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– La mia Ex
La
tirchieria del Granelli non può che evocarmi alla mente la mia
ragazza dell’epoca, Virginia, una Ex con la E maiuscola. Non che
lei fosse tirchia, tutt’altro: aveva le mani bucate, ma abituata a
vivere in strada mi parlava spesso di come si potessero consumare
gratuitamente una varietà di beni e servizi. Per esempio come
viaggiare gratis in treno, auto-denunciandosi al controllore subito
dopo la partenza, fingendo di essere stati derubati di denaro e
documenti, per essere sbattuti giù, ma senza multa, alla fermata
successiva e ricominciare col prossimo treno. Col vantaggio, tra
l’altro, di poter fumare durante le soste. Io non ero tanto
interessato dal punto di vista utilitaristico (non mi sognerei mai di
viaggiare in quel modo, impiegando 16 ore per fare 400 km), quanto
invece mi affascinava quella sua filosofia che mi sarebbe comunque
stata di ispirazione nel lavoro e nella vita, perciò per quanto
abbia sempre odiato il fumo le permettevo di inalare sul balcone,
ascoltandola rapito. E innamorato.
Fumatrice
incallita, credo che Virginia non abbia mai comprato un pacchetto di
sigarette in vita sua. Le sere del fine settimana faceva il giro
della ventina di affollati Bar del centro scroccandole a quelli che
esibivano il pacchetto sul tavolino e non potevano certo mentirle
“non fumo”. Ogni venerdì e sabato sera in meno di un’ora
riusciva a mettere insieme un pacchetto per il giorno successivo, ma
ci riusciva anche nei giorni lavorativi, con un altro metodo: non
avendo niente di meglio da fare raccoglieva per le strade i mozziconi
che avessero ancora dentro almeno un centimetro di tabacco, che
recuperava buttando i filtri (nei cestini della stazione, non per
terra come gli sporcaccioni sui quali parassitava), e tutto quello
che doveva spendere era in cartine, giacché i filtrini se li
arrotolava con un altro di quei generi che non aveva mai acquistato
in vita sua: i biglietti del treno, ovviamente usati, che rinveniva
nella stazione stessa, punto di riferimento universale di ogni buon
vagabondo.
Tuttavia,
saltuariamente e precariamente, doveva anche lei lavorare per
alimentare quelli che chiamava i suoi bisogni tossici primari, cioè
le altre droghe che a differenza del tabacco non c’era alternativa
all’acquistarle. Infatti il mese tipico di Virginia consisteva in
una settimana ad alcol, la seconda a cannabis, la terza nuovamente
alcolica e l’ultima a benzodiazepine tipo Valium e Xanax, per poi
ricominciare il ciclo, coincidente con quello mestruale e le fasi
lunari. Tutta roba che costa e non si può scroccare, se non in
minime quantità assolutamente insufficienti per lei, che pertanto
prendeva dei lavoretti nei famigerati call centre.
È
stato così che l’ho conosciuta. Il sistema funziona in questo
modo: l’operatrice del call centre chiama una gran quantità di
utenze in una tale provincia per convincere chi risponde
(generalmente una casalinga) a ricevere senza impegno un nostro
agente, nella fattispecie il sottoscritto, per una dimostrazione
gratuita. Statisticamente, sul gran numero di chiamate riuscirà a
prendermi almeno tre appuntamenti al giorno, talvolta anche 5 o 6.
Questo si chiama generare una lead,
ovvero una opportunità per il venditore. Lei non deve vendere niente
per telefono, perciò si chiama telemarketing e non telesales.
Riuscire a vendere sarà compito mio, che però sono enormemente
facilitato dall’andare a visitare qualcuno già vagamente
interessato o quantomeno predisposto a ricevermi, invece di suonare
campanelli a casaccio.
Virginia
era molto brava non solo nella quantità di lead che mi generava, ma
anche nella qualità: ci si sentiva più volte al giorno e a
discapito della sua infinitesimale provvigione scartava una lead
consigliandomi: “guarda, per domani hai un appuntamento alle 15 nel
posto X e uno alle 16 a venti km di distanza. In teoria ce la
potresti fare, ma secondo me ti conviene rinunciare al primo che
potrebbe farti perdere tempo arrivando in ritardo al secondo che
invece suona più promettente”. Aveva la capacità non comune di
sintonizzarsi sulla frequenza della persona con cui parlava e capire
se accettava la visita per un effettivo bisogno dell’oggetto oppure
solo per curiosità.
E
curiosità fu da parte mia, per il suo ottimo lavoro e l’ormai
consolidata amicizia telefonica, che mi spinse ad invitarla per
conoscerci personalmente. L’indomani a metà pomeriggio, quando lo
storico locale milanese è quieto e accogliente, non ancora invaso
dalla folla degli aperitivisti, davanti a due birre rosse al Bar
Magenta rimasi stordito dalla sua bellezza: sotto i lunghi capelli
nerissimi mi abbagliavano due occhioni verdi a contornare un aquilino
nasoppione giudaico-romano sopra labbra da favola. Tutto il resto del
suo corpo meraviglioso l’avrei scoperto la sera stessa nel mo
letto, dopo avere trascorso il pomeriggio al Parco Sempione a parlare
e parlare di tutto, come se ci conoscessimo da sempre.
Nei
mesi di relazione che seguirono, la sua bisessualità (o
pansessualità come la chiamava lei) non mi infastidì. Finché mi
tradiva con delle ragazze, l’importante era che non lo facesse con
un altro uomo, e questo non accadde. La storia finì invece per il
suo indomabile spirito libertario. Aveva dentro un nucleo
esistenziale di sofferenza che la spingeva a scappare fisicamente da
un luogo nell’illusione di riuscire a fuggire da sé stessa. Andò
a Roma e ci sentimmo solo qualche volta per telefono, poi lentamente
la candela della comunicazione si spense. Aveva nuovamente cambiato
lavoro e città, io non ne conoscevo il nuovo indirizzo. Molti anni
dopo con l’avvento dei social network appresi, ma senza osare
contattarla, che aveva continuato a svolgere lavori precari nei call
centre, sia in Gran Bretagna che in Italia. Per quanto inchiodata a
una scrivania con delle cuffie in testa a mo’ di guinzaglio, si può
dire che anche nel suo caso il lavoro mobilita.
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