11 – L’Inghilterra

Carissimo John, […] Milton Keynes è una della trentina di nuove città periferiche costruite in Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale per alleviare la pressione sulle metropoli, e il suo nome non ha niente a che fare con il noto economista americano, bensì con un proprietario terriero, tale Mister Keynes, che viveva nel villaggio di Milton. Tutte queste nuove città fanno piuttosto schifo: generalmente a pianta quadrangolare, sono concepite per automobili, fabbriche, uffici e centri commerciali. In quello di Milton Keynes c’è una delle due principali (uniche) attrazioni della città, una pista da sci al coperto in un alto capannone dalla forma ovoidale, l’altra essendo le famose mega-mucche finte che accolgono il visitatore.

È la palpabile mancanza di storia di questi luoghi fatti solo di edifici moderni che mi metteva a disagio, ma un altro disagio maggiore riguardò il lavoro: avevo sbagliato accettando una posizione in un call centre di un’altra ditta di software informatici dove però dovevo lavorare solo in francese, e tu sai come tra le mie quattro lingue il francese sia la più stentata. Lo parlo, lo capisco, ma in realtà penso in italiano e lo francesizzo, con tutti i “falsi amici” (parole che suonano simili ma hanno tutt’altro significato) che ne conseguono, e soprattutto non lo so scrivere, con tutti quegli accenti e il cazzetto sotto la ç. Perciò mi trovai in difficoltà, resistetti solo un mese e poi crollai per la frustrazione, dirigendomi ulteriormente a sud, verso la capitale.

A Londra trovai lavoro il giorno dopo esserci arrivato, nel call centre delle biblioteche della municipalità di Westminster. Un lavoro simpatico in cui indirizzavo i cittadini alla biblioteca dove trovare il libro che cercavano, ed altri servizi consimili come il recapito del libro a domicilio per i disabili, e così via. Soprattutto era bella la posizione del luogo di lavoro, al quarto piano di un edificio che dava sul retro di Buckingham palace, per cui dalla finestra si potevano vedere i servi della regina portare a spasso i suoi stupidi cagnolini corgi (Sua Maestà però non l’ho mai vista) nei giardini del palazzo reale. Infelice era invece il posto dove abitavo, una squallida stanzetta in una strada periferica dal traffico talmente rumoroso da rendere impossibile il sonno. Ma con quel poco che guadagnavo non potevo permettermi di meglio e continuai a cercare qualcosa di più redditizio.

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Lo trovai in un’altra multinazionale secolare, nel settore delle telecomunicazioni, ed è stato il lavoro più qualificato che abbia mai svolto nel settore dei call centre. Infatti non era un qualsiasi call centre bensì un helpdesk. Ovvero se il cliente interno (uno dei cinquemila dipendenti in tutto il mondo) aveva dei problemi col computer, chiamava noi che lo si aiutava a risolverlo, o lo si risolveva collegandosi in accesso remoto, oppure infine, se era un problema di hardware, si caricava un ticket per mandargli un tecnico sul posto. Prendevo solo una quarantina di chiamate al giorno contro le 120-150 che prendevo o effettuavo in precedenza, per oltre 1300 sterline nette mensili che al cambio dell’epoca erano circa duemila euro.

Perciò il lavoro procedeva bene, se non per il fatto che purtroppo la sede era a Bracknell, un’altra delle nuove città senza storia il cui centro è costituito, appunto, dal centro commerciale, ma i dintorni del Berkshire erano belli, con il castello di Windsor e l’ovodromo, pardon, l’ippodromo di Ascot. Mi ci trasferii per risparmiare sui trasporti e per tre anni e mezzo vissi in una bella stanza dove facevo l’amore con una giovane e bella cameriera sicula del bar aziendale, nel quale il nuovo amministratore delegato aveva introdotto la pizza. Infatti il nuovo amministratore delegato era un grande manager napoletano che oltre a introdurre in mensa la pizza riuscì quasi a fare fallire un’azienda con 120 anni di storia. L’azienda dovette fondersi con un concorrente più giovane e sano che operò drastici tagli, tra i quali il trasferimento dell’helpdesk a Bangalore, in India, dove un validissimo analista anglofono costa un quinto di quanto costassimo noi.

Era il 2007 e cominciava a sentirsi puzza di crisi. Dovetti pertanto ritenermi fortunata a trovare un lavoro precario nella divisione telemarketing nella sede londinese di una delle principali televisioni americane. Prendevo solo otto sterline all’ora ma tra le varie campagne riuscii ad appioppare sistemi di rete senza fili da oltre centomila euro ciascuno a due aeroporti italiani. La locazione dell’edificio era stupenda, a due passi dalla sponda sud del Tamigi, lungo la quale passeggiavo in pausa pranzo dalla galleria Tate d’arte moderna al ponte di Westminster passando sotto quelli di Waterloo e dei Frati neri (quello di Calvi), godendo della vista sull’altra sponda dalla City al parlamento. Però con quel magro compenso dovetti trasferirmi in un’altra squallida stanza sotto la direttrice di approccio atterraggio alla pista sud dell’aeroporto di Heathrow, uno dei più trafficati del mondo: mille aerei al giorno, praticamente uno al minuto da prima delle 6 del mattino fino a ben oltre mezzanotte, mi martellavano le orecchie con il chiasso infernale che fa un quadrireattore a cento metri sopra la mia zucca già abbastanza bacata. Traumatizzata dal rumore, incapace di pagare l’affitto e per la depressione alcolica incapace anche di cercare un altro lavoro, fu così che mi diedi al vagabondaggio, del quale ti racconterò la prossima volta.



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