“La verità, la verità! Che cazzo è la verità... Chi sei tu per chiedere a me di dire la verità. La sola verità che conosco è quella che mi ripete in continuazione che sto morendo, che mi mancano le forze, che gli scalini diventano sempre più alti, le braccia pesanti, le gambe deboli e che debbo vivere sempre più in fretta, che se mi fermo un poco a prendere fiato...
“La verità, la verità! Che cazzo è la verità... Chi sei tu per chiedere a me di dire la verità. La sola verità che conosco è quella che mi ripete in continuazione che sto morendo, che mi mancano le forze, che gli scalini diventano sempre più alti, le braccia pesanti, le gambe deboli e che debbo vivere sempre più in fretta, che se mi fermo un poco a prendere fiato arriverà LEI, la sola verità che conosco: la morte. Io odio la verità… voglio dimenticarmi di lei! La verità è un lusso che non ho mai potuto permettermi… giocateci voi con la verità! Io debbo solo imparare a mentire meglio, specie con me stesso” (“Ocean Terminal”, pp. 59-60).
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“Ocean Terminal” è la sintesi letteraria dell'esistenza di Piergiorgio Welby, dai giorni dell'infanzia a quelli della malattia. Welby voleva fosse non “romanzo”, ma “scrittura in continuo movimento”, come musica; era stato molto deciso nel ribadire a sua moglie Mina e a suo nipote Francesco Lioce che era necessario che questo libro fosse pubblicato “dopo” (cfr. postfazione, p. 158 e pp. 162-163). E così è stato. Nella Nota del Curatore, leggiamo che l'idea risale a fine 1997-primavera 1998, post tracheostomia e rianimazione. Il libro è stato scritto interamente al computer, in circa otto anni; ultimo giorno di lavorazione, il 4 gennaio 2006. Welby lavorò a quattro diverse stesure; l'ultima è quella su cui si fonda questo libro. Un libro, come vedremo, impressionante.
L'opera è giocata per frammenti giustapposti, è naturalmente diaristica o para-diaristica e singolarmente sconnessa. Si direbbe cioraniana, in questo senso, più che celiniana. È l'espressione della difficoltà di tenere assieme “i frammenti di un io disgregato nel riflesso schizoide della propria natura umana” (p. 15), e del desiderio di rappresentare la libertà di una razza, quella umana, che in fin dei conti non è libera nemmeno quando si sceglie il colore delle scarpe. A volte nemmeno di decidere come e quando morire.
La scrittura è visiva e pittorica (sparsi qua e là omaggi a Cézanne, Magritte, Turner, Van Gogh, Renoir, Aldo Riso, Bosch, De Chirico, Sisley), ricchissima di reminiscenze letterarie (Miller, Kerouac, Swift, Poe, Dostoevskij, Collodi, Proust, Hemingway, Bukowski, Kafka, Carroll), musicali (almeno Vivaldi per “Deposuit potentes”, e Bob Dylan) e filosofiche (Schopenhauer e Heidegger in primis), capace di rappresentare, per flash efficaci, momenti della sua e della nostra vita: Roma, e le condizioni difficili dei malati in ospedale, e le menzogne della politica e della propaganda dei regimi; tutto torna, ritorna e si amalgama. Come in un gigantesco flusso di coscienza, incontenibile, politicamente scorrettissimo. Lisergico, e allucinato; ferocemente antiamericano. Hiroshima e Dresda sono le due (sacrosante) ossessioni di Welby: non riesce a capire come possano esistere massacri “democratici”, non riesce a capire come possano essere dimenticati i 250mila morti di Dresda: “La guerra era ormai finita – scrive – ma il 7° cavalleggeri era rimasto con un casino di bombe negli arsenali, hanno pensato a un finale pirotecnico, un crescendo rossiniano: Dresda un braciere e gli abitanti arrosto” (p. 36). Parole simili le spende, nelle prime battute, per la mostruosità di Hiroshima.
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I ricordi di giovinezza scintillano di una vitalità e di una scompostezza incredibili. “Io compravo ricette false per un tubo di stenamina, rubavo Proust alla libreria Feltrinelli, distribuivo gratis i volantini di Lotta Continua, vomitavo lo Stock 84 sui sedili dell’autobus. Qualche volta la notte piangevo leggendo Lorca e Pavese” (p. 66). Welby era vivo e vivo voleva restare, sano e guarito. Combatteva per restare fedele a se stesso. Rifiutava il male. Si ricordava perfettamente di sé: la metamorfosi avvenuta era un'ingiustizia intollerabile, e il dolore per la perdita dell'indipendenza, dell'autonomia e delle libertà essenziali generava furia. Una furia non arginabile: assolutamente travolgente.
“Mi mancano i tuoi abbracci, i tuoi baci ruvidi, l'odore di tabacco e sicurezza, la tua mano forte dalla quale fuggire... per poi tornare... e le parole che mi spianavano la strada e le corse sui prati che tu mi lasciavi vincere... Dio! Dio! Voglio correre!” (p. 71). Tutto è diventato terribilmente, irreparabilmente lontano. Tutto è diventato impossibile. La natura è diventata impossibile. La natura rifiuta d'obbedire ai tuoi comandi. Ti strangola, e ti umilia.
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“Fiducia io nel genere umano? Certo! Oh sì, che ne ho!... Il futuro non desta certo preoccupazioni… continueremo ad ammazzarci in mille modi diversi, a sfruttare chicchessia o qualsivoglia cosa, a proclamare l’onnipotenza dell’ipocrisia, a rendere grazia a Mammon per la sua tintinnante bellezza... per saecula saeculorum... Amen…” (p. 97)
Welby è iconoclasta, furioso e nietzschiano. Il libro mi ha profondamente scosso, perché è espressione di un tormento irriducibile. L'anima è malata e ferita e tuttavia non vinta, mai vinta; credo che quest'opera testimoni che il corpo è soltanto un vestito. E che può diventare scomodo. Quest'uomo non può essersi dissolto. Il suo pensiero vive.
“Io voglio essere un handicappato stronzo. Io non voglio più essere comprensivo, voglio essere stronzo, rivendico il diritto alla mia parte di imbecillità, alla mia quota di acida indifferenza... voglio ingannare, mentire, calpestare i sentimenti, fregarmene delle disperazioni altrui, voglio una sana ipocrisia che mi circondi di tranquillità” (pp. 24-25), scriveva, con onestà impressionante. Fino all'ultima notte, quella senza perdono e penitenza, quella del castigo incomprensibile, “pena troppo grande per qualunque peccato”: il dolore, quella notte, s'era fatto muto.
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Il grande libro inedito di Welby, “Ocean Terminal”, è stato curato da suo nipote, il giovane letterato siciliano Francesco Lioce. Nella postfazione, racconta cosa ha significato amarlo e vivere al suo fianco. “Welby” - scrive - “mi ha insegnato che la conoscenza è la sola cosa per cui vale veramente la pena di vivere e che un'arte isolata non può esistere perché ogni espressione creativa è il rapporto tra chi la pratica e il mondo. E mi ha insegnato anzitutto che non bisogna mai dare troppa importanza ai momenti difficili. Ogni cosa muta, si cambia, ha un termine” (pp. 154-155). Allora, adesso, finalmente: punto.
Welby, scrittore, vive.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Piergiorgio Welby (Roma, 1945 – Roma, 2006), pittore, fotografo, giornalista, politico e scrittore italiano, militante per i diritti del cittadino e per l'eutanasia. Ha pubblicato, in vita, “Lasciatemi morire” (Rizzoli, 2006).
Piergiorgio Welby, “Ocean Terminal”, Castelvecchi, Roma 2009. A cura di Francesco Lioce. Collana Narrativa, 28. Contiene dei disegni di PGW.
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1 commento:
comprato, ordinato e arrivato, mo' me lo leggo
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