Globalizzare la democrazia
Tra le poche istituzioni politiche internazionali di una certa rilevanza, il Consiglio d'Europa è quella che questo congresso del Partito radicale si propone di adottare come embrione di una Organizzazione mondiale delle democrazie che del nuovo ordine mondiale costituisca il pilastro politico affiancato a quello giuridico del Tribunale penale internazionale.
Il congresso è infatti chiamato a deliberare sul tema della globalizzazione della democrazia, dei diritti e delle libertà negate ai popoli oppressi del pianeta. In questo senso, non solo il Consiglio d'Europa ma anche l'Unione europea e l'Organizzazione delle nazioni unite si prestano a nuovi modelli di democrazia, trascurare lo sviluppo dei quali significherebbe rinunciare alla speranza che nell'era della globalizzazione la democrazia possa consolidarsi dove già esiste ed espandersi dove ancora non c'è.
L'Unione europea in particolare è un esperimento politico senza precedenti, unico nella storia della democrazia, nel non essere né uno stato-nazione né, o non ancora, una (con-)federazione di stati-nazione, ma piuttosto una nuova forma di governanza che gli europei contemporanei hanno la straordinaria opportunità di modellare nel costruire. Il termine stesso di "governanza", invece di governo, indica un sistema in cui la società civile interagisce più intensamente con le istituzioni per colmarne il dibattuto deficit democratico.
Di solito i governi democratici si trovano in una posizione forte in termini di legittimazione perché godono del consenso di chi, tramite regolari elezioni, esercita il controllo di un sistema in cui i politici sono responsabilizzati ed incentivati a prendere in considerazione i loro bisogni. In estrema sintesi gli attributi della democrazia si possono riassumere nella capacità da parte di cittadini di:
(a) controllare l'operato di chi agisce in nome e per conto loro; e
(b) esercitare questo controllo su una base egalitaria.
Da questo punto di vista, l'Unione europea difetta di una fonte di autorità nella sovranità popolare. Infatti il Parlamento europeo, che in quanto tale è una delle istituzioni principali sulle quali misurare la democrazia nell'Unione, fu concepito per riflettere le comunità nazionali più che i cittadini d'Europa, e ancora oggi i suoi poteri sovranazionali sono confinati al pilastro comunitario mentre i pilastri di difesa e affari esteri, e di giustizia e affari interni, sono ancora aree di (non-)decisione essenzialmente intergovernamentali.
I federalisti europei, o "sovranazionalisti" in quanto opposti alle forze conservatrici e reazionarie degli "intergovernamentalisti", hanno tre obiettivi principali: più poteri per il Parlamento europeo; l'elezione diretta del Presidente della Commissione (o Presidente d'Europa); e, ultimo ma non meno importante, l'introduzione di referendum del tipo svizzero, ma su scala europea, per coinvolgere i cittadini nel processo di costruzione del consenso. In altre parole: la realizzazione a livello regionale (europeo) di un modello di democrazia cosmopolita con più fonti di partecipazione anziché la sola base territoriale, in modo da offire alternative agli effetti de-democratizzanti della globalizzazione economica che erodono i diritti legati alla cittadinanza.
Storicamente tale concetto di cittadinanza corre parallelo a quello di democrazia e con questo si è evoluto nel corso dei secoli. Oggi la globalizzazione sfida, e costringe a ricostruire, l'idea che abbiamo della cittadinanza democratica. Nella democrazia classica ateniese la cittadinanza - cioè il diritto di partecipare al processo decisionale votando su importanti questioni riguardanti la vita della gente -, era accordata solo ai maschi sulla base dei doveri militari e della proprietà individuale. Questo tipo di cittadinanza ritornò con l'emergere dello stato-nazione e il riemergere della democrazia stessa dal XVII secolo in poi; ma si trattava di una cittadinanza ancora limitata ai maschi, dai quali ci si aspettava in cambio che difendessero lo stato-nazione stesso.
Poi, nel XX secolo, hanno avuto luogo due cambiamenti epocali. Nella prima metà del secolo l'industrializzazione della guerra nei due maggiori conflitti ha condotto all'estensione della cittadinanza a delle categorie, comprese le donne, in precedenza marginalizzate perché ritenute inutili ai fini bellici (anche se il successivo sviluppo della dottrina militare nucleare e degli eserciti professionali ha reso anacronistica l'equazione tra doveri militari e diritti di cittadinanza).
In secondo luogo, ma con un impatto altrettanto importante, c'è stata la globalizzazione, cioè l'intensificazione esponenziale dell'internazionalizzazone della produzione e degli scambi grazie agli straordinari balzi tecnologici nei trasporti e nelle comunicazioni. La globalizzazione scuote le fondamenta della democrazia come siamo stati abituati a conoscerla nel contesto dello stato territoriale liberal-democratico. Le implicazioni di questo fenomeno sono molto preoccupanti soprattutto per l'ambiente. Per esempio, la deforestazione dell'Amazzonia avrà conseguenze ambientali a lungo termine ben oltre il territorio sovrano del Brasile.
Questa globalizzazione dei problemi ambientali trasforma le condizioni della democrazia nello stato liberal-democratico perché la community of fate ambientale è molto più vasta di quella di ogni singola nazione, ma le nazioni detengono di fatto un veto tramite la loro inazione, mentre le istituzioni internazionali che sono emerse non sono costituite democraticamente.
I problemi ambientali e gli altri problemi globali (economico-finanziari, di diritti umani e civili...) richiedono quindi un nuovo modello di geo-governanza: il modello di democrazia cosmopolita. La democrazia liberale del XIX e XX secolo ruotava attorno all'urna elettorale come meccanismo di espressione di preferenze politiche da parte dei cittadini, che così conferivano ad un governo l'autorità di regolare la vita socio-economica tramite la legge. Tuttavia il concetto di consenso elettorale, di community of fate che governa il proprio futuro, viene messo in discussione dalla natura della globalizzazione. Le comunità nazionali non pianificano più le loro politiche, cioè il loro futuro, in modo esclusivo: i loro governi condividono la sovranità nazionale con agenzie internazionali e aziende multinazionali, perché i loro confini politici e territoriali sono sempre più permeabili. Ne consegue che i principi fondamentali della democrazia liberale - quali autodeterminazione, sovranità popolare, consenso e rappresentazione -, vengono resi seriamente problematici.
Nel modello di democrazia cosmopolita, l'unico sviluppo fattibile a questo stato di cose consiste nell'approfondire ed estendere la democrazia attraverso le nazioni, le regioni e i network mondiali. In breve: la globalizzazione della democrazia. Le basi di una tale democrazia cosmopolita sono individuate nella definizione di un insieme di diritti e doveri civili, politici e socio-economici che diano forma e limiti al processo decisionale democratico.
In pratica questo può essere conseguito con la creazione di parlamenti a livello globale e regionale, per esempio in Africa e in America latina sul modello del Parlamento europeo. Il ruolo di queste assemblee dovrebbe essere rafforzato cosicché le loro decisioni vengano riconosciute come legittime fonti indipendenti di legislazione regionale e internazionale. Come seconda misura da intraprendersi parallelamente alla democrazia rappresentativa parlamentare, il modello introduce la democrazia diretta nella forma di referendum in più stati, con gli elettorati definiti secondo la natura e la portata delle controversie transnazionali. In terzo luogo, la competenza dei tribunali internazionali dovrebbe essere estesa cosicché gruppi e individui dispongano di uno strumento effettivo per citare in giudizio le autorità politiche di eseguire ed applicare i principali diritti.
Quest'ultima misura è particolarmente importante per i diritti e doveri dei cittadini e degli stati in relazione all'uso della forza. Infatti la democrazia è stata legata alla guerra sin dalla sua origine nell'antica Atene, dove i cittadini erano anche guerrieri e la cittadinanza comportava il dovere a combattere. Anche nelle rivoluzioni americana e francese ci si aspettava che i cittadini combattessero per i loro Paesi, e più tardi questo collegamento si rinnovò quando la cittadinanza venne garantita a certi gruppi sociali in cambio del loro contributo in tempo di guerra. E fino a tempi recenti un modello aggiornato di cittadinanza democratica faceva del servizio militare l'altra faccia dei diritti al lavoro, la casa, l'istruzione e la previdenza sociale.
Però la democrazia cosmopolita non è il solo modello che i pensatori politici contemporanei abbiano configurato per il futuro della democrazia. Tuttavia offre il vantaggio di combinare aspetti sia del comunitarismo radicale che dell'internazionalismo liberale. Come il nome stesso suggerisce, quest'ultimo ha una lontana origine nel pensiero di filosofi illuminati e modelli di democrazia quali il liberalismo evolutivo di John Stuart Mill fino alla poliarchia di Robert Dahl, sostanzialmente sostenendo il cambiamento tramite la graduale riforma delle istituzioni esistenti. Perciò essi videro una forma di democratizzazione a livello globale nella creazione di una Assemblea popolare inizialmente costituita da parlamentari nazionali, ed un Forum rappresentativo della società civile, entrabi legati alla Assemblea generale delle Nazioni unite, più un Consiglio di sicurezza economica affiancato al Consiglio di sicurezza attuale.
D'altra parte i radicali - nel senso però della corrente di pensiero fondata sulla tradizione politica del ginevrino Rousseau, poi Marx e la nuova sinistra contemporanea -, alla riforma istituzionale preferiscono la profonda trasformazione dell'attuale organizzazione degli attuali rapporti socio-economici, proponendo il modello di partecipazione diretta noto come demarchia in cui la rappresentatività non sia più legata ad un territorio specifico ma derivi invece dal comune interesse di una comunità di volta in volta unita sul problema dei trasporti, per esempio, o dell'ambiente, la sanità, la scuola...
Tuttavia i modelli radicale, liberal-internazionalista e cosmopolita condividono un punto in comune: che la globalizzazione sfida la democrazia così come la conosciamo, e sono conseseguentemente impegnati nell'approfondirla ed estenderla nella direzione della governanza mondiale, rigettando però l'idea di un governo mondiale. In questo essi appartengono tutti alla famiglia dei trasformazionalisti opposta ai cosiddetti realisti, i quali sostengono che la globalizzazione non rappresenti nulla di nuovo sotto il sole e pertanto propongono di affrontare questa sfida semplicemente trasponendo in un governo mondiale le simili centralizzazione e rafforzamento del governo americano un secolo fa in risposta alla crescita delle aziende, sia pure su scala nazionale.
I realisti cercano di migliorare l'efficenza dell'Organizzazione delle Nazioni unite rendendola più prona agli interessi delle grandi potenze, mentre la visione riformatrice o alternativa di geo-governanza dei trasformazionalisti si scontra con i poteri finanziari e di veto degli stati egemoni. Inoltre, nelle Nazioni unite, istituzione di geo-governanza per eccellenza, rispetto all'Unione europea la situazione è complicata dalla sua scala mondiale anziché regionale e dal fatto che non tutti gli stati membri sono democrazie consolidate, né alcuni governi sembrano ancora vagamente orientati in questo senso.
Le due questioni centrali generanti tensione tra la riforma dell'Onu e la sua democratizzazione, ovvero quella dell'autonomia finanziaria e la composizione e potere di veto del Consiglio di sicurezza, lungi dall'essere distinte sono legate tra loro. Ecco un esempio: la città di New York spende più denaro per mantenere la pace nelle sue strade di quanto ne disponga l'Onu per mantenerla in tutto il mondo. Questa statistica illustra una differenza enorme tra ciò che ci aspettiamo dall'Onu e la sua effettiva capacità di agire, ponendo chi si dichiari seriamente intenzionato alla riforma dell'Onu dinanzi alla prospettiva che questa venga abilitata ad una qualche forma di indipendenza finanziaria. Questo significa che gli stati membri verrebbero chiamati ad un grande esame di coscienza circa la loro volontà a mantenere l'Onu nella sua attuale, ristretta forma intergovernamentale in cui tutto viene deciso dal Consiglio di sicurezza, o se le grandi potenze che quest'ultimo compongono siano pronte a sperimentare con delle forme di governanza veramente più aperte, nel qual caso non dovrebbero mostrarsi timorose che un'organizzazione internazionale possa godere di una certa indipendenza finanziaria.
Per esempio, l'argomento principale per aggiungere agli attuali cinque membri del Consiglio di sicurezza la Germania e il Giappone (che ne furono esclusi in quanto potenze perdenti della seconda guerra mondiale), è proprio che questi due stati sono tra i maggiori contribuenti al bilancio dell'Onu. Aggiungerli aprirebbe però la strada ad analoghe pretese da parte di molti altri, sulla base di (a) potenza militare (il possesso di armi nucleari); e/o (b) livello di industrializzazione, come appunto è il caso di Germania e Giappone ma anche altri paesi del G8; e/o (c) puro peso demografico, il caso più evidente essendo l'India. Ma allora il Pakistan pretenderebbe lo stesso trattamento in "virtù" di possedere la bomba atomica come l'India, e allora dovrebbe essere ammessa un'altra potenza nucleare di fatto: Israele. E l'Italia pesterebbe i piedi come l'unico grande Paese europeo lasciato fuori, e così il Canada come l'unico del G8.
Una volta esteso questo Consiglio di sicurezza a quasi tutto il nord del mondo, per bilanciarlo con altre regioni i candidati più probabili sarebbero Brasile, Egitto, Indonesia, Messico e Nigeria. Eppure avremmo ancora un lunga lista di insoddisfati: Argentina, Iran, Polonia, Sud Africa, Spagna, Turchia, Ucraina... È inoltre interessante notare che due stati dell'Unione europea siedono permanentemente nel Consiglio di sicurezza: Francia e Gran Bretagna. Difficile pensare che queste ex-superpotenze accettino il ridimensionamento del loro ruolo e cedano volontariamente i loro seggi rispettivamente all'Unione europea e al Commonwealth britannico. Tuttavia è possibile immaginare un terzo seggio europeo assegnato all'Unione europea in quanto tale (meno Francia e Gran Bretagna ovviamente), invece che a un suo singolo stato-membro.
Un altro seggio permanente verrebbe assegnato all'Africa sub-sahariana, costringendo così grandi Paesi come Nigeria e Sud Africa ad unire le loro politiche estere, il che condurrebbe sperabilmente a una Unione africana o Stati uniti d'Africa. Ancor più probabile che tale modello possa avere successo è in Sud America, dove esiste già una forma di mercato comune, mentre sarebbe forse più difficile convincere le nazioni arabe ad unire gli sforzi con i loro fratelli musulmani asiatici. Il Consiglio di sicurezza risultante, di 11 membri (Africa, Arabi, Asean, Cina, EU, Francia, India, Mercosur, Regno unito, Russia, Stati uniti), rifletterebbe una presenza europea più leggera (27% invece di 40%) mantenendo la maggioranza di democrazie consolidate a non meno del 55%, mentre il potere di veto potrebbe tranquillamente essere sostituito da una maggioranza qualificata di otto memberi su undici.
Se queste possono sembrare delle fantasie, bisogna sottolineare che sarebbe una fantasia oggi pensare alla democrazia senza affrontare le questioni esaminate qui. Anche il Tribunale penale internazionale, dieci anni fa, sembrava un fantasia, ma oggi è decollato. E questo mio piccolo esercizio nella composizione del Consiglio di sicurezza dimostra come lo sviluppo dell'Unione europea verso una nuova forma di governanza sia necessario non soltanto per il bene della democrazia nella stessa Unione, ma sarà di grande beneficio anche per le Nazioni unite nell'aprire la strada a un nuovo modello di democrazia e nell'impostare un esempio di governanza regionale per altri continenti.
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