a discutere questi problemi. La comunita' non progredira' finche' non progrediranno le NGO".

Ci dirigiamo verso l'ufficio del governatore. E' un musulmano, e forse un uomo tollerante: nessuno si e' sforzato di cancellare i graffiti fuori dalla sua residenza: Sir, sorry to say, No to Sharia. Come con Obasanjo, tutto e' molto formale. Pierre riassume le critiche delle NGO e il governatore fa un altrettanto efficace lavoro per rigettarle. "Mi ha fatto piacere vedere che nessuna nazione, grande o piccola, e' sfuggita alle critiche nel vostro rapporto annuale. L'ho visto discusso sulla CNN" - comincia il governatore - "Stiamo introducendo una forma di controllo da parte dei cittadini dei vari gruppi nei quartieri. Vogliamo che la gente sia responsabilizzata non solo sulla sicurezza ma anche sull'ambiente". Scorre la lista di Pierre. Compensazione: no, ma assistenza; armi: le stiamo cercando; NGO: "sono benvenute per vedermi"; Sharia: "non possiamo risolvere i problemi lottando, dobbiamo parlare".

L'incontro dura mezz'ora e corriamo all'aeroporto a prendere l'ultimo aereo del giorno per Lagos. Pierre dice che non dobbiamo perderlo. Domani sara' fatto capo Yoruba onorario dall'Alaffyn (re) di Oyo, per i suoi servizi ad Amnesty.

OTTO LUGLIO
Prima della colonizzazione britannica il regno Youruba di Oyo si estendeva attraverso la Nigeria meridionale fin dentro nel Benin. Oggi e' rimasto l'ombra della sua gloria: potere e ricchezza sono passati lungo tempo fa alla borghesia e all'esercito. Eppure i capi tradizionali conservano l'affetto del loro popolo, specialmente negli angoli remoti del paese dove siamo. Arriviamo alla casa del re, ferro arrugginito piu' che oro, al limite della piccola citta' di Oyo. C'e' un saluto da parte di vecchi uomini senza denti che sparano con moschetti fatti in casa. Il re e Pierre camminano sotto un parasole con la pubblicita' della compagnia petrolifera Gulf. Vecchi uomini e donne in successione vengono a prostrarsi davanti al re. Un bambino danza, vestito come una bambola di legno intagliato. Lo stesso Pierre e' vestito nei panni rossi di un capo. Si inginocchia davanti al re, che gli mette perline di vetro attorno al collo e un bastone nella mano. Parla il re, definendolo "uno dei figli illustri dell'Africa". Poi e' il turno di Pierre. La folla di duemila persone si accalca per ascoltare. "Amnesty international e' arrivata profondamente nel cuore dell'Africa" - dice Pierre - "profondamente oltre le citta', profondamente oltre i politici, profondamente dentro il popolo dell'Africa".

Questa e' la sorprendente conclusione alla quale sono giunto anch'io. Un'organizzazione cominciata 40 anni fa nella testa di un avvocato inglese cattolico discendente di ebrei ha messo radici nell'Africa piu' nera.

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