“Gli assassini”, continuò Dupuis, “dovevano essere fuggiti dall’altra finestra. Supponendo che le molle delle due finestre fossero uguali, come era probabile, si doveva trovare una differenza tra i due chiodi, o almeno nel modo in cui erano stati fissati. Salii sul telo della lettiera ed eaminai l’altra finestra da sopra la testiera. Feci scorrere la mano dietro il bordo del letto e scoprii con falsità la molla e la feci scattare. Come avevo supposto, era identica alla prima. Allora, esaminai il chiodo. Era della stessa grandezza dell’altro e piantato allo stesso modo nel telaio fino alla testa. Lei penserà che mi trovassi in imbarazzo; se così fosse, significherebbe che lei non ha capito la natura delle mie induzioni. Per usare un termine dello sport, non avevo commesso un solo ‘fallo’, non avevo mai perso la traccia, non c’era nessuna incrinatura negli anelli della catena. Avevo ricostruito il mistero fino in fondo, e il risultato era il chiodo. Somigliava in tutto all’altro, ma questo fatto, conclusivo in apparenza, diventava irrilevante di fronte alla considerazione che qui portavano gli indizi. ‘Deve pur esserci un difetto, qualcosa che non va nel chiodo’, mi dissi. Lo toccai, e la capocchia, con circa sei millimetri del gambo, mi restò tra le dita. Il resto del chiodo era rimasto nel buco, dove si era spezzato. Questa frattura era molto antica visto che gli orli erano coperti di ruggine, ed era stata apparentemente prodotta da un colpo di martello, che aveva in parte affondato la testa del chiodo nel fondo dello stipite. Ricollocai con estrema cura la testa dove era prima e sembrò in tutto e per tutto poiché la frattura era invisibile. Premendo la molla, sollevai dolcemente il telaio di qualche centimetro; la testa del chiodo venne via con lui, senza muoversi dal suo buco. Rimisi a posto il telaio e il chiodo riassunse di nuovo l’aspetto di un chiodo intetto. Fino a questo punto l’enigma era sciolto. L’assassino era fuggito dalla parte del letto. Che si fosse chiusa da sola dopo la fuga o che fosse stata chiusa da una mano umana, la finestra era stata trattenuta dalla molla e la polizia aveva pensato invece che la resistenza fosse dovuta al chiodo, e ogni ulteriore indagine in questa direzione era sembrata superflua. Il problema successivo era adesso il modo in cui era avvenuta la discesa. Su questo punto mi ero chiarito le idee durante la passeggiata attorno al palazzo. A circa un metro e settanta dalla finestra in questione corre il cavo di un parafulmine. Da questo cavo, sarebbe stato impossibile per chiunque raggiungere la finestra e a maggior ragione entrare. Tuttavia, avevo  notato che le imposte del quarto piano erano di quel particolare genere che i falegnami parigini chiamavano ferrades, un genere oggi piuttosto raro, che si trova con grande frequenza nelle case di Lione e di Bordeaux. Sono fatte come una comune porta, a un solo battente e non due, a eccezione della parte superiore che è di graticcio e offre un’ottima presa perle mani. Nel nostro caso le imposte sono larghe oltre un metro. Quando le abbiamo esaminate dal retro della casa, erano entrambe semiaperte, formavano con il muro un angolo retto. Presumo che la polizia, come me, abbia esaminato la parte posteriore della casa; ma guardando le ferrades nel senso della larghezza, come devono aver fatto, certamente non ha rilevato questa notevole larghezza o perlomeno non le ha dato l’importanza necessaria. In pratica, nella persuasione che la fuga non poteva essere avvenuta da quella parte, la polizia ha effettuato, come è naturale, un esame assai superficiale. Per me, a questo punto, era evidente che l’imposta della finestra situata dietro il capezzale del letto, se spinta contro il muro sarebbe arrivata a circa sessanta centimetri dal cavo del parafulmine. Era chiaro anche che, grazie a un’agilità e a un coraggio fuori dal comune, con l’aiuto del cavo si poteva entrare dalla finestra. Protendendosi a una distanza di circa ottanta centimetri – supponendo l’imposta completamente aperta – un ladro avrebbe potuto trovare nll’inferriata un punto di presa molto solido. Di lì lasciando la presa del cavo, puntando i piedi contro il muro e dandosi con audacia avrebbe potuto spingere violentemente l’imposta in modo di chiuderla e penetrare nella stanza. Vorrei che tenesse presente soprattutto che stiamo parlando di una energia molto fuori del comune, per essere in grado di riuscire in un’impresa tanto difficile e rischiosa. Il mio scopo è dimostrarle, in primo luogo che la cosa si poteva fare e, in secondo luogo, e soprattutto, attirare la sua attenzione sul carattere assolutamente straordinario, quasi sovraumano dell’agilità necessaria per riuscirvi. Lei mi risponderà certamente, servendosi del linguaggio giuridico, che per ‘spiegare il caso’ dovrei piuttosto sottovalutare anziché sottolineare la straordinaria energia necessaria. Ma questa è la pratica dei tribunali, non della ragione. Il mio obiettivo finale è la verità. Il mio scopo del momento è di indurla a mettere in relazione questa energia molto fuori del comune di cui ho parlato ora, con quella voce particolare, una voce, stridula o aspra, sulla cui razionalità nemmeno due testimoni si sono trovati d’accordo e in cui nessuno è riuscito a distinguere poche parole articolate”.

[8 di 12. continua]


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