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– L’Inghilterra
Carissimo
John, […] Milton Keynes è una della trentina di nuove città
periferiche costruite in Gran Bretagna dopo la seconda guerra
mondiale per alleviare la pressione sulle metropoli, e il suo nome
non ha niente a che fare con il noto economista americano, bensì con
un proprietario terriero, tale Mister Keynes, che viveva nel
villaggio di Milton. Tutte queste nuove città fanno piuttosto
schifo: generalmente a pianta quadrangolare, sono concepite per
automobili, fabbriche, uffici e centri commerciali. In quello di
Milton Keynes c’è una delle due principali (uniche) attrazioni
della città, una pista da sci al coperto in un alto capannone dalla
forma ovoidale, l’altra essendo le famose mega-mucche finte che
accolgono il visitatore.
È
la palpabile mancanza di storia di questi luoghi fatti solo di
edifici moderni che mi metteva a disagio, ma un altro disagio
maggiore riguardò il lavoro: avevo sbagliato accettando una
posizione in un call centre di un’altra ditta di software
informatici dove però dovevo lavorare solo in francese, e tu sai
come tra le mie quattro lingue il francese sia la più stentata. Lo
parlo, lo capisco, ma in realtà penso in italiano e lo francesizzo,
con tutti i “falsi amici” (parole che suonano simili ma hanno
tutt’altro significato) che ne conseguono, e soprattutto non lo so
scrivere, con tutti quegli accenti e il cazzetto sotto la ç. Perciò
mi trovai in difficoltà, resistetti solo un mese e poi crollai per
la frustrazione, dirigendomi ulteriormente a sud, verso la capitale.
A
Londra trovai lavoro il giorno dopo esserci arrivato, nel call centre
delle biblioteche della municipalità di Westminster. Un lavoro
simpatico in cui indirizzavo i cittadini alla biblioteca dove trovare
il libro che cercavano, ed altri servizi consimili come il recapito
del libro a domicilio per i disabili, e così via. Soprattutto era
bella la posizione del luogo di lavoro, al quarto piano di un
edificio che dava sul retro di Buckingham palace, per cui dalla
finestra si potevano vedere i servi della regina portare a spasso i
suoi stupidi cagnolini corgi (Sua Maestà però non l’ho mai vista)
nei giardini del palazzo reale. Infelice era invece il posto dove
abitavo, una squallida stanzetta in una strada periferica dal
traffico talmente rumoroso da rendere impossibile il sonno. Ma con
quel poco che guadagnavo non potevo permettermi di meglio e continuai
a cercare qualcosa di più redditizio.
continuai
a cerare qualcosa di più redditizio.uallida stanzetta in una strada
periferica talmente rumorosaper cui dalla finest
Lo
trovai in un’altra multinazionale secolare, nel settore delle
telecomunicazioni, ed è stato il lavoro più qualificato che abbia
mai svolto nel settore dei call centre. Infatti non era un qualsiasi
call centre bensì un helpdesk. Ovvero se il cliente interno (uno dei
cinquemila dipendenti in tutto il mondo) aveva dei problemi col
computer, chiamava noi che lo si aiutava a risolverlo, o lo si
risolveva collegandosi in accesso remoto, oppure infine, se era un
problema di hardware, si caricava un ticket per mandargli un tecnico
sul posto. Prendevo solo una quarantina di chiamate al giorno contro
le 120-150 che prendevo o effettuavo in precedenza, per oltre 1300
sterline nette mensili che al cambio dell’epoca erano circa duemila
euro.
Perciò
il lavoro procedeva bene, se non per il fatto che purtroppo la sede
era a Bracknell, un’altra delle nuove città senza storia il cui
centro è costituito, appunto, dal centro commerciale, ma i dintorni
del Berkshire erano belli, con il castello di Windsor e l’ovodromo,
pardon, l’ippodromo di Ascot. Mi ci trasferii per risparmiare sui
trasporti e per tre anni e mezzo vissi in una bella stanza dove
facevo l’amore con una giovane e bella cameriera sicula del bar
aziendale, nel quale il nuovo amministratore delegato aveva
introdotto la pizza. Infatti il nuovo amministratore delegato era un
grande manager napoletano che oltre a introdurre in mensa la pizza
riuscì quasi a fare fallire un’azienda con 120 anni di storia.
L’azienda dovette fondersi con un concorrente più giovane e sano
che operò drastici tagli, tra i quali il trasferimento dell’helpdesk
a Bangalore, in India, dove un validissimo analista anglofono costa
un quinto di quanto costassimo noi.
Era
il 2007 e cominciava a sentirsi puzza di crisi. Dovetti pertanto
ritenermi fortunata a trovare un lavoro precario nella divisione
telemarketing nella sede londinese di una delle principali
televisioni americane. Prendevo solo otto sterline all’ora ma tra
le varie campagne riuscii ad appioppare sistemi di rete senza fili da
oltre centomila euro ciascuno a due aeroporti italiani. La locazione
dell’edificio era stupenda, a due passi dalla sponda sud del
Tamigi, lungo la quale passeggiavo in pausa pranzo dalla galleria
Tate d’arte moderna al ponte di Westminster passando sotto quelli
di Waterloo e dei Frati neri (quello di Calvi), godendo della vista
sull’altra sponda dalla City al parlamento. Però con quel magro
compenso dovetti trasferirmi in un’altra squallida stanza sotto la
direttrice di approccio atterraggio alla pista sud dell’aeroporto
di Heathrow, uno dei più trafficati del mondo: mille aerei al
giorno, praticamente uno al minuto da prima delle 6 del mattino fino
a ben oltre mezzanotte, mi martellavano le orecchie con il chiasso
infernale che fa un quadrireattore a cento metri sopra la mia zucca
già abbastanza bacata. Traumatizzata dal rumore, incapace di pagare
l’affitto e per la depressione alcolica incapace anche di cercare
un altro lavoro, fu così che mi diedi al vagabondaggio, del quale ti
racconterò la prossima volta.
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