Granzotto contro Pavon in Alcologia San Michele - Capitolo 3
In quelle stesse ore, pochi metri sotto quei corridoi, nei sotterranei dell'ospedale dove aveva seguito di nascosto alcuni pazienti, il suo collega Giovanni Armando Guardicchio spiava dal buco della serratura il rito satanico che alcuni ricoverati di Alcologia ed altri di Psichiatria celebravano segretamente ogni domenica pomeriggio al posto della messa, plagiati dalla carismatica figura dell'altissimo Protervio Pavon con un'enorme esibizione del suo priapismo. Il sangue e l'ossigeno che con esso affluiva al tessuto spugnoso di quel pene abnorme gli venivano a mancare al cervello ed egli farneticava in bulgaro come in uno stato di trance: Az sum Pavon, az sum Pavon... io sono Pavon, e gli astanti cominciarono a ripetere dapprima sottovoce, poi in un crescendo di invocazione:Az sum Pavon, io sono Pavon... Con entrambe le mani il turpe leader degli alcolisti comunisti esperantisti si stimolava i testicoli gonfi come angurie mentre gli adepti si accalcavano a leccare la verga dell'anticristo, finché questi eruppe in una violenta eiaculazione ed essi si contesero il seme del male per abbeverarsene avidamente. Dall'altro capo del tavolo, nonostante l'illusoria protezione di una porta sbarrata e sborrata, Guardicchio non riuscì ad evitare un micidiale spermatozoo che lo ferì a morte istantaneamente, come un proiettile avvelenato penetrandogli in un occhio dal buco della serratura, e non potè mai osservare il bieco individuo riprendere fiato e il suo naturale colorito olivastro mentre gli adepti si ricomponevano ognuno al suo posto.
Protervio Pavon era nato e cresciuto ad Arnoldstein, un villaggio di frontiera con l'Italia dove il padre era stato doganiere e tornava a casa dal lavoro inveendo contro il progressivo abbattersi delle barriere alla circolazione delle merci e delle persone. Dapprima dovette accettare che i fumosi camion italiani scorazzassero liberamente inquinando le valli della Carinzia, poi perfino tollerare che proprio grazie ai traffici commerciali quei terroni di friulani sotto il confine fossero diventati ricchi, e infine le dogane furono abolite del tutto. Benché Pavon padre non avesse perso il lavoro – era ormai prossimo alla pensione -, era però disgustato dal libero andare e venire degli italiani, poi quegli zingari schifosi degli sloveni e così via nel domino balcanico fino agli infedeli turchi che in centinaia di migliaia già infestavano l’Austria un tempo gloriosa.
Il figlio Protervio, invece, pur abusando anch'egli di tutta quella retorica xenofoba e demagogica che gli valse un ottimo decollo elettorale all'esordio della sua carriera politica, col tempo addolcì i toni per non congelare i suoi numerosi voti nella nicchia dell'estrema destra, e cominciò a intravvedere l'occasione storica per ricostruire la Grande Germania con un altro nome e in un modo più subdolo. In particolare, tra i dettagli del piano della germanizzazione dell'Europa, la secessione dall'Italia del Triveneto, dove gli ingenti fondi di finanziamento dei movimenti separatisti arrivavano al conglomerato industriale facente capo alla famiglia friulana dei Tonza-Strassholden, asservita agli Asburgo per secoli, e alla sua matriarca autoritaria, la vampiresca contessa Giuliana Tonza-Strassholden, insieme alla quale Protervio si lanciava spesso in lunghe e appassionate quanto segretissime sessioni di sado-masochismo, durante una delle quali la contessa perse la vita in un gioco erotico estremo, ma non prima di avere dato alla luce l'incolpevole frutto del loro peccare.
La futura infermiera Viviana Pavon crebbe infelicemente diversa dalle coetanee che scoprivano le cose divertenti che potevano fare coi loro corpi di adolescenti in fiore. Quelle cose Viviana aveva già scoperto in decenni di violenze ad opera del padre padrone, e non le trovava affatto divertenti. Fin da bambina il depravato mentecatto aveva fatto di lei la sua schiava sessuale nel basamento seminterrato isolato acusticamente dove aveva allestito una camera di tortura degna di Torquemada. Ancor più sotto, nelle fondamenta della palazzina a San Michele del Friuli, scavando pochi centimetri si sarebbero viste spuntare le ossa delle giovani tirocinanti dei vicini ospedale ed università di San Michele, che il porco aveva discretamente attirato nella sua lussuosa villa, seviziato a morte insieme alla figlia e seppellito grossolanamente prima che installassero una vasca per distruggere i cadaveri nell'acido.
Viviana era di fatto diventata complice del padre perché prima della pubertà non si rendeva conto della turpitudine di essere schiaffeggiata con quella grossa appendice di carne marcescente che s'inturgidiva a farle sempre più male, uno dei trattamenti più umilianti che cominciò in modo quasi normale come forma di punizione. Crescendo divenne sempre più vittima e complice del suo aguzzino, che ora assisteva nel filmare le imprese che questi dirigeva sempre con la stessa sceneggiatura: la tortura, lo stupro e le amputazioni finché la vittima implorava la morte generosamente dispensata dall'abbietto alcolista.
Con l'adolescenza però le cose erano cambiate. Viviana aveva progressivamente acquisito la consapevolezza della colossale ingiustizia consistente nell'essere stata privata dell'infanzia, un furto al quale nessuno avrebbe mai potuto rimediare. Cominciò a odiare il maiale che vedeva diventare sempre più piccolo (era lei che cresceva), ma sapeva che ribellarsi l'avrebbe condotta alla stessa fine delle povere disgraziate che non potevano lasciare vive per testimoniare quanto avevano subito. Scelse così di continuare a collaborare, suo malgrado, e covare intimamente i suoi propositi di vendetta per quando si fosse presentata l'occasione di farsi giustizia, occasione che ormai sentiva non essere lontana.
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