Alessandro Tessari, UNA FAVOLA NUCLEARE
6. L’INFLAZIONE
Nel frattempo gli uffici studi dei comuni avevano fatto un po’ di conti e considerata la miseria di questa regalia fanno montare una protesta di carattere tecnico. Dai quattro angoli della penisola, sindaci di tutti i colori dell’arcobaleno soffiano sul fuoco del malcontento popolare. Diffondono tra la gente l’idea che quelli della Commissione non sappiano fare di conto, che non capiscano proprio nulla di finanza. Ma, come si fa, diamine, a dare dei contributi fissi con questi tassi di inflazione che ci ritroviamo? Tra qualche anno ci troveremo con un pugno di mosche, mormorano da tutte le parti.
Una sussiegosa rappresentanza dell’arco costituzionale chiede di farsi sentire. Il colloquio è pieno di congiuntivi e di concetti teorici di grande respiro. Il succo, pressappoco questo: sì, sono proprio quattro soldi… dateceli almeno indicizzati. La Commissione, che si muove in sintonia con l’arcobaleno dell’arco costituzionale, non può non convenire sulla liceità della richiesta. Così, nel testo, si precisa che i “contributi di cui… sono indicizzati”.
Erano passati ormai molti mesi dall’inizio dei lavori per la redazione di questo testo di legge faticosissimo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la legge constava di un solo articolo ma di così densa sapienza legislativa che le stagioni passavano e i commissari non riuscivano ad arrivare al dunque. Dopo la primavera giunse l’estate. L’ostruttore, che non era mai andato a casa per timore che in sua assenza la Commissione commettesse chissà quali nefandezze, continuava imperterrito a parlare. In luglio tutti i commissari sfoggiavano eleganti e leggeri abiti di lino chiaro con camicie fresche. L’ostruttore, non essendosi potuto cambiare d’abito, sudava molto coi suoi panni invernali ma la passione che lo animava non lo rendeva accorto di quanto andava accadendo e mutando attorno a lui. Ormai i suoi abiti si confondevano con il colore verdastro del cuoio della sedia da dove non s’era, per molti mesi, scollato.
Venne l’autunno con le sue piogge. Con le piogge venne anche il PEC. Nonostante l’opinione dell’ostruttore, PEC non è la sigla abbreviativa del peculato. È una cosa diversa. Da molti anni non fa dormire gli abitanti dell’Appennino tosco-emiliano. Il PEC è strettamente connesso con il piano nucleare ma non è esso stesso una centrale e quindi non c’era verso di inserirlo, con i suoi abitanti, nei benefici della legge. Fu, all’uopo, lanciato un appello alle più belle intelligenze del Paese perché studiassero il modo di far rientrare anche il PEC nella filosofia della legge. Dopo molto pensare si scoprì che il PEC è un reattore per la sperimentazione dei combustibili delle centrali elettriche di tipo avanzato.
Questi scienziati sono straordinari: riescono a fare delle conferenze dandoti sempre la sensazione che si parli d’altro. Hanno perfino suggerito al Comitato nazionale per l’energia nucleare di cambiare nome e look: difatti oggi l’Ente che promuove il nucleare in Italia è conosciuto con il nome d’arte ENEA, che oltre a costituire un omaggio doveroso alla nobile tradizione virgiliana, si può anche decodificare come Ente nazionale energie alternative. E tutti converranno che è molto più tranquillizzante questo stile tutto allusioni ed elusioni.
Quindi, trovato che il PEC è un reattore come tutti gli altri reattori, anche se non produce energia elettrica, si pensò che sarebbe stato scandaloso escluderlo dalla legge. Alla Commissione, cui non verrebbe mai in mente di opporsi in qualche modo al parere dei tecnici, la cosa appare così ovvia che si conviene subito di dare qualche soldino anche al comune che ospita un così importante reattore.
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